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15 Dicembre 2025
Podcast / Io non mi rassegno

“Più prezioso dell’oro”: la corsa al rame e le sue conseguenze – 15/12/2025

Il rame diventa materia prima strategica per transizione, IA e riarmo; In Francia proteste contro gli abbattimenti per dermatite nodulare bovina e in Catalogna emergenza peste suina africana.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Trascrizione episodio

Un approfondimento del Financial Times – ripreso da StartMag, da cui leggo la notizia – ci pone di fronte ad una realtà sempre più evidente: il rame è il metallo del nostro tempo. Transizione energetica, intelligenza artificiale e riarmo globale stanno facendo schizzare la domanda di rame, mentre l’offerta resta intrappolata in miniere sempre più vecchie, scoperte rare e una raffinazione dominata dalla Cina.

I risultati sono un deficit che bussa già alla porta nel 2025, prezzi ai massimi storici e una corsa affannosa – soprattutto in Occidente – per rimettere in moto la produzione domestica. La richiesta di rame, osserva il quotidiano della City, non è mai cresciuta così velocemente. 

Le reti elettriche di tutto il mondo vengono rinnovate e potenziate per accogliere le rinnovabili e l’elettrificazione dei consumi; ogni chilometro di linea ad alta tensione e ogni stazione di ricarica per veicoli elettrici ne consuma quantità enormi.

Ma il vero salto, sottolinea il Ft, arriva dai data center dell’intelligenza artificiale: secondo i dati di Grupo México citati dal giornale servono tra 27 e 33 tonnellate di rame per megawatt installato, più del doppio rispetto ai data center tradizionali. BHP calcola che entro il 2050 il consumo mondiale di rame legato ai data center sarà sei volte quello attuale. (Qui prendiamo sempre con le pinze queste stime verticali su una sola variabile ma vabbé).

A questi fattori si aggiunge il riarmo globale: la spesa militare, rileva ancora il Ft, è cresciuta del 9,4% nel 2024 raggiungendo 2,7 trilioni di dollari, e gran parte della domanda di rame per missili, radar, navi e aerei resta volutamente non dichiarata.

La Cina assorbirà da sola il 58% del consumo globale nel 2025; finora l’espansione record della sua rete elettrica è stata il principale acceleratore, ma India, Sud-Est asiatico e Medio Oriente stanno prendendo il testimone con piani infrastrutturali altrettanto ambiziosi.

E questo, secondo le stime, porterà a un deficit gigantesco. Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia entro il 2035 le miniere oggi operative o già in costruzione copriranno appena il 70% della domanda prevista. E già il 2025 chiuderà con un deficit della risorsa.

Questo sta causando diverse conseguenze. Innanzitutto un prezzo che già oggi vola sui mercati. Un rapido esaurimento delle grandi miniere, con a qualità del minerale che scende anno dopo anno, i costi di estrazione che salgono, gli incidenti che si moltiplicano. 

E poi ci sono conseguenze geopolitiche, perché ad esempio, e come spesso avviene com molte materie prime critiche, la Cina riesce a estrarre una discreta fetta del materiale vergine, circa il 9% del rame mondiale, che passa al 20% contando le partecipazioni in aziende estere, e perdipiù controlla circa il 50% della capacità globale di fusione e raffinazione. 

Altrove invece il rame genere conflitti territoriali. Sotto l’Arizona, ad esempio, giace uno dei più grandi depositi di rame ancora intatti: 1,8 miliardi di tonnellate di risorsa. Il progetto Resolution, di BHP e Rio Tinto, è stato inserito dall’amministrazione Trump nella lista dei minerali critici e gode di un raro consenso bipartisan. Eppure incontra la strenua opposizione di parte della tribù San Carlos Apache, per cui il sito di Oak Flat è terra sacra e verrebbe distrutto dal cedimento del suolo.

A maggio la Corte Suprema ha dato  il via libera, ma un tribunale d’appello ha bloccato nuovamente lo scambio di terreni necessario per iniziare i lavori, prolungando un iter già ventennale.

In generale, aprire una grande miniera oggi significa affrontare 10-15 anni di permessi, miliardi di dollari di investimento, conflitti con le comunità locali e rischi ambientali sempre più alti – siccità in Cile e Perù, consumo d’acqua, impatto su aree protette.

Perciò gli investitori sono molto prudenti e le grandi compagnie stanno facendo mega-fusioni, provano a riaprire vecchie miniere, estraggono rame da sterili e scarti che dieci anni fa non sarebbero stati economici, cercano di spingere sul riciclo e su nuove tecnologie.

L’articolo conclude che il rame ha definitivamente spodestato l’oro: è il nuovo metallo prezioso dell’era digitale. Con i prezzi che resteranno altissimi per anni, forse decenni. Quindi se avete due lire, meglio investire in rame che in oro. 

Detto ciò, anche qui se guardiamo la situazione un po’ dall’esterno vediamo bene i legami fra paradigma competitivo, con economie e stati che competono per accaparrarsi più risorse, crescita economica, modello estrattivo delle risorse. E tutto questo porta, abbastanza inevitabilmente, a una concentrazione disomogenea delle risorse, a crisi ambientali, sociali e potenzialmente anche a guerre. 

Un modello che riesca a stare dentro i limiti planetari difficilmente sarà un modello competitivo e basato sulla crescita infinita, più plausibilmente sarà un modello cooperativo e con un forte senso de limite.

Torniamo a parlare di allevamenti intensivi. Perché in Francia ci sono grosse proteste degli allevatori per via delle misure di abbattimento predisposte dal governo e in Spagna il settore è in crisi per via della peste suina. 

Partiamo dalla Francia. Leggo su Euronews che “Dopo gli scontri con la polizia di venerdì notte, continua nel Sud-Ovest della Francia la protesta degli agricoltori, che stanno bloccando le strade per protestare contro l’abbattimento del bestiame malato. I dimostranti hanno bruciato paglia o pneumatici, fatto esplodere fumogeni ed esposto striscioni. Decine di trattori sono stati posizionati per bloccare il traffico su numerosi tratti stradali. Altri hanno manifestato davanti a edifici pubblici per denunciare “decisioni sanitarie assurde e distruttive”.

All’origine di questa rabbia c’è la risposta del governo all’epidemia di dermatite nodulare emersa a fine giugno nell’area dei Pirenei francesi. 

Parentesi: cos’è la dermatite nodulare? E’ una malattia che colpisce i bovini, che non è pericolosa per gli esseri umani, non si trasmette proprio agli umani, ma che invece è piuttosto contagiosa per i bovini, si trasmette tendenzialmente attraverso mosche, tafani, zanzare, zecche. E in Europa è categorizzata come categoria A, il che significa che si prevedono misure di eradicazione del focolaio immediate.

Il problema è che è una malattia che ha un’incubazione piuttosto lunga, inoltre diversi animali possono risultare asintomatici. E poi è anche difficile da contenere, perché trasmettendosi attraverso insetti, passa facilmente da un allevamento all’altro. Quindi, quello che viene fatto in genere – e che sta facendo la Francia, è uccidere tutti gli animali allevati di intere zone, che siano sani o malati, e vaccinare a tappeto tutti quelli che stanno in un’area cuscinetto subito esterna all’epicentro. 

La strategia del governo francese, nello specifico, prevede l’abbattimento di tutto il bestiame nelle aree colpite, la limitazione degli spostamenti delle mandrie e la “vaccinazione di emergenza” entro un raggio di 50 chilometri dalla zona colpita. Alcuni agricoltori si stanno mobilitando contro questi abbattimenti diffusi, in seguito all’appello di due sindacati agricoli, il Coordinamento Rurale e la Confederazione Contadina, che chiedono una vaccinazione più diffusa, per ridurre gli abbattimenti. Anche i sindacati però – leggo ancora su Euronews – sono divisi. Altre due importanti sigle: Fnsea e Giovani Agricoltori, ritengono che l'”abbattimento totale sia la soluzione migliore”, perché, a loro avviso, la vaccinazione completa metterebbe il paese “in lockdown” impedendo le esportazioni.

In tutto ciò, il paradosso è che la carne di tutti gli animali abbattuti è una carne tecnicamente sicura per l’essere umano, perché appunto parliamo di una malattia che non ha nessun tipo di interferenza con il nostro organismo, ma il tipo di uccisione legata a misure sanitarie per spegnere i focolai di virus non consente di commercializzare la carne degli animali uccisi. E quindi ci sono migliaia di bovini (al momento sono circa 3000, ma plausibilmente cresceranno) che vengono uccisi, poi trasportati in camion telonati giganteschi, che vengono sterilizzati ogni volta, poi vengono processati, trasformati in farine animali e quindi bruciati negli inceneritori.

Scusate i dettagli un po’ crudi e macabri, ma è per far capire anche la complessità di tutto questo procedimento. Per non parlare poi della vaccinazione di circa 1 milione di animali.

Nel frattempo, qualcosa di simile sta avvenendo anche in Spagna, in Catalogna, negli allevamenti di suini. La Generalitat della Catalogna ha dichiarato lo stato d’emergenza per contenere un nuovo focolaio di peste suina africana, un virus che – anche in questo caso – non è pericoloso per l’uomo, ma può essere devastante per i suini e per l’economia legata alla carne di maiale.

Leggo su l’Indipendente che i primi segnali risalgono al 26 novembre, quando a Bellaterra, in un’area vicina al Parco naturale della Collserola, alla periferia di Barcellona, sono stati trovati i cadaveri di due cinghiali. Da lì, nel giro di circa due settimane, i casi confermati tra i cinghiali sono saliti a tredici. E a quel punto le autorità hanno deciso di alzare il livello di allerta.

Il timore è che il virus possa uscire dal perimetro iniziale e finire per arrivare agli allevamenti, mettendo in crisi il comparto degli allevamenti suini, che è uno dei settori economici più importanti dell’economia catalana e, più in generale, spagnola. Sono andato a cercarmi qualche cifra, ed è impressionante: gli allevamenti suini, solo quelli suini, in Spagna generano 25 miliardi di € di fatturato annuo e oltre 415.000 occupati, lungo tutta la filiera. Oltre un punto e mezzo di Pil spagnolo. E la Catalogna è la regione con maggiore produzione, dove ci sono oltre il 40% dei suini di tutta la Spagna.

E quindi, anche qui, per cercare di preservare la filiera, e in accordo con la Commissione Europea, la Catalogna ha varato una serie di misure di contenimento piuttosto dure. In 91 municipi sono scattate restrizioni di accesso a parchi naturali, aree boschive, prati, campi coltivati e sentieri di campagna fuori dai centri urbani, con eccezioni solo per raggiungere le abitazioni. 

È stato inoltre vietato trasportare mandrie fuori dall’area ad alto rischio e introdurre maiali domestici o prodotti di origine suina dentro il territorio interessato. E c’è anche un divieto di caccia, tranne quella strettamente necessaria alle attività di contrasto.

Intorno al punto dei primi ritrovamenti è stata definita anche una fascia di controllo di 20 chilometri, che include la Collserola: qui è partita una ricerca mirata per individuare altri cinghiali infetti e possibili fonti di contaminazione, come resti di cibo.

Per ora, dicono le autorità, non risultano infezioni tra i maiali domestici o d’allevamento. Ma nonostante questo il contraccolpo economico è già partito. Il solo fatto che ci sia un focolaio di peste suina  ha portato alla sospensione delle esportazioni di prodotti suini verso oltre quaranta Paesi nel mondo, tra cui Stati Uniti, Giappone, Messico, Brasile e Russia. La Cina, che è il principale importatore, mantiene gli accordi ma applica restrizioni solo ai prodotti provenienti dalla provincia di Barcellona.

Intanto anche il mercato interno sta reagendo: in poche settimane il prezzo all’ingrosso della carne suina è sceso più volte fino a circa 1,04 euro al chilo, e gli allevatori stimano perdite già nell’ordine di decine di milioni di euro. E ci sono effetti pure sul lavoro: in alcuni macelli dell’area si parla già di sospensioni di contratti.

Ora, se prendiamo queste due notizie insieme, e proviamo a vedere il quadro generale, diciamo che sarebbero sufficienti per farci capire l’insostenibilità del modello degli allevamenti intensivi. Anche solo dal punto di vista economico. Parliamo di luoghi molto soggetti a malattie, ovviamente, per come vivono gli animali, tutti attaccati e con pochissimo spazio vitale. Che quindi sono focolai perfetti. Fra l’altro proprio per questo – con norme diverse a seconda dei paesi – ma spesso gli animali da allevamento vengono riempiti di antibiotici e questo è alla base del fenomeno dell’antibiotico resistenza, ovvero del fatto che si stanno sviluppando batteri sempre più resistenti agli antibiotici.

Comunque, capite che è una filiera gigantesca con i piedi di argilla perché un focolaio piccolo porta a misure precauzionali enormi, abbattimenti di massa, crolli economici. 

E tutto questo per tenere in piedi un settore che è fonte di una fetta importante di emissioni climalteranti, è fonte di inquinamento atmosferico, e fonte di enormi sofferenze per miliardi di animali, e non ultimo è un modo veramente poco efficiente di tradurre le risorse in energia per umani. E ancora, crea posti di lavoro di pessima qualità e alimenta un sovraconsumo di carne da parte di noi umani che non fa nemmeno bene.

Insomma, non c’è un punto della filiera in cui questa roba crei qualcosa di positivo. L’unica spiegazione al suo perdurare è l’enorme inerzia del sistema economico e le nostre resistenze al cambiamento. Però, ecco, via.

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