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24 Luglio 2025
Podcast / Io non mi rassegno

La corsa alla robotizzazione in Cina, fra lavoro e risorse – 24/7/2025

La robotizzazione delle fabbriche in Cina, l’Earth Overshoot Day, la tragica situazione del cibo a Gaza e il giornalismo che cambia (e anche noi).

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Questo episodio é disponibile anche su Youtube

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Trascrizione episodio

“In un laboratorio di 200 metri quadrati nella città manifatturiera di Foshan, nel sud della Cina, Chen Zhen, 38 anni, regola con abilità i parametri di un braccio robotico.

Mentre la macchina ruota accanto a lui, una simulazione ne replica in tempo reale ogni movimento — uno strumento che l’ingegnere elettrico, a metà carriera, non aveva mai usato da solo prima di seguire un corso specializzato lo scorso anno.

“Ora facciamo tutto al computer con la simulazione, invece di risolvere i problemi direttamente sul posto,” racconta.

A Foshan e lungo tutta la cintura industriale cinese, Chen è diventato esattamente il tipo di lavoratore che il sistema nazionale di riqualificazione cerca di formare: specializzato, motivato, e ancora in piedi in un settore che sta rapidamente eliminando i ruoli più tradizionali”.

Nella Cina manifatturiera, la rivoluzione dell’automazione non è più una promessa futura: è già realtà. E per migliaia di lavoratori, la scelta è ormai binaria: adattarsi o sparire”.

Questo pezzo di articolo che vi ho letto è uscito sul giornale cinese Sixth Tone, un giornale molto interessante sull’attualità in Cina, con un taglio non sempre allineato con qello del governo. 

Il racconto in questione arriva dal Guangdong, cuore produttivo del Sud del paese, dove città come Foshan, note per frigoriferi e condizionatori, stanno vivendo un’accelerazione nella transizione verso le fabbriche robotizzate. Una transizione a un ritmo così rapido che rischia di travolgere chi non riesce a tenere il passo.

Il governo cinese, racconta l’articolo, sta investendo miliardi di yuan in programmi di riqualificazione: corsi, certificazioni, collaborazione con aziende e istituti tecnici. L’obiettivo è chiaro: trasformare operai in tecnici in grado di gestire, programmare e manutenere sistemi robotici e piattaforme dotate di intelligenza artificiale.

Funziona? A metà. Alcuni, come l’ingegnere Chen Zhen, sono riusciti a reinventarsi. Prima operava su impianti elettrici, ora gestisce progetti completi di integrazione robotica. Altri, invece, restano indietro. Ogni linea automatizzata taglia il personale del 15%, e i lavori ripetitivi stanno sparendo. I giovani preferiscono il lavoro online o la gig economy, mentre i più anziani faticano a trovare un nuovo ruolo.

Il problema, spiegano esperti e docenti, non è solo tecnologico: è culturale e strutturale. Molti operai non hanno le basi per affrontare la svolta. Altri trattano la formazione come una formalità. E anche le aziende, soprattutto quelle private, spesso vedono la riqualificazione come un costo, e non come un investimento.

Nel frattempo, i robot non aspettano: solo in Guangdong, la produzione annua è passata da 44 mila unità a quasi 250 mila in cinque anni. I sistemi intelligenti ispezionano pezzi a ritmi impossibili per l’uomo. Nella regione, per provare a tenere le persone a passo coi tempi è stato lanciato il “Piano Milione di Talenti”, con cui la provincia si è impegnata a riqualificare 3 milioni di lavoratori industriali in tre anni, con un’attenzione particolare ai ruoli legati all’intelligenza artificiale. L’obiettivo è mantenere occupabili i lavoratori in prima linea man mano che l’automazione si diffonde.

I media cinesi descrivono questo sforzo come una risposta al “paradosso sostituzione-creazione”, in cui le macchine eliminano alcuni lavori e ne generano altri, spesso più velocemente di quanto i lavoratori riescano ad adattarsi. Persino le università, che si attrezzano con laboratori e corsi pratici, faticano a tenere il passo con il progredire della robotica.

L’articolo si conclude con una serie di dichiarazioni di esperti e ricercatori che spiegano come in Cina, per sempre più aziende, “La robotica sia inevitabile e l’unica vera scelta è se aziende e governi aiuteranno i lavoratori a tenere il passo.”

Vi ho riportato questo articolo sia perché penso che sia interessante racontare cosa avviene in Cina, il secondo paese più popoloso al mondo dopo l’India, sia perché quelle domande, un po’, dovremo farcele anche noi. Non tanto quanto in Cina, perché il tessuto industriale italiano è minimo, ma comunque un po’ sì.

A proposito di politiche industriali e produzione che aumenta… Oggi è l’Overshoot day della Terra per il 2025. Se seguite INMR e ICC non posso credere che non sappiate cos’è l’Overshoot Day, ma ad ogni modo io ve lo ricordo, nel dubbio. L’Earth Overshoot Day è il giorno dell’anno in cui l’umanità ha consumato tutte le risorse naturali (come acqua, legno, suolo fertile, assorbimento di CO₂) che la Terra può rigenerare in un anno intero. Da quel giorno in poi, viviamo “a credito” ecologico, usando risorse che non si rigenerano abbastanza in fretta.

Più è anticipato questo giorno nel calendario, peggio è per il pianeta. L’obiettivo sarebbe posticiparlo ogni anno, fino a rientrare nei limiti del nostro “budget ecologico”. Il problema è che invece negli anni è slittato sempre prima, e quest’anno per la prima volta cade a luglio. 

Il WWF, come ogni anno, ne approfitta per ricordarci cosa potremmo fare per invertire la rotta. Non è niente di particolarmente nuovo, ma un ripassino fa sempre bene. Leggo: 

“In un momento segnato da scarsità di risorse e urgenza climatica, il cambiamento non è solo necessario, ma strategico. La rotta può essere invertita. Per riportare l’umanità in equilibrio con le risorse terrestri (ovvero far coincidere l’Overshoot Day con il 31 dicembre), dobbiamo ridurre l’impronta ecologica globale di circa il 60% rispetto ai livelli attuali. È possibile spostare la data dell’Overshoot agendo in cinque settori strategici:

  • Transizione energetica: passare a fonti rinnovabili ed eliminare i combustibili fossili.
  • Economia circolare: riciclare, riutilizzare, azzerare gli sprechi.
  • Alimentazione sostenibile: diminuire il consumo di carne e preferire cibi biologici, locali e stagionali.
  • Mobilità green: favorire trasporti pubblici, biciclette e veicoli elettrici.
  • Politiche globali: accordi internazionali più stringenti per la tutela ambientale.

Ad esempio, se riducessimo del 50% le emissioni di CO₂, sposteremmo la data di ben 3 mesi (93 giorni)! Se diminuissimo del 50% il consumo globale di carne, guadagneremmo 17 giorni. Se fermassimo la deforestazione, recupereremmo 8 giorni.
Soluzioni come l’agricoltura rigenerativa, la mobilità sostenibile e l’efficienza energetica non solo riducono l’impronta umana, ma creano valore economico e resilienza sociale. Se riuscissimo a spostare l’Overshoot Day di 5 giorni all’anno, entro il 2050 torneremmo in equilibrio con le risorse del Pianeta.


Si tratta di una media realistica che combina: tecnologia(efficienza energetica, rinnovabili), comportamenti individuali (dieta, trasporti, stile di vita) e politiche globali (accordi climatici, economia circolare).

“Un nodo cruciale è il nostro modello economico, fondato sulla crescita illimitata dei consumi materiali – di energia, risorse, materie prime – che è semplicemente incompatibile con un Pianeta dalle risorse finite. Non dobbiamo puntare all’aumento quantitativo, ma a un progresso qualitativo, fatto di conoscenza, relazioni umane, diritti e tutela della Natura da cui dipendiamo. È fondamentale sostituire il PIL come unico indicatore di sviluppo con indicatori più complessi, che considerino la salute degli ecosistemi, il benessere psicologico e la coesione sociale.” conclude Eva Alessi. La sfida è enorme, e proprio per questo, ogni azione è fondamentale.

Concordo. Aggiungo che per raggiungere questi risultati è indispensabile cambiare modello economico – indubbiamente – uscendo dal paradigma della crescita. Ma non solo. Serve anche uscire dallo schema del lavoro salariato come unico mezzo – o mezzo principale – per ottenere uno stipendio, perché sennò per via dell’automazione di cui parlavamo prima finiremo per produrre una quantità spropositata di cose in più, perlopiù inutili. E serve anche un cambiamento ancora più profondo, antropologico, che investa il nostro rapporto di noi umani con il resto degli ecosistemi naturali.  

“Dal 27 maggio l’unica organizzazione autorizzata a distribuire cibo nella Striscia di Gaza è la Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), fondata su impulso di Israele per rimpiazzare la rete della distribuzione del cibo che da molti anni era formata da circa 200 ong. Ci sono limitate e saltuarie eccezioni, ma i palestinesi possono trovare cibo quasi solo nei centri gestiti dalla Ghf. I centri sono quattro, contro i 400 punti di distribuzione attivi in precedenza: per raggiungerli bisogna fare un viaggio lungo e pericoloso e passare notti o giorni interi in coda, con poche certezze di riuscire a ottenere davvero qualcosa.

I punti di distribuzione restano aperti pochi minuti al giorno: tempo in cui le persone corrono ad accaparrarsi tutto ciò che possono, senza troppe regole. Solo pochissimi riescono a tornare a casa con qualche rifornimento di cibo e spesso soldati israeliani e contractor statunitensi sparano sulla folla, uccidendo ogni volta decine di persone. Secondo le Nazioni Unite dal 27 maggio a oggi più di 1.000 palestinesi sono stati uccisi mentre cercavano di ottenere del cibo”.

Siamo sul Post, che racconta in un articolo la tragedia di choi prova a procacciarsi cibo nella Gaza occupata. Racconta il pezzo che “I quattro “Siti di distribuzione sicuri” – così li chiama la Ghf – sono in realtà aree militarizzate, sorvegliate da torrette, carri armati e soldati, dentro zone dove i civili palestinesi normalmente non possono nemmeno accedere. Aprono pochi minuti al giorno, senza orari certi. La Ghf annuncia l’apertura su Telegram o Facebook pochi istanti prima, e spesso l’avviso di chiusura arriva prima di quello di apertura.

Ogni centro ha un sistema a bandiere per segnalare se è aperto o chiuso. Quando si apre, scatta una corsa disperata: si passa tra filo spinato e checkpoint, con l’identificazione tramite scanner dell’iride che spesso non funziona. Solo i più giovani e forti riescono ad arrivare in tempo; donne, bambini e anziani rimangono indietro.

Chi riesce a entrare può raccogliere uno scatolone con farina, riso, pasta, legumi, tè e poco altro – dichiarati sufficienti per 60 pasti. Ma il cibo finisce in 10-15 minuti, e molti devono riprovare il giorno dopo, affrontando lo stesso inferno. Alcuni raccontano di essere stati derubati da uomini armati e incappucciati durante il ritorno. Un medico spagnolo che lavora vicino ai centri racconta che le persone ferite “dicono tutte la stessa cosa: i soldati sparano sui civili senza motivo e senza preavviso”. 

E mentre la malnutrizione cresce, molti palestinesi evitano del tutto i centri per paura di essere uccisi. Le alternative? Acquistare cibo a prezzi fuori portata, coltivare pochi ortaggi, o sperare nei camion dell’ONU, che però passano di rado.

Ieri 109 organizzazioni umanitarie hanno diffuso un comunicato congiunto per chiedere al governo israeliano di permettere l’ingresso di cibo e altri beni essenziali nella Striscia di Gaza. Organizzazioni anche molto grosse, tra cui Save the Children e Medici Senza Frontiere. Dicono chiaramente che «l’assedio» di Israele nella Striscia «affama le persone», e che ormai anche gli operatori umanitari si mettono in coda insieme ai palestinesi per ricevere del cibo, rischiando di essere uccisi dall’esercito israeliano che spara sulle folle.

Mentre il giorno prima, il 22 luglio, racconta Anna Spena su Vita, centinaia di persone sono scese in piazza in Israele per la “marcia della farina”, organizzata dal movimento Standing Together, per chiedere anche loro al proprio governo di sbloccare gli aiuti umanitari verso la popolazione della Striscia.

“Lasciare che i bambini raccolgano e imprigionino nei secchielli granchi o piccoli pesci non è vacanza, è crudeltà. Che viene consentita ai più piccoli, in base ad un liberi tutti estivo che non ha alcuna ragione di essere. Lo è anche raccogliere meduse con il retino e lasciarle seccare e morire sulla spiaggia. Lo è ancora di più se ci sono i genitori, persone adulte, lì presenti e magari sono proprio loro ad incoraggiarli a farlo. Perché magari facevano lo stesso quando erano ragazzini e pensavano che fosse divertente. Ma poi sono cresciuti, e dovrebbero avere imparato che invece era solo crudele. La reiterazione del reato – perché, anche se in spiaggia sembra tutto un gioco, maltrattare animali lo è, anche se si tratta di animali che non parlano – dimostra invece il contrario. Ma perché certe lezioni non si imparano mai?”

A scrivere queste parole di accusa, anche piuttosto dure se volete, è Alessandro Sala sul Corriere della Sera di ieri. Vi ho letto questo estratto perché di nuovo mi colpisce come sempre più alcune tematiche siano diventate quasi scontate anche per giornali non particolarmente attenti a questioni ambientali come il Corriere.

Stesso discorso potremmo farlo per Will Media, che non c’entra niente col Corriere ovviamente, parliamo di un giornale nato e cresciuto sui social, ma che comunque ha raggiunto numeri giganteschi, e che ha dedicato uno speciale all’isolamento del vivere in città e al fenomeno del cohousing.

A tal proposito, vi devo dire che anche noi stiamo cambiando. Forse avrete già letto la notizia ma mi sembra importante darvela anche qui. E per farlo lascio la parola a Daniel Tarozzi:

Contributo disponibile all’interno del podcast

Già già già. A parte – dico davvero – che sono commosso dalla stima di Daniel, che però non è oggettivo, ma grazie davvero, però ecco c’è questa novità. Trovate su Italia che Cambia e fra le fonti di questa rassegna l’editoriale di Daniel, uscito ieri, e il mio che esce oggi. Buona lettura, se vi va.

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