L’accordo commerciale Usa-Ue di cui non sai niente e che va fermato – 2/9/2025
Ue-USA, un accordo ci vincola a gas, chip e armamenti, sacrificando clima e autonomia; intanto Trump progetta la sua Dubai a Gaza e a scuola si torna senza smartphone.
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Fonti
#Usa-Ue
Italia che Cambia – Usa-Ue, cosa c’è nell’accordo quadro commerciale: la tregua sui dazi sarà pagata in fonti fossili, armamenti e tecnologia
European Commission – Joint Statement on a United States-European Union framework on an agreement on reciprocal, fair and balanced trade
#Gaza
il Post – Alla Casa Bianca si sta davvero parlando di trasformare Gaza in una specie di Dubai
la Repubblica – Così Trump vuole fare di Gaza un enorme portafoglio digitale
#scuola
sky tg 24 – Smartphone vietati in classe, ecco come ci si prepara alle nuove regole
Trascrizione episdio
Una delle robe più grosse, importanti, gravi, successe durante l’estate è una roba di cui, come spesso accade, non avete sentito parlare. E lo dico con una certa sicurezza perché era sfuggito anche a me, nessun giornale, letteralmente nessun giornale tranne noi ieri, ne ha parlato, e io l’ho scoperto grazie a una segnalazione di un ascoltatore di INMR, che ringrazio di cuore, che mi ha girato la notizia direttamente dalla fonte, e la fonte è un comunicato pubblicato sul sito dell’Ue.
Sto parlando dell’accordo quadro fra Usa e Ue che è stato approvato il 20 agosto, e che fa seguito al discusso incontro fra Trump e Von der Leyen, in cui la Presidente della Commissione è stata accusata di essere stata fin troppo indulgente nel fare concessioni al Presidente Usa pur di evitare l’applicazione dei suoi famigerati dazi.
In pratica Gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno firmato un nuovo accordo quadro commerciale, un framework agreement, che sarebbe una sorta accordo di base, senza ancora i dettagli, ma che fungerà da cornice per futuri accordi più precisi e puntuali. Per l’Ue l’accordo è una sorta di tregua, serve a evitare un’escalation di dazi, ma è una sconfitta da tanti punti di vista.
Il cuore dell’accordo è questo che gli Usa si impegnano a tenere dei dazi molto più bassi e limitati del previsto in cambio dell’impegno dell’Ue di non mettere dazi sui prodotti Usa e anzi di acquistare tutta una serie di beni e servizi. In particolare l’Unione Europea si impegna ad acquistare entro il 2028 fino a 750 miliardi di dollari in gas naturale liquefatto, petrolio e prodotti nucleari statunitensi.
A questi si aggiungono almeno 40 miliardi di dollari in chip avanzati per l’intelligenza artificiale, destinati a potenziare i centri di calcolo europei. Una mossa che rafforza ancora di più la dipendenza energetica e tecnologica dell’Europa dagli Stati Uniti, in un contesto post-crisi ucraina, ma che mette anche in discussione le ambizioni climatiche del vecchio continente. Fra l’altro sia il gas che il petrolio Usa sono sia particolarmente impattanti dal punto di vista ambientale e anche particolarmente cari.
Un passaggio che mi ha fatto sobbalzare è quello in cui si legge che le esportazioni energetiche statunitensi comportano “un rischio trascurabile di deforestazione globale”. Una frase che sembra scritta apposta per aggirare le nuove leggi europee contro l’importazione di prodotti legati alla deforestazione.
Oltre all’energia e alla tecnologia, c’è anche un’espansione della cooperazione militare. L’UE si impegna ad aumentare l’acquisto di armamenti e tecnologie della difesa made in USA, in nome di una maggiore interoperabilità tra le forze NATO.
C’è poi tutta la questione della sicurezza tecnologica, con una serie di riferimenti molto chiari alla Cina, che non viene mai nominata ma è presentissima in questo testo. Il testo parla infatti di prevenire la fuga di tecnologie verso “destinazioni di preoccupazione” e invita a una maggiore armonizzazione delle regole su investimenti, export e catene di approvvigionamento. In altre parole, gli USA chiedono all’Europa di allinearsi ai loro standard, soprattutto sull’intelligenza artificiale, e di adottare una linea più dura verso i Paesi con economie non di mercato.
In tutto ciò, e veniamo forse alla questione più preoccupante, non solo non si fa nessun riferimento a limiti alle emissioni, nessuna condizione ambientale legata all’import di fossili, ecc, ma anzi, l’Unione Europea si impegna a rivedere alcune delle sue normative ambientali più avanzate, come il CBAM — il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere — e la direttiva sulla due diligence aziendale.
Sono due leggi importantissime che regolano il mercato europeo. Il CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism) è una sorta di tassa sul carbonio applicata ai prodotti importati nell’Unione Europea. Serve a evitare che aziende extra-UE, che non rispettano standard ambientali stringenti, possano vendere a prezzi più bassi sul mercato europeo.
La Due diligence invece impone alle grandi aziende europee (e alle aziende straniere che operano in Europa) di controllare che lungo tutta la loro catena di fornitura non vengano violati i diritti umani o causati danni ambientali.
Insomma, si tratta di un accordo che rischia di fare una quantità di danni enorme. L’Europa potrebbe essere un faro per le politiche climatiche e ambientali mondiali, abbiamo delle normative che comunque sono fra le più all’avanguardia del mondo, e invece sceglie di inseguire il gioco al ribasso di Trump. E non si può nemmeno dare la colpa a Trump, nel senso che comunque la nuova composizione del Parlamento Ue sta cercando di boicottare il Green Deal da mesi.
Avrete forse letto o ascoltato del piano Trump per Gaza. Se non sapete cosa sia ve lo riassumo in breve: trasformare la Striscia di Gaza in una sorta di Dubai sul Mediterraneo, con grattacieli, resort di lusso, distretti industriali futuristici e città progettate con l’intelligenza artificiale.
Ne avevao già accennato prima dell’estate, quando sempre Trump dai suoi profili social aveva postato un video creato con l’IA in cui si vedeva questa striscia di gaza del futuro, costellata di sfarzo, lusso e ricchezza, con lo stesso Trump sulla sdraio assieme a Netanyahu che bevevano un cocktail, una statua d’oro di Trump e altre robe strane.
Ai tempi ci eravamo fatti la domanda, non solo noi un po’ tutti, che chiunque, sempre, si fa quando Trump ne fa una delle sue: ma è serio o sta scherzando? Pare che fosse serio, e che quel video non fosse una roba di cattivo gusto ma proprio un piano progettuale. Il Washington Post infatti ha pubblicato qualche due giorni fa il documento di 38 pagine, circolato all’interno dell’amministrazione Trump, che mette nero su bianco i dettagli del piano Trump per Gaza.
Che prevede questo piano? Innazitutto, una volta completata la distruzione della Striscia (non c’è scritto ma è implicito) c’è un programma di “trasferimento volontario” delle persone, cioè un’operazione per spingere economicamente i palestinesi ad andarsene, promettendo cinquemila dollari e qualche aiuto a chiunque accetti di lasciare Gaza durante la ricostruzione.
Per i palestinesi che oggi vivono a Gaza, quindi, ci sarebbero due opzioni: o prendere i soldi e andarsene (non si sa bene dove) oppure, chi resta, verrà messo inizialmente in “strutture temporanee”, poi riceverà un appartamento in una delle nuove città.
Tutto questo processo, poi, come spiega Repubblica, sarebbe basato sulla cosiddetta “tokenizzazione dei beni, ovvero, la tokenizzazione di Gaza. La creazione cioè di gettoni (token) in grado di legare il valore della terra, delle proprietà, a un contratto digitale. Un po’ come avviene con le criptovalute. Ma con implicazioni assai più complesse e discutibili sul piano etico”.
“Il piano prevede che gli Stati Uniti prendano il controllo del territorio palestinese sotto forma di amministrazione fiduciaria per circa dieci anni. Durante questo periodo, i due milioni di abitanti di Gaza saranno spostati tramite un programma descritto dal documento come “volontario”. Ai residenti verrebbero assegnati dei token speciali per la loro terra o per le proprietà che lasceranno più o meno temporaneamente. Contratti in grado di dimostrare in futuro di avere diritto a una certa porzione di un palazzo costruito su un terreno, o di possedere la proprietà di un terreno”.
Queste nuove città a cui si fa riferimento sarebbero 6-8 città ultramoderne nell’interno della Striscia, con grattacieli ovunque. Sarebbe previsto un distretto industriale che dovrebbe portare il nome di Elon Musk, e una grande arteria stradale verrebbe dedicata a Mohammed bin Salman, il principe saudita.
In generale il documento è molto grafico, pieno di immagini ad effetto. Al Washington Post, due fonti che hanno lavorato al piano hanno spiegato che l’idea era quella di “realizzare il sogno di Trump” di fare di Gaza “la riviera del Medio Oriente”. E in effetti il documento è pieno di immagini patinate, generate con l’intelligenza artificiale, grafici colorati e frasi scritte in font giganteschi, come se fosse stato pensato apposta per colpire l’occhio — e l’attenzione — di un uomo diciamo “poco incline alla lettura approfondita” come Trump.
Si invece molto vaghi su tutta una serie di aspetti non proprio marginali: chi paga? Chi governa? Come si gestisce politicamente e umanamente un’area che oggi è completamente distrutta e in cui vivono, o sopravvivono, più di due milioni di persone? Si parla solo genericamente di una “gestione condivisa” tra Stati Uniti e Israele per dieci anni, attraverso una sorta di fondo misto pubblico-privato, per poi passare la mano a una “entità palestinese” non meglio definita.
Ora, il piano non è stato ancora adottato ufficialmente, ma il fatto che circoli tra i piani alti dell’amministrazione statunitense fa capire che c’è chi lo prende molto sul serio. Tra i suoi autori, fra l’altro, ci sono le stesse persone che hanno contribuito alla creazione della Gaza Humanitarian Foundation, l’ONG israeliana accusata di usare la distribuzione di cibo come strumento di pressione politica e militare sulla popolazione palestinese.
Ora, che fare davanti a un piano come questo? Come commentare? Davvero, è difficile. È chiaramente una roba tremenda, che sembra partorita da un libro distopico e che è talmente assurda che si fa fatica anche ad indignarsi. E poi, diciamocelo, indignarsi contro Trump è tempo perso. Significa fare il suo gioco.
Al momento l’unica strategia che sembra pagare contro Trump, almeno a livello politico, è quella messa in atto dal governatore della California Gavin Newsom, probabile candidato alle prossime primarie democratiche, che cerca di rispondere a Trump facendo il Trump, quindo con sfottò e strafottenza. Una roba che paga nei sondaggi ma che ovviamente solleva una serie di dubbi legittimi. L’altra opzione è ignorare Trump, il che ci sta anche (qui stiamo provando a farlo), ma non si può nemmeno ignorarlo per sempre.
Comunque, il dibattito è aperto.
Sta per partire il nuovo anno scolastico e per le scuole superiori c’è una grossa novità. Che riguarda gli smartphone: da quest’anno infatti anche nelle scuole superiori, quindi licei, tecnici e professionali, sarà vietato usare il cellulare durante l’orario scolastico.
A stabilirlo è una circolare del Ministero dell’Istruzione e del Merito uscita il 16 giugno scorso, che estende a tutte le scuole di ogni ordine e grado un divieto che, per la verità, nelle scuole elementari e medie era già in vigore.
È una misura che sta facendo discutere. Da un lato è stata accolta con un certo malumore da parte degli studenti e delle studentesse, che l’hanno vissuta un po’ come una punizione. Dall’altro viene presentata come una misura necessaria per tutelare il benessere degli adolescenti. L’uso eccessivo o scorretto dello smartphone, infatti, ha effetti negativi ormai ben documentati dalla ricerca scientifica: riduce la capacità di concentrazione, peggiora le performance scolastiche, alimenta forme di isolamento e in alcuni casi di disagio psicologico.
A rafforzare questa linea ci sono anche i risultati dell’ultimo test Invalsi, secondo cui sta crescendo il numero di studenti che arrivano al diploma con gravi lacune in italiano e matematica. Non è detto che la colpa sia tutta dello smartphone, ovviamente, ma sicuramente il rapporto con la tecnologia gioca un ruolo importante.
Il punto adesso è capire come verrà applicato questo divieto. Le scuole stanno valutando soluzioni pratiche: in molti casi si useranno dei semplici portaoggetti appesi al muro, con una tasca per ogni studente. Appena entrano in classe, ragazze e ragazzi dovranno infilare lì dentro il proprio cellulare e riprenderlo solo all’uscita o, in alcuni casi, durante la ricreazione. Altre scuole stanno optando per soluzioni più costose e più sicure, come gli armadietti chiusi a chiave. Tutte queste decisioni verranno prese nei prossimi giorni dai collegi docenti e dai consigli d’istituto.
Ci sono anche casi estremi, come quello riportato da Skytg24, del liceo Buonarroti di Monfalcone, in Friuli-Venezia Giulia, dove dal primo settembre entra in vigore un divieto totale: niente smartphone durante le lezioni, ma nemmeno negli spostamenti, nei laboratori, nei progetti pomeridiani e perfino durante le gite scolastiche.
La scuola motiva questa scelta con una frase con cui si può essere o meno d’accordo, ma che secondo me vale la pena citare: “Mettere via lo smartphone a scuola significa restituire profondità a ciò che facciamo: ascoltare davvero, capire meglio, discutere con più energia, costruire opinioni solide”. Insomma, non è solo una questione di disciplina, ma anche un modo per ripensare il senso della scuola.
In altri casi, invece, si cerca un approccio più partecipativo. All’Istituto superiore Scotellaro di Massa di Somma, in provincia di Napoli, la dirigente Marina Petrucci ha dichiarato che il divieto ha senso solo se viene costruito insieme agli studenti. Secondo lei, vietare senza discutere alimenta solo proteste e incomprensioni, mentre coinvolgere le ragazze e i ragazzi nel processo decisionale porta a soluzioni più condivise e, spesso, anche più intelligenti.
Ora, in questi casi dal mio punto d vista c’è un solo modo per provare a dare un parere, un giudizio, su questa iniziativa. Andare a osservare cosa è successo nei paesi che hanno adottato misure simili prima di noi.
Ho fatto una rapida ricerca. In molti Paesi europei e non solo, il divieto di smartphone nelle scuole è realtà da anni. La Francia è stata tra le prime, vietando l’uso del cellulare fino ai 15 anni già nel 2018, con effetti positivi su attenzione, interazioni sociali e diminuzione di cyberbullismo. In Portogallo, il bando ha prodotto risultati notevoli: meno 59% di episodi di bullismo e meno 57% di comportamenti distruttivi. In Norvegia si sono osservati miglioramenti nei voti — soprattutto tra le ragazze — e una diminuzione delle richieste di supporto psicologico. In Scozia, dove si usano apposite custodie bloccanti, gli insegnanti riportano una maggiore attenzione e interazione tra studenti. Insomma, il quadro internazionale mostra che il divieto non sembra avere particolari controindicazioni e può produrre benefici importanti soprattutto se accompagnato da un progetto educativo coerente e condiviso.
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