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Esteban Chaves ha perso la maglia rosa proprio all’ultima curva. Ce l’aveva quasi fatta e sarebbe entrato nella storia del Giro d’Italia se il destino non avesse deciso altrimenti. È stato sconfitto. Ci si attenderebbe la solita faccia delusa. Il volto sfiancato dalla fatica, la bocca tesa e la voce incrinata di chi come al solito pronuncia frasi trite: «ho dato tutto; mi ero preparato per vincere, ma non ce l’ho fatta».
Invece, niente di tutto ciò. Esteban Chaves dopo una tappa sfiancante e una vittoria sfiorata, sorride: «Che soddisfazione. Tre anni fa se mi avessero detto che ero sul podio del Giro non ci avrei mai creduto. Oggi io e Vincenzo abbiamo dato spettacolo. Nibali è stato più forte, io non avevo la gamba: è la vita».
È la vita. Ha ragione Chaves. E lo dice col cuore, senza infingimenti. Come quando parla dei suoi genitori venuti per la prima volta in Europa a vederlo correre. I genitori sono felici, lo vedono pedalare fra i sogni, come un bambino. E a loro non importa della maglia rosa, dei contratti pubblicitari, della notorietà. Sono qui per lui. Per abbracciarlo ancora una volta, nonostante il risultato.
Voler essere primi, passare la vita a sognare il primo posto, oppure, peggio di tutti, sognare sempre il sogno del vincente, questo sì vuol dire essere insignificanti; questo sì lascia trascorrere la vita senza dignità.
Invece, ha ragione Chaves: la condizione di chi arriva secondo ed è felice qualifica l’esistenza: «questa è la vita, la vera vita».
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