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11 Dicembre 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Ponte sullo Stretto, telenovela infinita: il governo riparte da capo? – 11/12/2025

Il governo rinuncia a forzare la mano sul Ponte; il rapporto tra agricoltura e intelligenza artificiale; l’ONU che invita ad andare oltre il PIL; la vittoria di una democratica a Miami.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Questo episodio é disponibile anche su Youtube

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Trascrizione episodio

Avete presente il gioco dell’oca, quando becchi la casella sbagliata e devi tornare al punto di partenza, fra improperi vari? Ecco una cosa simile è successa al governo sul ponte dello Stretto di Messina. Quindi il governo è il giocatore, il Ponte è il traguardo, le caselle sbagliate sono in realtà parecchie e gli improperi sono soprattutto di Salvini. 

Vi leggo la notizia come riportata dal Post: “Dopo aver criticato la Corte dei conti, che a ottobre non aveva approvato il progetto del ponte sullo Stretto di Messina, il governo ha deciso di non forzare le procedure: dopo annunci, polemiche, discussioni e soprattutto intoppi si ricomincerà quasi da capo, tornando indietro a otto mesi fa, con più consapevolezza sugli errori e le leggerezze commesse. Non è la prima volta che succede”.

Ma che è successo esattamente? Come forse immaginerete, per fare un’opera gigantesca come il ponte sullo Stretto, serve una sequenza abbastanza imponente di autorizzazioni, Prima la società incaricata – che in questo caso è la società Stretto di Messina spa – deve presentare il progetto definitivo. Poi questo progetto deve passare dal ministero dell’Ambiente, che fa due controlli molto grossi, le due principali valutazioni d’impatto richieste da tutte le grandi opere: la VIA, cioè la valutazione di impatto ambientale (quanto l’opera incide su flora, fauna, paesaggio, ecosistemi), e la VAS (valutazione ambientale strategica), che guarda l’opera dentro una prospettiva più ampia, di pianificazione del territorio, dei trasporti eccetera. 

Se queste valutazioni vanno bene, si passa al CIPESS, che è un comitato interno al governo, di cui fanno parte alcuni ministri del governo stesso e la premier, e il CIPESS, semplificando, dice: ok, quest’opera si fa, costa tot, i soldi si prendono da qui e da lì, e queste sono le condizioni. Ma non è ancora finita: quella delibera deve essere controllata dalla Ragioneria dello Stato, che guarda se i conti tornano, e poi dalla Corte dei conti, che controlla la legittimità e l’uso corretto dei soldi pubblici. 

Solo dopo questo giro, se tutti dicono sì, la delibera viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale e il progetto è ufficialmente approvato e i cantieri possono partire.

Adesso, sulla carta, il percorso doveva essere ordinato: progetto definitivo, VIA/VAS, delibera CIPESS, controlli, Gazzetta, cantieri. Nella realtà, negli ultimi due anni è andato storto un po’ tutto e la questione del ponte sullo stretto ha assunto i connotati un po’ del paradossale, della farsa. 

Il progetto definitivo è arrivato in ritardo rispetto agli annunci. La commissione che si occupa per conto del MASE della valutazione di impatto ambientale ha fatto 280 osservazioni, ha detto che c’erano 280 cose che non tornavano. E poi, ad ottobre la Corte dei conti non ha approvato la delibera del CIPESS, cioè non l’ha registrata. 

Perché? La nostra Elisa Cutuli lo aveva spiegato già nella rassegna siciliana di novembre, ma cerchiamo di approfondire ulteriormente. La Corte dei conti ha rilevato due nodi principali. Il primo riguarda l’ambiente. In pratica il governo ha forzato un po’ la mano sulle procedure ambientali, le famose VIA e VAS, usando uno strumento che si chiama IROPI, che sta per Imperative Reasons of Overriding Public Interest, cioè “ragioni imperative di prevalente interesse pubblico”. In pratica è una procedura che ti permette di dire: ok, normalmente qui i vincoli ambientali sarebbero così rigidi da impedire l’opera, ma siccome quest’opera è ritenuta importantissima per l’interesse pubblico, possiamo derogare a quei vincoli. Nel caso del ponte, questa IROPI è stata legata anche all’idea che il ponte sia un’infrastruttura di interesse militare (tant’è che nei calcoli della spesa per la difesa della NATO). Che è un tema che sarebbe interessante approfondire, perché ogni tanto questa roba viene ritirata fuori senza che sia mai spiegata dal governo.

Comunque si è detto: il Ponte è strategico anche dal punto di vista militare, quindi possiamo tirare dritto nonostante i vincoli ambientali fortissimi in quell’area. Questa cosa è stata contestata da molti, e la Corte dei conti ha però sollevato un dubbio sul fatto che questa interpretazione sia compatibile con le regole europee sulle aree protette. Dicendo fra le righe al governo: non è che state usando la carta “interesse militare” per scavalcare un po’ troppo facilmente i vincoli ambientali?

Il secondo nodo riguarda i soldi e gli appalti. Per costruire il ponte si è riattivato un contratto del 2005 con il consorzio Eurolink, guidato da Webuild. All’epoca, nel 2005, il valore dei lavori affidati a Eurolink era circa 3,8 miliardi di euro. Oggi siamo oltre i 10 miliardi. Cioè quasi triplicati. Ora, le direttive europee sugli appalti pubblici dicono che se il valore di un appalto aumenta di più del 50% rispetto a quello iniziale, non puoi semplicemente aggiornare il contratto vecchio e andare avanti: devi rifare la gara. Qui l’aumento è ben oltre il 50%. La Corte dei conti quindi si chiede: è legale proseguire col contratto del 2005, aggiornato negli anni, senza una nuova gara, quando i costi sono esplosi così tanto? 

Fatto sta che il governo si è trovato a un bivio. Perché in realtà le procedure consentirebbero al governo di forzare la mano chiedendo alla Corte dei conti una “registrazione con riserva”, che in pratica significa: tu Corte registri lo stesso la delibera del CIPESS, annotando che hai dei dubbi, e noi governo ci assumiamo la responsabilità politica di andare avanti lo stesso, nonostante le perplessità. 

Il fatto è che, come ha spiegato l’AD di Società Stretto di Messina la registrazione con riserva è sì teoricamente possibile, ma del tutto inappropriata. Applicarla su un’opera così gigantesca e con così tante implicazioni sarebbe una forzatura politica e giuridica che rischia di far saltare tutto più avanti, magari con ricorsi, procedure d’infrazione, e via dicendo. Alla fine il governo ha scelto la strada più prudente: non forzare la Corte dei conti, ma rimettere mano alla delibera. E quindi si riparte non da capo, ma quasi. 

Nei prossimi giorni una delegazione tecnica dei ministeri dei Trasporti e dell’Economia andrà a Bruxelles per parlare con i funzionari della Commissione Europea dei due punti sollevati dalla Corte dei Conti. Quindi se si può utilizzare dell’IROPI per bypassare i vincoli ambientali e se un contratto da 3,8 miliardi può salire a oltre 10 senza una nuova gara giustificando l’aumento come un adeguamento all’inflazione e non una levitazione dei costi.

Se da Bruxelles arriverà un via libera o comunque un orientamento chiaro, il governo potrà usare quella posizione per riscrivere una nuova delibera CIPESS, più corazzata dal punto di vista giuridico. E poi questa “seconda delibera CIPESS” dovrà rifare tutto il giro: approvazione del CIPESS, controllo della Ragioneria, controllo della Corte dei conti. Se stavolta la Corte dirà sì, la delibera andrà in Gazzetta Ufficiale e solo allora i cantieri veri potranno partire.

I tempi però tornano ad allungarsi, anche perché il confronto con l’Unione Europea non ha una scadenza rigida. Salvini continua a dire che l’obiettivo è aprire i primi cantieri entro la prossima estate. Ma lo scorso anno diceva che l’obiettivo era di aprirli per l’estate 2025. E quello prima per l’estate 2024. 

È uscito un articolo molto interessante sul rapporto fra agricoltura e intelligenza artificiale su Altreconomia. È un’intervista a un professore statunitense, realizzata da Susanna Debenedetti,  coordinatrice dell’area formazione, ricerca e sperimentazione in agricoltura organica e rigenerativa della Ong Deafal.

Ve ne voglio leggere qualche estratto: “La produzione e il consumo di cibo sono legati a rapporti di potere economico e geopolitico: ogni epoca storica costruisce un proprio “regime alimentare” e un proprio modo di organizzare la vita rurale. Questa teoria, che spiega il ruolo strategico dell’agricoltura nello sviluppo del capitalismo mondiale, è conosciuta come food regime ed è nata negli anni Ottanta da un’intuizione di Harriet Friedmann e Philip McMichael. Quest’ultimo è sociologo rurale e professore emerito alla Cornell University (Stati Uniti), nonché autore di importanti testi come “Food regimes and agrarian questions” e “Finance or food?“.

E poi segue l’intervista a McMichael. Di cui vi leggo qualche domanda.

Nel suo libro “Food regimes and agrarian questions” descrive i diversi “regimi alimentari” che si sono succeduti nel tempo, crede che l’introduzione massiccia di tecnologie e Ai possa costituire un nuovo regime alimentare? Quali rischi vede in questa evoluzione?

Il rischio principale, se non cambiano le relazioni politiche e di potere, è la scomparsa delle culture agricole su piccola scala. Il regime alimentare corporativo, come lo chiamo io, è ancora molto presente, anche se è stato in parte trasformato dal ruolo della finanza e degli investitori che -pur non sapendo niente di agricoltura- speculano su terre e scorte alimentari. Questo è preoccupante: la mentalità urbana contemporanea tende a non comprendere il valore delle culture rurali, portando a una perdita di rispetto e di conoscenza. Un passaggio chiave è stato il Food systems summit dell’Onu nel 2021, quando le Nazioni Unite hanno stretto un accordo con il World economic forum. Il suo direttore, Klaus Schwab, ha dichiarato che “le multinazionali sono i fiduciari della società”. Questo mi disturba profondamente. Le disuguaglianze globali crescono e le multinazionali hanno ormai un’influenza enorme sui governi. Il multilateralismo arretra e molti Paesi si chiudono sui propri sistemi alimentari interni, trascurando problemi comuni come la crisi climatica o l’impatto ambientale dell’agricoltura industriale -responsabile di circa il 30% delle emissioni. L’Ai rischia di consolidare questo modello, creando piattaforme universali e set di dati che ignorano i saperi locali. Ci sono delle eccezioni: in alcuni contesti gli agricoltori locali stanno sviluppando in modo autonomo forme di Ai e questo è incoraggiante. Ma restano comunque delle minoranze. Occorre un cambiamento radicale nella percezione del mondo rurale: riconoscere che le filiere locali possono garantire sicurezza alimentare e sostenibilità se gestite in modo da preservare biodiversità e ridurre emissioni. Oggi, invece, gran parte del commercio alimentare globale è dominato da alimenti ultra-processati, con gravi conseguenze per la salute pubblica.

Ha accennato al ruolo che le tecnologie potrebbero avere per i piccoli agricoltori anche se la ricerca sembra spesso orientata verso le grandi produzioni. Crede che Ai e politiche pubbliche possano realmente sostenere i piccoli produttori locali, magari attraverso strumenti open-access o comunitari?

Credo che molto dipenda dalle domande che orientano lo sviluppo dell’Ai. Oggi la maggior parte delle piattaforme tecnologiche è costruita su modelli standardizzati che cancellano la specificità dei territori: suoli, climi, pratiche locali. Se invece l’Ai venisse progettata per proteggere e rigenerare i sistemi alimentari locali, potrebbe essere preziosa per studiare, per esempio, le relazioni tra erbe spontanee, come nel progetto NeutraWeed, o raccogliere dati sui benefici ecologici delle interazioni tra specie. Anche l’accesso a informazioni sui mercati locali potrebbe rafforzare la sovranità alimentare. Quindi non è la tecnologia in sé il problema, ma chi la progetta, perché e a vantaggio di chi.

Insomma, è interessante notare come anche in agricoltura il problema non sia l’IA, ma l’IA all’interno di un sistema di capitalismo corporativo.

In questi giorni a Nairobi è in corso l’assemblea dell’ambiente delle Nazioni Unite, ed è stato presentato un documento molto interessante: il Global Environment Outlook 7, chiamato “A Future We Choose”, ovvero il nuovo mega-rapporto UNEP sullo stato dell’ambiente globale. È un lavoro gigantesco: 287 scienziatə da 82 paesi, centinaia di revisori e, per la prima volta, un coinvolgimento strutturato di comunità indigene e detentrici di saperi locali.

Il rapporto, come spesso accade, non dice niente di particolarmente nuovo, ma il fatto che lo dica l’Onu è importante. In pratica dice, in soldoni: se continuiamo con il BAU, non andiamo da nessuna parte. Il degrado ambientale ci costa già oggi migliaia di miliardi l’anno e peggiorerà ancora. Entro fine secolo il 20% del PIL globale sarà tagliato di netto dalla combinazione di crisi climatica, perdita di natura, inquinamento e degradazione delle terre. 

Se invece investiamo – parliamo di una cifra stimata di circa 8.000 miliardi di dollari l’anno fino al 2050 – in adattamento e mitigazione del clima, rinaturazione, riduzione dell’inquinamento, ecc si potrebbero evitare 9 milioni di morti premature entro il 2050, tirare fuori quasi 200 milioni di persone dalla denutrizione e oltre 100 milioni dalla povertà estrema, e tutta una serie di altri benefici sociali ed economici.

Ma l’aspetto più interessante è che – pur usando come indicatori della gravità della crisi climatica i parametri economici classici, e il pil in prmis, il rapporto dice anche che “servono trasformazioni radicali in cinque sistemi: economia e finanza, materiali e rifiuti, energia, sistemi alimentari e ambiente”. E nella sezione “Economia e finanza” dice molto esplicitamente che una condizione chiave “andare oltre il PIL” e usare indicatori di “benessere inclusivi” che tengano insieme capitale umano e capitale naturale. 

Questa cosa fra l’altro non è una frase isolata. Si collega al lavoro del gruppo di esperti ONU “Beyond GDP”, nominato da Guterres, che sta costruendo un nuovo framework globale per misurare benessere, equità e sostenibilità e che dice chiaramente che il PIL non è la bussola giusta per capire se una società sta davvero migliorando. Di nuovo: niente di sconvolgente, niente di nuovo, ma lo dice l’Onu, e questa fa tanta differenza. Significa che certe consapevolezze stanno permeando ambienti in cui fino a pochi anni fa erano tabù.

Eileen Higgins ha vinto al ballottaggio le elezioni per il nuovo sindaco di Miami, la città più importante della Florida, negli Stati Uniti. Higgins, del Partito Democratico, ha battuto con il 59,3 per cento dei voti il candidato Repubblicano Emilio González, sostenuto dal presidente Donald Trump e dal governatore dello Stato Ron DeSantis.

Higgins, che ha 61 anni, è la prima donna a essere eletta sindaca della città, la prima non ispanica, e la prima Democratica dal 1997. Da allora infatti Miami è stata amministrata sempre dai Repubblicani. Quello di Miami è un risultato importante per i Democratici anche in vista delle elezioni di metà mandato del prossimo novembre. Miami è peraltro all’interno della contea di Miami-Dade, abitata in gran parte da persone di origine ispanica e che per anni aveva largamente sostenuto i Democratici: alle elezioni del 2024 aveva però sorprendentemente votato in maggioranza in favore di Trump, contro la candidata Democratica Kamala Harris.

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