L’Africa fa da sola: cosa sta succedendo nel Sahel? – 26/5/2025
Cosa ci raccontano il Sahel, l’India rurale e la Zurigo “compostabile” sul nostro rapporto con la terra, i diritti, la morte? E i media, sono pronti a raccontarlo?
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Fonti
#Africa
Domani – Un continente invisibile: di Africa si parla poco e male
Domani – Paure e speranze, la nuova alleanza degli stati del Sahel
#India
Avvenire – Reportage. Sfruttate e invisibili: le contadine senza terra dell’India
#terramazione
Tio.ch – La terramazione piace, 430 cittadini pronti a diventare concime dopo la morte
#alberi
Le Monde – Are some tropical trees getting struck by lightning on purpose?
Wired – Così gli alberi delle Dolomiti comunicano tra loro durante le eclissi solari
#Salgado
Italia che Cambia – È morto Sebastião Salgado, maestro della fotografia sociale e ambientale
#Il bivio
Italia che Cambia (Canale YouTube) – IL BIVIO, Ep. 1 – L’orto di comunità
Ieri, domenica 25 maggio, è stato l’Africa Day, anniversario della fondazione dell’Unione Africana,e su Domani, il quotidiano Domani, sono usciti due articoli interessanti che parlano del continente più dimenticato dai media mondiali, se non quando si parla di immigrazione o quando qualche paese decide di cacciare aziende e eserciti occidentali.
In particolare Domani dedica un pezzo, a firma di Vera Negri Zamagni, a ciò che sta avvenendo in Sahel, quella fascia di territorio africano che corre sotto il Sahara, e che comprende paesi come Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad, e altri ancora. Zone difficili, con condizioni ambientali ostili, molto povere, ma anche ricche di storia, di risorse e di contraddizioni. Ed è proprio qui che sta nascendo una nuova alleanza, l’Alleanza degli Stati del Sahel, che ha ambizioni decisamente fuori scala rispetto a ciò che siamo abituati a immaginare per questa regione.
Ma andiamo con ordine, perché serve un po’ di contesto. Il Sahel è una zona vasta, arida, con terreni poco coltivabili, pochissima acqua, spesso colpita da siccità o invasioni di locuste. Lì vivono popoli con stili di vita molto diversi: da una parte ci sono allevatori nomadi, dall’altra agricoltori stanziali, spesso in competizione per le stesse risorse. È anche un territorio ricco di minerali – uranio, litio, oro, rame – ma questa ricchezza è da sempre fonte di sfruttamento più che di benessere.
Quasi tutti questi paesi sono stati colonie francesi, e anche dopo l’indipendenza – ottenuta nella seconda metà del Novecento – sono rimasti fortemente legati alla Francia e in generale all’Occidente, attraverso meccanismi politici, economici e militari. Nel 1975 era nata l’Ecowas, una comunità economica di stati dell’Africa occidentale, con l’idea di promuovere integrazione e sviluppo. Ma le cose non sono andate lisce. Governi deboli, colpi di stato, gruppi armati islamisti sempre più forti e un sostegno internazionale spesso inefficace hanno creato un clima di instabilità permanente.
Negli ultimi anni, tre paesi – Mali, Burkina Faso e Niger – sono stati attraversati da colpi di stato militari. E la risposta dell’Ecowas è stata la sospensione di questi paesi.
Vi leggo direttamente dalle parole della giornalista l’ultima parte dell’articolo che è quella più densa e che descrive presente e prospettive di questa alleanza:
“Sospesi dall’Ecowas, questi paesi hanno costituito l’Alleanza degli Stati del Sahel (AES) il 4 luglio 2024 e sono formalmente usciti dall’Ecowas il 29 gennaio 2025. Le ambizioni di questa alleanza sono notevoli: creare un mercato unico, una moneta unica, una circolazione libera dei residenti, piani di investimento in infrastrutture e in agricoltura comuni, per dare vita a un unico stato di maggiori dimensioni (attualmente circa 70 milioni di abitanti, ma in continua crescita), liberandosi dal neocolonialismo e dalla dipendenza dagli aiuti esterni, comunque così inefficaci.
Intanto, hanno formato un esercito unico di circa 5000 uomini per contrastare il terrorismo.
È ancora presto per dire se la nuova alleanza avrà successo, ma ci sono due lezioni da trarre dagli avvenimenti descritti. La prima è che l’Occidente, in questo caso Francia e Unione europea, non sono in grado di scrollarsi di dosso il vecchio rapporto con l’Africa, in un contesto in cui gli africani stanno diventando desiderosi davvero di progredire.
Questo li spinge verso sponde alternative: Russia, Medio Oriente, Cina, che non corrisponderanno alle loro speranze, ma permettono almeno di tentare un affrancamento dai vecchi legami coloniali, ormai obsoleti. La seconda lezione è che gli enormi problemi dell’Africa non possono essere affrontati con l’assistenzialismo, ma con l’investimento: una consapevolezza che in Africa è già diffusa e che l’Occidente e le ong dovrebbero maturare in fretta”.
Un cambio di paradigma che sarebbe necessario anche nel mondo dell’informazione, come accennavo all’inizio. Sempre su Domani, questa volta è Luca Attanasio a dedicare un pezzo a come la stampa italiana parla del continente africano. La risposta breve è: poco e male.
A dirlo chiaramente è l’ultimo report di Amref e Osservatorio di Pavia, presentato sempre in occasione dell’Africa Day. Che evidenzia un trend che peggiora invece di migliorare: nel 2024 le notizie sull’Africa nelle prime pagine dei principali quotidiani italiani sono calate del 50% rispetto all’anno precedente. E già prima erano pochissime.
E anche quando si parla di Africa, si parla quasi sempre di “Africa qui”: cioè storie ambientate in Italia o in Europa, che coinvolgono migranti, il Piano Mattei, atleti afrodiscendenti. L’Africa vera, quella che avviene “lì”, con i suoi problemi, ma anche con le sue ricchezze culturali, sociali, ambientali, praticamente non esiste nel racconto dei media.
Qualche miglioramento c’è stato nei telegiornali e nei programmi di approfondimento, ma anche lì il racconto resta centrato su ciò che interessa l’Italia. E per la prima volta il report ha guardato anche alla presenza di persone africane o afrodiscendenti in tv. Risultato? Solo l’1,2% degli ospiti. E quando ci sono, si parla quasi sempre di infibulazione, Islam, criminalità, marginalità. Mai di Africa come continente vivo, ricco, complesso.
In sostanza, i media italiani continuano a offrire un’immagine ridotta e problematica dell’Africa. E questo alimenta ignoranza, distanza, pregiudizi. Insomma, serve un’informazione diversa, che racconti davvero un pezzo di mondo troppo spesso dimenticato. Quindi noi ce lo appuntiamo, per continuare a migliorare in questo.
In India, milioni di donne lavorano nei campi, ma legalmente non esistono. Non possiedono la terra che coltivano ogni giorno, non hanno diritti su di essa, e spesso non sanno nemmeno di poterli rivendicare. È una condizione di invisibilità e sfruttamento che colpisce soprattutto le donne delle zone rurali, come ci racconta Sejal Patel in un reportage pubblicato su Avvenire domenica 25 maggio 2025, dalla regione dell’Uttar Pradesh.
Perché vi sto raccontando questa notizia? Un po’ perché il nostro direttorissimo Daniel Tarozzi un giorno sì e l’altro pure mi manda messaggi intimidatori in cui mi chiede di parlare di più di India, Cina, stati africani e così via, un altro po’ perché ha ragione. L’India è lo stato più popoloso al mondo, ma ce ne curiamo ben poco. Sappiamo poco o niente di quanto stia cambiando, dei problemi e delle opportunità che affronta.
L’articolo di Avvenire racconta un aspetto particolare, ma tutt’altro che marginale di questo gigantesco stato. La condizione delle contadine.
Il buio che avvolge la loro condizione ha origine in un sistema strutturato per privarle della propria autonomia lasciandole vulnerabili allo sfruttamento, al controllo patriarcale e all’abbandono delle istituzioni. Sebbene esistano leggi che ne tutelano i diritti, i pregiudizi culturali, le dinamiche familiari e una diffusa mancanza di consapevolezza delle proprie prerogative le tengono legate a un futuro in cui il duro lavoro non si traduce mai in emancipazione. In un mondo che continua a sminuire il loro ruolo, la lotta per la proprietà della terra diventa una questione di sopravvivenza, dignità e diritto a un futuro che gli appartenga veramente.
Le storie sono tante, tutte simili. L’articolo ne racconta alcune: donne come Kanchan, Shakuntala, Meena, che vivono nelle campagne e da sempre lavorano la terra con fatica e dedizione. Ma quella terra non è loro. È intestata ai mariti, ai cognati, ai suoceri. E questo le rende vulnerabili, ricattabili, dipendenti da uomini che possono decidere di togliergliela in qualsiasi momento. Anche dopo una vita passata a coltivarla.
La legge, in teoria, riconosce loro alcuni diritti. Ma in pratica non funziona quasi mai. Le norme ereditarie, le tradizioni religiose, il patriarcato radicato nei villaggi fanno sì che le donne non possano nemmeno pensare di essere proprietarie. E chi ci prova, spesso si scontra con una rete di opposizioni familiari, burocratiche e culturali. I programmi statali, i sussidi, gli aiuti? Tutti accessibili solo se si possiede ufficialmente un terreno. E quindi restano fuori anche da quelli.
Una fra tutte, Anu, è riuscita a intestarsi il terreno che coltivava da anni solo dopo la morte del marito. Ma è un’eccezione. Come spiega bene l’attivista Chandrakala, questa battaglia non è solo per un pezzo di terra: è per il rispetto, per la dignità, per un posto riconosciuto nella comunità.
A raccontare queste storie, da anni, è Khabar Lahariya, un giornale indipendente fatto da sole donne, nato nel 2002 e oggi punto di riferimento per chi vuole capire davvero cosa succede nelle campagne indiane. Le sue giornaliste sono tutte locali, parlano i dialetti dei villaggi, affrontano a viso aperto i tabù di genere e raccontano un’India che nessun altro racconta. In tempi in cui l’informazione è spesso filtrata da poteri e stereotipi, Khabar Lahariya è una voce preziosa, che dà parola a chi non ne ha.
Ora però mi sento in dovere di fare una precisazione. Perché sappiamo che il nostro cervello tende a semplificare e quindi visto che dell’India non sappiamo quasi niente dopo questa notizia potremmo fare l’equazione facile India = donne sfruttate e senza diritti. In realtà quello raccontato in questo reportage è solo uno degli aspetti dell’India. Un aspetto vero, drammatico, ma parziale.
L’India è un continente più che un paese, con una varietà di situazioni e contesti difficile anche solo da immaginare da fuori. Accanto alle aree rurali, dove il peso delle tradizioni patriarcali è ancora fortissimo, esistono regioni e città molto più progressiste, in cui le donne studiano, lavorano, si organizzano politicamente e socialmente. È un paese in costante contraddizione, dove convivono spinte di modernizzazione e pratiche arcaiche, emancipazione e discriminazione, innovazione e conservatorismo. E proprio in questa continua tensione, in questa rinegoziazione quotidiana tra passato e futuro, si sviluppa il continuo cambiamento dell’India contemporanea. Se volete approfondire trovate una puntata di INMR+ dedicata proprio a capire l’India contemporanea. Andate su ICC → podcast → INMR+ e la cercate. Oppure googlate India INMR+.
A Zurigo c’è chi, alla morte, preferisce diventare compost. Letteralmente. È la proposta, già approvata dal parlamento cittadino con un’ampia maggioranza, di introdurre la cosiddetta “terramazione”, una pratica funeraria alternativa che consente di trasformare i corpi in terriccio. E sì, a qualcuno l’idea piace parecchio: almeno 430 persone si sono già iscritte all’associazione “Werde Erde”, che promuove questo tipo di sepoltura.
Il meccanismo è semplice. Dopo la morte, il corpo viene deposto in un contenitore metallico, adagiato su un letto di fieno, paglia, erbe e fiori. E da lì, nel giro di circa quaranta giorni, grazie all’azione dei microrganismi, si trasforma in compost. Un ritorno letterale alla terra. A raccontarlo è Lina Hänni, fondatrice dell’associazione, intervistata dalla Limmattaler Zeitung. Per lei è una scelta naturale, ecologica, profondamente simbolica: «Il corpo torna a far parte del ciclo della natura», spiega. E ovviamente ha già deciso di candidarsi per fare questa fine.
L’aspetto più interessante, secondo Hänni, è proprio quello ambientale. La cremazione, spiega, consuma grandi quantità di energia e rilascia sostanze tossiche, sia dai vestiti sintetici sia dai residui di farmaci o dispositivi come i pacemaker. La terramazione, invece, evita tutto questo e non lascia nulla da smaltire.
Politicamente l’idea ha trovato un ampio consenso, soprattutto tra socialisti e verdi, che la considerano una pratica etica e sostenibile. Diversa la posizione dell’UDC, di orientamenteo conservatore, che la ritiene una violazione della dignità umana.
L’ho trovata una notizia interessante. E da un lato un po’ paradossale. Paradossale perché quella che ci può sembrare una pratica esotica e strana, è esattamente quello che è successo ai nostri corpi nelle società umane per centinaia di migliaia di anni. Se pensiamo che Homo Sapiens ha fra i 200 e i 300mila anni di storia, ecco direi che per la quasi totalità della sua storia è successo questo, che è quello che succede a ogni specie vivente quando muore. Si decompone e diventa nutrimento per altre forme di vita, rientrando nel ciclo degli ecosistemi.
Insomma, è un giro un po’ strano, decidere con una legge e una complessa procedura che va bene fare ciò che fa la natura con i nostri corpi. Al tempo stesso è interessante perché significa che, pur nel modo un po’ contorto e burocratico con cui operiamo come specie, stiamo tornando a chiudere il cerchio, ad aver bisogno di sentirci parte di qualcosa di più ampio, di un ciclo vitale che va ben oltre le nostre esistenze effimere.
Chiudi segnalandovi tre notizie da approfondire, e una poi facendovi vedere una roba. Le tre notizie sono: una che è morto Sebastiao Salgado, uno dei più grandi fotografi della natura e delle popolazioni indigene di sempre. Trovate una news su ICC. La seconda è che ieri e oggi si vota per le amministrative in 116 comuni, fra cui alcune città importanti, e per questioni diverse cruciali, come Genova, Taranto (dove il voto è anche sempre un referendum sull’ex Ilva), Ravenna e Matera. Domani ne parliamo con i primi risultati alla mano. La terza è che stanno uscendo un sacco di studi interessanti su come gli alberi comunicano fra loro. Ne parliamo presto ma intanto vi lascio due articoli fra le Fonti.
La cosa che vi faccio vedere invece è un’altra. È uscita la prima puntata, pilota, di un nostro nuovo format che si chiama Il Bivio, in cui la protagonista, che si chiama Morena e ha 30 anni, si trova davanti a un bivio nella sua vita e deve scegliere cosa fare da grande e a scegliere fra un lavoro tradizionale o seguire le sue passioni, che sono la natura, le erbe spontanee, la permacultura. E in ogni puntata incontra delle persone che in qualche modo l’aiutano a esplorare le sue passioni.
Vi faccio vedere un estratto, trovate la puntata integrale sul nostro canale YT.
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