9 Giu 2017

“Noi sogniamo il silenzio”, l’utopia concreta di Adriano Olivetti

Scritto da: Roberto Vietti

Sono passati più di cinquant'anni dalla morte di Adriano Olivetti. Rileggere le sue parole in questo periodo storico ci inducono a riflettere su quello che è stato il percorso della nostra società sino ad oggi. Allo stesso tempo ci fanno capire l'innovativa spinta valoriale e concreta dell'imprenditore eporediese.

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Torino - IVREA (TO) – La Olivetti s.p.a. è parte della storia industriale piemontese e nazionale.
Essa nacque nel 1908 dall’idea di Camillo Olivetti, che con un capitale sociale di 350.000 Lire, la fondò partendo dalla storica fabbrica in mattoni rossi, che sul tetto riportava la scritta: “Ing. c. Olivetti & c, prima fabbrica nazionale macchine per scrivere”.

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L’azienda venne realizzata nel Canavese, un territorio sino a quel momento utilizzato per attività agricole o artigianali. La stessa fabbrica si trovava al di fuori della città d’Ivrea, in campagna.

Dieci anni prima, a Torino, nasceva la FIAT, che contava circa cinquanta operai. La Olivetti iniziò con quattro tecnici.

Lo sviluppo della azienda fu da subito notevole; nel 1940 venne realizzata la prima addizionatrice, seguita nel 1945 dalla Divisumma 14, prima calcolatrice al mondo in grado di eseguire le quattro operazioni. Dal 1938 era divenuto direttore dell’impresa Adriano Olivetti, figlio di Camillo.

Adriano è stato un uomo di grande rilievo nell’Italia del dopoguerra, con una visione innovativa dei progetti industriali, basati sul principio secondo cui il profitto aziendale deve essere reinvestito a beneficio della comunità.

Padre ebreo e madre valdese, si oppose da subito al regime fascista con momenti di militanza attiva. Partecipò con Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, Sandro Pertini e altri alla liberazione di Filippo Turati.

L’idea del lavoro per Adriano Olivetti comprendeva il concetto di felicità collettiva. Era per lui possibile creare un equilibrio tra solidarietà sociale e profitto. Le condizioni di vita degli operai erano migliori rispetto alle altre fabbriche italiane: salari più dignitosi, asili e abitazioni vicino la fabbrica, attenzione all’ambiente, etc…

Leggendo “Noi sogniamo il silenzio”, di Adriano Olivetti, si percepisce quanto i suoi ideali fossero forti, concreti e innovativi. Pensate, le parole di questo libercolo, sono parte di un discorso pronunciato a Torino nell’ottobre del 1956 in occasione del VI Congresso dell’Istituto Nazionale di Urbanistica. Siamo nel ’56, ma dopo oltre sessant’anni le sue parole sembrano più che mai attuali.

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“Il mondo delle fabbriche ha chiuso l’uomo negli uffici e nelle fabbriche, tra l’asfalto delle strade e il disordinato intrecciarsi delle macchine, come in una prigione ostile e assordante dalla quale bisogna, presto o tardi, evadere”.

Un uomo a capo di una industria italiana tra le più rinomate al mondo di quel periodo, ci ricordava tutto ciò. Era convinto della necessità di decentrare le attività dalle città alle campagne, premunendo un esagerato squilibrio economico, sociale e culturale, verso i centri urbani,

“Il decentramento non è per noi un problema di conservazione, ma di civiltà… E come la composizione chimica di un corpo è impotente a suscitare il mistero della vita, così le cifre e i numeri, le statistiche e i calcoli dei nostri ministri, le centinaia di miliardi degli investimenti di Stato non basteranno a far progredire una nazione, se non si è pronti ad attingere una nuova linfa vitale dalle profonde radici dell’uomo che si trovano nei villaggi, nei borghi, vicino alla natura e al paesaggio e che si esprimono soltanto nella vita dei comuni e delle province”. E’ preoccupato dello stato di salute della nostra società, e non usa mezzi termini. “La nostra società è ammalata, è mentalmente ammalata… ci troviamo dinanzi a una vera, autentica malattia dell’anima provata dallo sradicamento, dallo sradicamento involontario”. Sradicamento involontario che può essere inteso in due direzioni: di chi è sradicato dalla propria terra e si trova in una nuova comunità solo per ricercare una occupazione, oppure si può sottendere uno sradicamento che più che involontario definirei incosciente. Quello cioè di persone che non sono riuscite a radicarsi, a inseguire un loro percorso, un loro desiderio, e vivono anestetizzati e senza stimoli nella società odierna.

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Per Olivetti è importante la connessione dell’uomo nel contesto naturale dove vive. “Più l’uomo si è allontanato dall’equilibrata integrazione con la natura, più il suo ambiente fisico si è fatto nocivo”. Natura e cultura sono il metro di valutazione del livello di una società. “La civiltà di un popolo si riconosce dal numero, dall’importanza, dall’adeguatezza delle strutture sociali, dalla misura in cui è esaltato e protetto tutto ciò che serve alla cultura”.
Aggiunge inoltre che “ancor troppo denaro, lungi dall’esser indirizzato a necessità umane che gridano urgenza, è deviato verso investimenti che non arricchiscono la comunità nazionale”.

Sono passati più di sessant’anni da questo discorso di Adriano Olivetti e più di cinquanta dalla sua morte a causa di una improvvisa emorragia celebrale che lo colpì nel treno che da Arona lo doveva condurre a Losanna.

Quel che non è morto è il suo pensiero, i suoi ideali che – oggi più che mai – risultano attuali, necessari, possibili per un nuovo modello di società.

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