Acidificazione degli oceani: abbiamo superato il settimo limite planetario, su nove – 29/9/2025
Superato anche il limite planetario sull’acidificazione degli oceani. Ue e Spagna a confronto sulle politiche abitative.
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Fonti
#Limiti planetari
Stockholm Resilience Centre – Seven of nine planetary boundaries now breached
#Ciconte / politica
Italia che Cambia – “Non è colpa tua!” Per cambiare il mondo dobbiamo tornare alla politica?
#Crisi abitativa / UE & Spagna
Italia che Cambia – Emergenza casa: l’Europa affronta la crisi. L’eurodeputata Tinagli: “Guardiamo anche al non profit”
Trascrizione episodio
È uscito il nuovo “Planetary Health Check 2025”, un report annuale (alla sua seconda edizione) che prova a misurare lo stato del pianeta sulla base dei famosi 9 planetary boundaries o limiti planetari.
E questo report ci dice che secondo i dati raccolti abbiamo da poco superato le soglie di sicurezza anche di un settimo di questi nove limiti planetari, ovvero l’acidificazione degli oceani.
Ora provo a spiegarvi tutto. Il concetto di confini planetari nasce oltre dieci anni fa e ha avuto un ruolo importante nel farci capire che la crisi ecologica non è fatta solo di clima, ma riguarda tutto il sistema Terra. Se consideriamo la Terra come un organismo vivente, i limiti planetari sono come i valori quando si fanno le analisi: sappiamo che perché il nostro organismo stia in salute alcuni valori devono rientrare entro certi limiti, altrimenti significa che qualcosa non va.
Ora, faccio una piccola parentesi: la terra, a differenza di una forma di vita classica, non ha un set di valori standard stabili e in realtà può assumere (ed ha assunto nel corso della sua storia) tante conformazioni diverse, ha avuto ere glaciali, periodi caldissimi, ed equilibri molto diversi fra loro. Quindi questi limiti planetari sono relativi a questa particolare conformazione attuale, a questo equilibrio che dura da poche migliaia di anni e che però è congeniale alla nostra specie e allo sviluppo di società complesse come quelle che abbiamo creato. Questo per dire che quando parliamo di salute del Pianeta, non va inteso in senso assoluto, ma relativamente a quelle condizioni che ci permettono di viverci bene.
Detto ciò, questi valori da monitorare sono: l’integrità della biosfera (diciamo della biodiversità), la disponibilità di acqua dolce, la perdita di ecosistemi naturali, la concentrazione di inquinanti chimici, il cambiamento climatico, i cicli biogeochimici di azoto e fosforo, l’acidificazione degli oceani, la presenza di aerosol atmosferico (polveri sottili) e l’assottigliamento dello strato di ozono atmosferico (o buco dell’ozono). Ognuno di questi elementi ha una sua soglia critica. E se la superiamo, rischiamo di innescare cambiamenti irreversibili e a catena.
Ecco, fino a qualche giorno fa secondo i dati che avevamo a disposizione, sapevamo di aver superato 6 di questi 9 soglie critiche. Da qualche giorno, grazie a questo nuovo report prodotto dal Potsdam Institute for Climate Impact Research, il cui direttora Joan Rockstrom, è anche diciamo lo scienziato ideatore dei 9 limiti planetari, sappiamo che probabilmente abbiamo superato anche la settima, che è appunto quella legata all’acidificazione degli oceani.
Mentre i due confini ancora “nella zona di sicurezza” sono:
- l’ozono (che anzi continua a riprendersi, grazie all’attuazione di protocolli internazionali efficaci),
- e il carico di aerosol, cioè le polveri sottili.
Ma che cos’è l’acidificazioni degli oceani, da cosa dipende e a quali conseguenze può portare?
Allora, gli oceani assorbono circa un quarto della CO₂ che emettiamo ogni anno. E fin qui, tutto bene — nel senso che se non lo facessero, la crisi climatica sarebbe ancora più grave. Ma c’è un effetto collaterale: quando l’anidride carbonica si scioglie in acqua, forma acido carbonico, che abbassa il pH dell’acqua e la rende più acida. Rispetto all’era preindustriale, l’acidità della superficie oceanica è aumentata del 30-40%.
Quindi un’eccesso di CO2 assorbita dagli oceani crea acqua più acida, acqua più acida fa sì che alcuni organismi marini più vulnerabili non riescono più a costruire i loro gusci o le loro strutture calcaree: parliamo di coralli, molluschi e cose così. E molti di questi organismi o stanno alla base della catena alimentare marina, oppure contribuiscono a creare alcuni degli habitat marini per eccellenza, come le barriere coralline. Quindi si genera un effetto a catena che mette a rischio tutti gli ecosistemi oceanici.
E consideriamo anche che l’acidificazione si somma agli altri stress a cui sono sottoposti gli oceani, tipo il riscaldamento delle acque, la carenza di ossigeno, l’inquinamento da plastica plastica, la presenza di metalli pesanti, e così via.
Quindi ecco, questa è la parte di stato attuale. Poi il report passa ad analizzare cosa potremmo fare per arrestare questo declino e riportare il Pianeta in una zona di sicurezza per la nostra sopravvivenza come specie. E qui dice che bisogna smettere di trattare le crisi ambientali come compartimenti stagni. Serve una risposta integrata che tenga insieme clima, biodiversità, inquinamento, giustizia sociale, e che sia vincolante, misurabile, verificabile.
Il documento mostra anche esempi concreti: città come Amsterdam, che ha adottato il modello della cd economia della ciambella per valutare l’impatto sociale e ambientale delle proprie politiche, o paesi come Nuova Zelanda che hanno usato i confini planetari per orientare le loro strategie nazionali. Anche alcune aziende e fondi di investimento stanno iniziando ad adottare indicatori legati ai confini planetari, e – aggiungo io – anche l’Ue ha sviluppato degli indicatori che integrano i limiti planetari.
Detto ciò, non voglio neanche che ci prendiamo in giro: siamo – perlomeno a livello di società occidentali – in una fase di risacca delle politiche ambientali, in cui non mi aspetto di veder succedere grossi passi in avanti, se non in qualche caso isolato di qualche paese. Perlomeno in Occidente, nel breve e a livello politico. Al tempo stesso noto due cose: 1. che questa sensazione di “precipitare degli eventi” a cui stiamo assistendo, queste guerre e crisi che improvvisamente hanno investito anche il nostro mondo, forse hanno scosso un po’ le coscienze della società civile, quindi vedo un po’ di sommovimentoi come non ne vedevo da tempo e è possibile che vedremo succedere cose buove.
2. è anche vero che quello che chiamiamo Occidente, ovvero Nord America, Europa e Oceania, in realtà rappresenta una percentuale abbastanza piccola di popolazione mondiale, circa il 15%, e anche se è vero che in proporzione l’impatto di questa fetta di popolazione è maggiore, in prospettiva lo sarà probabilmente sempre meno influente. Questo non significa che ce ne possiamo lavare le mani eh, ma che nei prossimi decenni giocheremo un ruolo credo meno centrale.
Comunque, giusto per stressare il concetto che non è che possiamo lavarcene le mani, sabato è uscita una nuova puntata di Soluscions, in cui Daniel intervista Fabio Ciconte, il quale ci spinge a riflettere sul fatto che il cambiamento sistemico non è una sommatoria di azioni individuali e che a volte il fatto di concentrarci troppo sulla responsabilità individuale è un meccanismo che può diventare funzionale al sistema stesso.
Ciconte però non predica né il disimpegno né la deresponsabilizzazione, ma ci invita a ritrovare anche la dimensione politica di un agire comune. Insomma, tema super stimolante.
In questi giorni sono successe due cose molto interessanti sul fronte abitativo, che secondo me vale la pena guardare assieme. Una riguarda l’Unione Europea, l’altra la Spagna. Entrambe parlano di casa, di crisi abitativa, di cosa possiamo e dobbiamo fare per garantire a tutte e tutti un tetto dignitoso sopra la testa. Ma lo fanno da due angolature molto diverse.
Partiamo dall’Europa. La Commissione speciale per la crisi abitativa giovedì scorso ha presentato un primo documento, un cosiddetto draft report, quindi è una prima versione, che poi andrà approvato dalla Commissione speciale stessa e successivamente dal Parlamento, quindi siamo ancora a un livello molto iniziale, ma comunque sufficiente per capire qual è la direzione verso cui sembra volersi orientare l’Ue.
Faccio un passetto indietro: qualche mese fa, a marzo, il Parlamento europeo ha creato una nuova commissione speciale per la cirsi abitativa in Europa, che aveva il compito di analizzare la situazione e suggerire delle politiche per far fronte a questa emergenza. Fra l’altro alla guida di questa commissione c’è una europarlamentare italiana che si chiama Irene Tinagli e che abbiamo anche intervistato qualche mese fa. Voi lascio l’intervista fra le fonti.
Comunque, c’era molta attesa per cosa avrebbe prodotto questa commissione. Adesso è finalmente uscito questo primo documento, un testo di 16 pagine, piuttosto articolato, che mette sul piatto una serie di proposte piuttosto ampie, ma ecco, non proprio coraggiose.
Partiamo dall’analisi: secondo la commissione: la crisi abitativa in Europa nasce da una mancanza di offerta, cioè non si costruisce abbastanza. E già qui, diciamo che è un’analisi perlomeno parziale. Quindi il Parlamento chiede di snellire le norme edilizie, velocizzare i permessi (anche con la logica del silenzio-assenso, ovvero il principio secondo cui se un’amministrazione pubblica non risponde entro un certo termine a una richiesta, quella richiesta si considera approvata automaticamente), incentivare investimenti privati, coinvolgere i fondi europei per stimolare la costruzione di nuove case. Soprattutto nei contesti urbani, ma anche nelle aree rurali o spopolate.
Il piano tocca anche temi come l’accesso al credito per i giovani, il ruolo delle autorità locali, la digitalizzazione del settore edilizio, la semplificazione fiscale. E poi il contrasto alle occupazioni (c’è persino l’idea di creare un registro europeo delle “case occupate”).
Ora, ci sono dei riferimenti anche al cosiddetto housing sociale, ovvero all’idea che gli stati possano intervenire direttamente per garantire un’edilizia economicamente accessibile a chi non può permettersi i prezzi dell’abitare, ma non c’è niente di strutturale in questo senso, solo qualche timido invito agli stati membri, comunque limitatamente a certe categorie di soggetti svantaggiati, e all’interno di un piano che è orientato al mercato in maniera predominante.
Insomma, ci sono almeno tre elementi problematici in questo piano: il primo è che si individua quasi come unica causa della crisi abitativa la mancanza di immobili, mentre manca una vera riflessione sulle cause strutturali della crisi abitativa, come la finanziarizzazione del mercato immobiliare, fenomeni come la gentrificazione, il peso delle piattaforme per affitti brevi e tanti altri fattori.
Il secondo è nella risposta, che è costruire, costruire, costruire, affidando questo compito al mercato. Che è una risposta che a) non è efficace probabilmente nel risolvere il problema dell’abitare, perché sarebbe un po’ come provare a risolvere la fame nel mondo producendo più cibo, quando sappiamo che il problema non è l’assenza di cibo in assoluto, ma l’incapacità della filiera alimentare per come è strutturata di garantire cibo a tutti.
E non solo non è efficace ma b) genera degli effetti collaterali devastanti perché genera nuova cementificazione, in un momento in cui dovremmo smettere di costruire e anzi rendere le nostre città molto più verdi, per consentire di limitare l’effetto isola di calore d’estate e di assorbire meglio le secchiate d’acqua quando arrivano.
E poi veniamo alla terza grossa criticità, manca completamente un’attenzione all’abitare come diritto. Da un lato magari si punta il dito contro le occupazioni abusive, dall’altro però fare niente per garantire alcuna forma di diritto all’abitare, in un momento in cui le logiche di mercato stanno trasformando la casa in tante parti del mondo in un bene sempre più inaccessibile.
Quindi, non benissimo. C’è tempo per migliorare, ripeto è ancora una prima bozza, ma ecco, c’è tanto lavoro da fare su questo documento per trasformarlo in qualcosa di sensato. Perché al momento, più che un documento che affronta la crisi abitativa, sembra un documento che aiuta il comparto edilizio. Che non è la stessa cosa.
Negli stessi giorni però è stato presentato anche un’altra cosa interessante da parte di uno dei Paesi membri, la Spagna, che invece mostra un passo molto diverso. Il governo spagnolo ha appena presentato il Piano Estatal de Vivienda 2026‑2030, un piano che riconosce ufficialmente la casa come quinto pilastro dello Stato sociale, insieme a sanità, istruzione, pensioni e assistenza sociale.
E già questo è uno passaggio culturale gigantesco. Perché significa che l’abitare non è più visto come un problema da risolvere qua e là, magari con qualche bonus una tantum, ma come un diritto strutturale da garantire in modo stabile e universale, al pari del diritto a curarsi o ad andare a scuola.
Il piano spagnolo stanzia 7 miliardi di euro e si articola in tre grandi direttrici:
- aumentare l’offerta di alloggi pubblici (il 40% dei fondi va lì),
- riqualificare il patrimonio edilizio esistente, urbano e rurale (30%),
- e sostenere l’emancipazione giovanile e il contenimento dei costi abitativi (30%).
Cosa ancora più interessante: gli alloggi realizzati con questi fondi non potranno essere rivenduti o privatizzati, ma resteranno parte di un patrimonio pubblico permanente. È un modo per evitare che i soldi pubblici finiscano, di fatto, a ingrassare il mercato immobiliare privato. Ed è anche un modo per abbassare artificialmente il costo degli alloggi anche sul mercato privato.
Il piano spagnolo riconosce e sostiene esplicitamente anche forme abitative alternative: cohousing, coliving, soluzioni collaborative intergenerazionali, temporanee o di transizione. Prevede una serie di criteri ambientali e sociali, come l’efficienza energetica e l’intervento mirato nelle aree più in difficoltà.
E ha tutta una serie di dettagli che lasciano intravedere un’idea di abitare molto definita. Insomma, sono due logiche molto diverse, quella spagnola e quella europea. Da un lato l’abitare come bene economico, gestito dal mercato, in cui gli stati si limitano a erogare soldi e a snellire le procedure, dall’altro l’abitare come diritto, in cui lo stato si fa carico direttamente di garantire quel diritto.
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