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16 Maggio 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Ma quindi questi negoziati Ucraina-Russia a Istanbul? – 16/5/2025

Riprendono i colloqui Russia-Ucraina, ma senza i protagonisti principali. In Italia si blocca il cinema e si riaccende il conflitto su rinnovabili e territorio.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Questo episodio é disponibile anche su Youtube

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Trascrizione della puntata

Stanno per iniziare, nel momento in cui registrano la rassegna mancano poche ore, i colloqui fra delegazioni russa e ucraina a Istanbul. Si è detto e scritto di tutto su questi colloqui, c’era molta attesa per capire chi ci sarebbe stato, se si sarebbero incontrati di persona Putin e Zelensky, magari pure con Trump. Erano volate promesse, insulti reciproci, garanzie, ma alla fine non c’è andato nessuno di loro. 

Un po’ come quando Elon Musk e Mark Zuckerberg dovevano sfondarsi di botte al Colosseo. E vai giù di minacce, ti sfondo, ti faccio male, vinco io, ti sottometto. Te li hai visti? Io no.

Comunque questa mattina alle 10 locali, 9 italiane inizieranno a Istanbul i colloqui tra Ucraina e Russia, ma – appunto – senza i principali leader al tavolo. Né Putin né Zelensky saranno presenti, nonostante nei giorni scorsi si fosse parlato della possibilità di un incontro diretto. La delegazione russa sarà guidata da Vladimir Medinskij, già protagonista dei negoziati falliti del 2022, accompagnato da due viceministri. Per l’Ucraina ci sarà il ministro della Difesa Rustem Umerov.

Zelensky si è detto deluso per l’assenza di Putin, anche se il NYT ha svelato che nemmeno lui ci sarebbe voluto andare, ed erano stati gli Usa e l’Ue a convincerlo, e ha definito i rappresentanti russi “oggetti di scena”, lasciando intendere una scarsa serietà dimostrata da Mosca nell’occasione. E pensare che era stato proprio il presidente russo a rilanciare la proposta di un nuovo negoziato, forse come risposta alla proposta europea – poi respinta – di un cessate il fuoco di 30 giorni.

Secondo Medinskij, Mosca considera questo incontro come una ripresa del negoziato del 2022, con le stesse richieste: neutralità dell’Ucraina, limitazioni al suo esercito e nessuna discussione, per ora, sui territori occupati.

Intanto, l’Unione Europea ha approvato il 17esimo pacchetto di sanzioni contro la Russia, mentre da Washington il generale Gregory Guillot ha lanciato uno strano allarme: sostiene che ci siano “diverse strade plausibili” che potrebbero portare a un conflitto diretto tra USA e Russia.

Donald Trump invece, che è ancora in Medio Oriente, ha commentato la situazione sostenendo che finché lui e Putin non si incontreranno, nulla si muoverà davvero. Oggi comunque ci capiremo qualcosa in più.

La mia vita va benissimo, guadagno un sacco di soldi. Ma il cinema italiano è fermo da un anno  e mezzo, ci sono migliaia di persone che stanno perdendo il lavoro.

Con queste parole l’attore Elio Germano ha di recente denunciato la situazione del cinema italiano. Ne abbiamo parlato già tempo fa, oltre un anno fa appunto, ma da allora non si è mosso granché. Ma che vuol dire che il cine è fermo? E come mai lo è?

Facciamo un ripassino. Sul banco degli imputati c’è la riforma voluta dal governo del cosiddetto Tax Credit. 

Il Tax Credit è un incentivo fiscale introdotto per sostenere la produzione cinematografica e audiovisiva in Italia. Funziona in sostanza così: le case di produzione che realizzano film, serie tv o documentari in Italia possono recuperare una parte significativa delle spese sostenute (come salari, affitti, noleggi tecnici) sotto forma di credito d’imposta.

Negli anni, questo meccanismo ha rappresentato un supporto fondamentale per molte produzioni, soprattutto quelle indipendenti e a basso budget, che grazie al Tax Credit sono riuscite a stare in piedi e a realizzare opere altrimenti impossibili da finanziare.

Negli ultimi due anni però, il sistema del Tax Credit è stato oggetto di una riforma voluta dal governo Meloni, che accusava il sistema di essere oggetto spesso di speculazioni, di budget gonfiati, di essere diventato clientelare e così via. Ma l’intero processo di riforma è stato caratterizzato da continui ritardi, incertezze normative e una gestione confusa che ha bloccato di fatto la programmazione delle produzioni. Come spesso accade l’incertezza normativa e sul futuro ha scoraggiato le case produttrici dall’investire nel cinema italiano, che quindi si praticamente paralizzato soprattutto nelle grndi produzioni che sono quelle che danno lavoro a migliaia di persone.

Così molte case di produzione, non sapendo con certezza se e quando avrebbero potuto contare sugli incentivi, hanno sospeso o annullato progetti, lasciando a casa centinaia di lavoratori del settore. Poi alla fine è arrivata l’ultima versione del decreto correttivo – insomma il sistema che dovrebbe sostituire l’attuale Tax credit – ma molti addetti al settore l’hanno criticata duramente: non risolve i problemi pregressi e non introduce strumenti adeguati di sostegno al reddito per chi è rimasto senza lavoro. In altre parole manca ancora un sostegno al reddito per il 2025 e un sussidio di recupero salariale e contributivo per il 2024.

Nei giorni scorsi si sono espressi sul tema appunto Elio Germano e Pupi Avati durante la cerimonia dei David di Donatello, criticando duramente, soprattutto Germano, il govenro e il ministro dela Cultura Giuli che ha risposto un po’ piccato accusando indirettamente Germano di essere uno che parla a sproposito, e di essere una mosca bianca, un caso isolato di un tizio di sinistra che si lamenta. 

Giuli argomentando però l’ha buttata in politica, affermando una cosa che poi è stata molto criticata successivamente. Ha detto: “È esistita una cultura di sinistra oggettivamente potente, coerente, organica. C’è stata anche una progressiva erosione di questa cultura di sinistra, dal momento in cui ha cominciato a generarsi il divorzio tra il consenso e il potere. E loro hanno scelto il potere . Avevano gli intellettuali e se li sono persi, si sono affidati agli influencer, ma hanno scoperto che pure loro sono dei ‘quattrinari’, e  hanno sbagliato pure la scelta degli influencer”. 

Un discorso che, vi dirò, ha anche un senso e una sua verità. Ma che però mostra a mio avviso in maniera abbastanza chiara che lo smantellamento del cinema italiano non è un errore accidentale, ma è frutto almeno in parte della volontà politica di scardinare un sistema dove la sinistra ha sempre avuto una certa egemonia. In generale, questo lo hanno notato in molto, il governo Meloni è ossessionato dall’egemonia culturale e cerca di introdurre forzatamente una cultura di destra un po’ ovunque. Il problema è che quando parliamo di arte, di pensiero critico e così via, è difficile pensare che questo possa essere frutto di un piano politico. La politica dovrebbe limitarsi a creare delle condizioni, perché se vuole influenzarne i contenuti finisce inevitabilmente per snaturarne il senso e depotenziare la creatività.

Comunque, fatto sta che mentre la questione del cinema è siventata una battaglia politica, un po’ come ogni cosa, ci sono migliaia di persone che rischiano di rimanere a casa, o che già sono rimaste a casa senza un lavoro.

Questa settimana oltre 300 tra attori, registi e tecnici del cinema italiano hanno firmato una lettera aperta indirizzata al Ministro della Cultura e ai Sottosegretari in cui si chiede al ministro di incontrare le associazioni di categoria per ascoltare le richieste urgenti del settore e di attivare iniziative ben più ampie e rilevanti. Vedremo se almeno questa azione sortirà qualche effetto.

Mercoledì il Tribunale amministrativo regionale (TAR) del Lazio ha annullato una parte del cosiddetto “Decreto aree idonee”, con cui lo scorso giugno il ministero dell’Ambiente aveva regolamentato la costruzione degli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili, principalmente eolici e solari. 

La parte annullata dal TAR spiega il Post sono i commi 2 e 3 dell’articolo 7 ovvero quella che di fatto garantiva alle regioni un’ampia discrezionalità nella scelta delle cosiddette aree idonee, ovvero le aree su cui dovrebbero essere costruiti gli impianti. Parliamo di grandi impianti come parchi eolici o fotovoltaico a terra.

Ed è una sentenza destinata a far discutere. E a dividere il mondo cosiddetto ambientalista. Da un lato la sentenza è stata accolta con molto favore da varie associazioni ambientaliste, dato che si tratta di impianti necessari alla transizione energetica e che la loro costruzione è spesso ostacolata dalle autorità regionali di varie regioni.

Dall’altro un altro pezzo del mondo ambientalista vede nella costruzioni di questi grandi impianti, penso ad esempio alla Sardegna, l’ennesimo modo delle grandi multinazionali di speculare sul territorio, rovinando alcune aree e lasciando solo le briciole alle comunità locali.

È un tema super complesso perché la transizione energetica è urgentissima e non possiamo permetterci di perdere tempo, al tempo stesso non possiamo in nome di essa perpetrare vecchi meccanismi di potere e escludere dalla decisione gli attori territoriali. Ogni caso andrebbe visto separatamente e invece la questione è finita spesso in mezzo a forze opposte, con da un lato chi cerca di cavalcare l’allarmismo per fini elettorali e vorrebbe bloccare ogni impianto, dall’altro chi non è disposto ad ascoltare e punta al profitto economico più che al benessere generale.

Nello specifico la sentenza del TAR è stata emessa a seguito di un ricorso presentato dall’Associazione Nazionale Energia del Vento (ANEV), che riunisce circa 120 aziende attive nella costruzione degli impianti eolici, secondo cui il decreto del ministero dell’Ambiente conteneva elementi lesivi sulla libera attività imprenditoriale. E questa sentenza fa sì che in futuro le regioni dovranno garantire l’individuazione di aree su cui costruire questi impianti, come previsto dal decreto del ministero dell’Ambiente.

Comunque se il tema vi sta a cuore, ne abbiamo parlato in ben due puntate di INMR+

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