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8 Agosto 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Dal trattato sulla plastica all’occupazione totale di Gaza: non è troppo tardi per cambiare rotta – 8/8/2025

I negoziati in corso a Ginevra sulla plastica, il via libera alla fase realizzativa del Ponte di Messina, Gaza fra occupazione totale e proteste.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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In questi giorni sono in corso a Ginevra dei negoziati molto molto importanti per il futuro della nostra specie (e di diverse altre) su questo Pianeta. E come per tutte le cose realmente importanti, probabilmente non ne avrete sentito parlare. Sto parlando dei  negoziati per arrivare a un trattato globale vincolante contro l’inquinamento da plastica, condotti dalle Nazioni unite. Sono negoziati che arrivano dopo il buco nell’acqua di fine 2024 in Corea del Sud, quando non si raggiunse un accordo, e dopo anni di tentativi. Sono iniziati il 5 agosto e andranno avanti fino al 14.

Nelle scorse settimane il Guardian aveva messo in guardia dal peso crescente della lobby della plastica sui negoziati, con lobbysti che minacciano funzionari, partecipano in massa e fanno pressioni perché non se ne parli. A Busan erano più dei delegati della Corea del Sud (che ospitava l’evento) e quasi quanti quelli dell’Unione Europea. Greenpeace e altre ONG hanno denunciato pressioni, intimidazioni, interferenze nei lavori, persino tentativi di far sostituire scienziati indipendenti con rappresentanti pro-industria. E in effetti, con poche eccezioni, almeno in Italia non se ne parla. 

Uno dei pochi articoli approfonditi e ben fatti che ho trovato sull’argomento è quello di Economia Circolare, che alla vigilia racconta le speranze e le incognite di questo incontro. Il nodo più grosso da sciogliere, racconta Daniele Di Stefano su Economia Circolare, resta sempre lo stesso — limitare o no la produzione globale di plastica? E se sì, in che modo, e con quali regole?

Sulla carta, si parte da un testo base – quello che viene chiamato “Chair’s Text” – che rappresenta una sorta di compromesso elaborato dopo consultazioni internazionali. Secondo alcuni osservatori citati nell’articolo, il testo lascia ancora margini per un trattato ambizioso, ma i punti di stallo ci sono tutti. I Paesi restano spaccati su questioni fondamentali e in particolare come vi dicevo su tagliare la produzione o limitarsi a gestire meglio i rifiuti? Ma anche su vietare alcune sostanze chimiche pericolose, come plastificanti e ritardanti di fiamma, oppure no?

A guardare i dati, in realtà, sembrano domande retoriche che dovrebbero avere risposte scontate. Produciamo quasi 400 milioni di tonnellate di rifiuti plastici all’anno, destinati quasi a raddoppiare nel giro di qualche decennio se non invertiamo la rotta, e meno del 10% di questa viene riciclato. Circa il 36% della plastica serve solo per imballaggi e usa e getta. Ogni minuto, nel mondo, compriamo un milione di bottiglie di plastica. Ogni anno usiamo fino a 5.000 miliardi di sacchetti (questo dato devo dire mi ha impressionato, sono più di 600 in media all’anno a persona, considerando anche i neonati fra le persone). E ogni giorno, nei mari e nei fiumi, finiscono l’equivalente di 2.000 camion della spazzatura pieni di plastica.

Sono numeri impressionanti, e secondo un recente studio del Lancet, di cui ha parlato il Post, gli effetti sulla salute umana dell’inquinamento da plastica sarebbero ad oggi molto sottostimati. Il Lancet scrive – ed è forse la rivista medica più autorevole al mondo – che è un «pericolo grave, crescente e poco riconosciuto per la salute umana e del pianeta».

E non è tutto: oltre il 98% della plastica monouso viene da combustibili fossili, quindi parliamo anche di crisi climatica. E poi c’è il lato tossico: l’intera filiera, dalla produzione al degrado, rilascia sostanze pericolose per la salute umana e ambientale. 

Per tuti questi motivi nel marzo 2022, i Paesi dell’Assemblea delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEA) hanno adottato una risoluzione per avviare i negoziati su uno strumento internazionale giuridicamente vincolante per porre fine all’inquinamento da plastica, anche nell’ambiente marino. La risoluzione ha istituito un Comitato intergovernativo di negoziazione (INC), che si è riunito più volte per cercare di trovare un accordo. L’Ultima in Corea dove i negoziati si sono arenati davanti a un muro: da una parte il blocco dei Paesi più ambiziosi – Norvegia, Ruanda, Messico e una sessantina di altri – che chiedevano un trattato che toccasse tutto il ciclo di vita della plastica, dalla produzione al fine vita. Dall’altra parte il gruppo dei cosiddetti Like-Minded Countries – Arabia Saudita, Russia, Iran, Cina e altri – che vogliono limitare il trattato al solo riciclo e gestione dei rifiuti, senza toccare produzione e petrolio. Guarda caso sono anche alcuni fra i principali produttori di petrolio, dunque di plastica. A questi si aggiungono gli Usa che, pare, stando a quanto riporta Rinnovaili.it, In vista dell’apertura dei colloqui in Svizzera, avrebbero persino inviato delle lettere ad almeno una decina di Paesi per scoraggiarli dal sostenere obiettivi più ambiziosi.

Nel mezzo ci sono i Paesi del Sud globale, che non producono plastica in massa, ma si ritrovano sommersi da quella che arriva dall’Occidente, in una forma di colonialismo dei rifiuti. E quindi chiedono soprattutto aiuti tecnici e finanziari per affrontare la crisi.

Fra l’altro alle Nazioni Unite su questo tipo di trattato si decide per consensus, cioè serve l’unanimità. Basta quindi un Paese che si oppone per bloccare tutto, e in qualche modo si deve arrivare a un compromesso, alla fine. In realtà ci sarebbe una clausola per passare al voto a maggioranza, ma bisogna mettersi d’accordo anche su quello. E finora, nei primi incontri, si è perso più tempo a discutere il regolamento che le politiche sulla plastica.

E ora siamo di nuovo qui. Con oltre 3.700 partecipanti da 184 Paesi, una quantità spropositata di lobbysti, ma anche diverse associazioni della società civile e una consapevolezza sempre più diffusa che la plastica è un problema gigante. O meglio, l’utilizzo estremamente stupido che facciamo della plastica, che sarebbe anche un materiale fantastico per un sacco di cose, che ha il pregio di essere praticamente indistruttibile e che giustamente abbiamo scelto come cavallo di battaglia dell’usa e getta (che è la vera aberrazione dei nostri tempi).

Noi, anche se nelle prossime due settimane la redazione rallenterà molto, seguiremo l’andamento dei negoziati attraverso le nostre news. Vediamo.

“Se ne parla da un secolo e più, eppure ogni passo che fa il progetto del ponte sullo Stretto è accompagnato dall’effetto sorpresa. Perché nessuno ha mai creduto che si possa fare veramente.”

Inizia così l’articolo di Paolo Viana su Avvenire che racconta l’approvazione del progetto definitivo del Ponte sullo Stretto di Messina, indubbiamente una delle opere più lunghe, titaniche e controverse della storia recente del nostro Paese. L’approvazione è arrivata nella giornata di mercoledì e ha indotto i giornali a scegliere titoli come “Il ponte sullo stretto si farà davvero” e cose simili. Ora cerchiamo di capire se è realmente così, ma prima capiamo meglio cosa è stato approvato. Restiamo su Avvenire per scoprire che il Cipess (il Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile) ha approvato il progetto esecutivo. Il Cipess sarebbe quell’organismo del governo che deve approvare tutte le decisioni strategiche quando si tratta di investimenti pubblici, grandi opere e utilizzo dei fondi statali. Il fatto che abbia dato il via libera apre quindi le porte alla cosiddetta fase realizzativa.

Perché partano davvero i lavori però servono ancora due passaggi: la bollinatura, quindi il timbro, della Corte dei Conti e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. A quel punto, superati questi due passaggi, da settembre dovrebbero partire i primi lavori. Ma attenzione, non la costruzione vera e propria del ponte, ma quella che viene chiamata la fase delle “opere anticipate”. In pratica una serie di interventi preparatori: parliamo di espropri (perché sì, parecchi terreni devono essere espropriati), indagini geologiche e archeologiche, bonifiche da eventuali ordigni bellici, sondaggi e l’allestimento dei campi base.

Solo alla fine di questa fase dovrebbe partire la fase di costruzione vera e propria. Come scrive ancora Avvenire, “Il ponte, secondo i piani, dovrebbe essere il ponte sospeso più lungo del mondo e collegherà le due sponde dello Stretto, da Messina a Villa San Giovanni. Il tutto per un costo stimato intorno ai 13,5 miliardi di euro, interamente a carico dello Stato, quindi con soldi pubblici. Intanto, mentre arrivava il via libera del Cipess, la società Stretto di Messina ha messo nero su bianco una serie di accordi con i principali attori coinvolti: Webuild, che guida il consorzio Eurolink incaricato della costruzione, Parsons che seguirà la consulenza progettuale, Edison Next per il monitoraggio ambientale e Marsh per tutto ciò che riguarda le assicurazioni”.

Ma quindi com’è questo progetto approvato? Nelle parole di Salvini, che è attualmente il suo principale promotore e che sull’opera ha scommesso la sua credibilità politica (quale poi, boh) l’inaugurazione si Farà tra il 2032 e il 2033. Per le auto e gli altri mezzi su gomma il tempo medio di percorrenza si ridurrà da una forbice di 70-100 minuti a 10 minuti. Salvo precisare che “se ci andrete da turisti in agosto rischiate di aspettare anche 3-4 ore”. Poi ha detto che i treni attraverseranno lo Stretto in un quarto d’ora contro le due-tre ore di oggi, che l’investimento è di 13 miliardi e mezzo e che ci sarà anche una metropolitana, tre fermate sul fronte messinese che collegheranno tutti i giorni studenti, pendolari, lavoratori, ingegneri, turisti, in metropolitana, da una sponda all’altra.

Con l’approvazione del progetto è scattata anche la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, che è il passaggio chiave per far partire gli espropri. Che è uno dei temi discussi.  Su questo punto, sulla carta, si parla di un approccio “partecipato”, con l’obiettivo di arrivare a più adesioni volontarie possibile. Ma i numeri sono importanti. Come racconta il Post, “Sulla costa siciliana nella zona a Nord di Messina il progetto prevede di espropriare 448 unità immobiliari, di cui 291 case”.

La domanda delle domande comunque resta: “Ma quindi il Ponte si farà davvero?” Eh bella domanda. Al momento restano molti nodi da sciogliere. Nel senso che il Comitato scientifico che ha dato l’ok al progetto ha segnalato comunque una serie di criticità che andranno approfondite con pareri di esperti e sciolte in fase realizzativa. E alcune non sono da poco. A partire dal rischio sismico, che è elevato in quella zona, con uno dei piloni che dovrebbe sorgere praticamente sopra una faglia attiva. E poi ci sono ancora molte incognite sugli impatti ambientali, sulle compensazioni per i territori coinvolti, sulla mobilità locale e regionale e sulla reale sostenibilità del tutto.

Insomma, anche se a sentire Salvini sembra che i lavori stiano per partire, la strada è ancora lunga. E anche se i lavori partissero, non è affatto scontato che proseguano. Spesso in Italia il pattern delle grandi opere è quello di continuare a finanziare e rifinanziarle, il ponte sullo stretto poi sono solo ed esclusivamente soldi pubblici, senza mai farle davvero.

Considerate che per il Ponte sullo Stretto nel 2022 (quando provò a fare i conti Milena Gabanelli sul Corriere) si erano già spesi 1,2 miliardi di euro, i primi dei quali negli anni Ottanta. Fra l’altro in quello stesso articolo si riportavano le stime di Salvini che parlava di un investimento di 6-7 miliardi. Che oggi a soli 3 anni di distanza sono raddoppiati. Insomma, a differenza dei giornali, non mi sbilancerei sul discorso che il Ponte si farà. Mi sembra ancora tutto da vedere.

Abbiamo seguito abbastanza assiduamente l’andamento della guerra a Gaza attraverso le nostre news, anche in assenza della rassegna. Comunque vi faccio qui un mini riassunto delle principali novità. Che sono essenzialmente due: 1. Dopo che la cosa era trapelata più volte negli ultimi giorni, Netanyahu e il suo gabinetto di guerra ieri ser atardi hanno approvato un piano di occupazione militare totale della striscia di Gaza, o di quel che ne rimane. Significa che la popolazione civile che ancora rimane… boh!? 

La seconda notizia è che sta continuando a montare la protesta sia interna che esterna a Israele per il genocidio in corso. Vi segnalo in particolare due cose: un’iniziativa che si chiama “Their hunger is ours. Until Gaza eats, we won’t!”, una forma di azione nonviolenta basata su uno sciopero della fame, messa in atto da palestinesi, israeliani e solidali internazionali presenti nei territori occupati con l’obiettivo di sbloccare gli aiuti umanitari, raggiungere un cessate il fuoco permanente e permettere l’ingresso di giornalisti e Ong che possano documentare quello che succede.

E il moltiplicarsi di cammini per Gaza in Italia, dopo il successo della Local march for Gaza. Questa mattina se seguite le nostre news ne troverete una che vi darà più dettagli, nel caso foste interessati.

Anche sull’altro fronte, sull’altra guerra più mediatica, quella in Ucraina, perché ricordiamo sempre che di guerre nel mondo ce ne sono oltre 50, ci sono delle attività in corso, con Witkoff, l’inviato di Trump, che ha incontrato Putin e poi ieri è arrivata la notizia di un incontro diretto imminente fra Trump e Putin, in cui Zelensky non sarà coinvolto. Un vertice da cui non si sa bene cosa aspettarci, onestamente, visto come fin qui Putin abbia spesso sfruttato queste occasioni più per prendere tempo e continuare l’avanzata in Ucraina che per cercare realmente di trattare e arrivare a un cessate il fuoco. Vedremo.

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