Dalla tossicodipendenza alla cura: la storia di Roberto “che viene dall’inferno”
Un ex tossicodipendente con diverse condanne è diventato un operatore sanitario. Ora la sua missione è prendersi cura degli altri. Sullo sfondo, tutti i problemi di una periferia difficile e di un modello di sanità malato ed escludente.

A partire dal 31 luglio 2024 circa 300 operatori socio-sanitari del Consorzio Gesco sono stati licenziati dall’Asl Napoli 1: l’azienda sanitaria giustifica questa improvvisa interruzione del contratto, che sarebbe scaduto a dicembre 2025, con l’assunzione nelle stesse mansioni di altrettanti operatori provenienti da concorso pubblico. Nel frattempo l’Asl ha indetto un ulteriore concorso per l’assunzione di altri 1200 operatori dello stesso tipo, con riserva di posti per quanti avevano già svolto tali funzioni.
Da un certo punto di vista si potrebbe essere felici del fatto che ci si sta attrezzando per aumentare il personale e si fanno passi concreti per migliorare anche le condizioni lavorative dei famosi “angeli” del Covid, quelli che hanno accettato di continuare a lavorare nelle RSA – le residenze per anziani – con malati di Alzheimer, persone con problemi di disabilità o di sofferenza psichica nelle SIR – Strutture intermedie residenziali – spesso con poche protezioni sanitarie, proprio quelle assicurate invece ai lavoratori inquadrati nelle aziende.
Il licenziamento repentino è stato veramente un fulmine a ciel sereno per persone che, da anni, si sono qualificate non solo con i titoli, ma anche nel lavoro di cura e sostegno umano con le caratteristiche dell’intervento del privato sociale. Esso infatti non è solo integrazione delle mansioni pubbliche in tempi di carenza del personale, ma è vera e propria cultura dell’attenzione alla persona, spesso anche per operatori che vengono a loro volta da storie “complicate”.

Ed è una cultura che, in Italia meridionale, è stata difesa da tante piccole cooperative che Gesco ha avuto il merito di mettere insieme in una specie di holding che forse, proprio per essere diventata così importante, si è resa meno simpatica ad altre parti della cooperazione, della politica locale, dei sindacati e delle dirigenze. Ma non è di queste ipotesi che vogliamo parlare oggi.
Una delle cose che a me – ex operatore dei servizi per le tossicodipendenze – ha colpito fortemente è la storia di Roberto. Con Roberto ci siamo conosciuti circa trent’anni fa in un centro diurno in cui lui era un “utente” che, come tanti altri, era perso nel labirinto dell’eroina, viveva grandi slanci di speranza e liberazione dalle droghe, purtroppo spesso frustrati dalle inevitabili ricadute.
In questi anni Roberto ha ricostruito – o forse, per la prima volta in vita sua, come dice, ha davvero «costruito e riconosciuto il proprio sé» – trovando una grande motivazione nella relazione d’aiuto. Costernato da queste notizie lo ricontatto e dopo anni c’incontriamo in un bar del centro di Napoli, dove entriamo subito in argomento.
Roberto ha lavorato quasi 15 anni nella SIR di Soccavo, in un momento in cui l’ASL era commissariata e il privato sociale chiamato a risolvere anche i problemi contingenti degli ospedali in carenza di personale, con doppi turni e straordinari. Racconta che, con 18 mesi di anticipo sulla scadenza, lo stesso direttore generale dell’ASL gli ha detto in confidenza di non poter proseguire con le proroghe concordate e sottoscritte, avendo ormai il personale per sostituire i lavoratori chiamati nelle emergenze.

Quando gli chiedo se per caso altri di questi lavoratori, suoi colleghi, vengano da percorsi come il suo – passato da “utente” a “operatore” – mi fa qualche nome di persone che abbiamo conosciuto negli anni bui dell’eroina, di quei pochi sopravvissuti che hanno ricostruito una vita più che degna. Ma si tratta davvero di pochi operatori, molti dei quali hanno preferito emigrare in altri paesi e fare altri mestieri, nonostante le cooperative abbiano garantito un compenso e un contratto a tempo indeterminato, finalmente adeguato a questo lavoro. Questi amici hanno sentito semplicemente il bisogno di uscire dal “tunnel” delle cure, non solo di quelle ricevute, ma anche di quelle che loro stessi hanno imparato a offrire ad altri, “risanandosi”.
Roberto si è formato come educatore professionale, ma per essere inquadrato velocemente ha scelto poi di diplomarsi anche come operatore socio-sanitario, rispondendo alle emergenze delle aziende locali. Cosa è successo perché dentro di lui scattasse quel cambiamento profondo che lo ha portato a trovare la forza per uscire da un pozzo melmoso di disperazione?
Roberto racconta di un operatore a noi molto caro, Rino, un artista che si occupava di fotogiornalismo e che lo coinvolse in progetti di prevenzione delle tossicodipendenze nelle scuole, dandogli un ruolo e facendolo sentire protagonista. Sentirsi utile nel presentare la propria storia ai ragazzi “in età di rischio” gli ha dato il senso del suo percorso, essere coinvolto nell’organizzazione degli incontri con docenti e dirigenti gli ha dato il senso di una vita che fino ad allora non sembrava altro che caos.
Io stesso sono stato testimone di un percorso straordinario
La prova più grande cui fu esposto, “quasi senza volerlo”, fu quando Rino gli dette la chiave di una camera blindata piena di strumenti fotografici e video professionali dall’enorme valore. Roberto racconta che aveva intorno poco meno di quarant’anni ed erano i tempi in cui a casa faceva sparire perfino le tazzine eleganti del caffè e i servizi di bicchieri della mamma per venderli per pochi soldi e tornare ad abbrutirsi nella droga. Ebbene, rimase cinque o sei ore a chiedersi cosa fare, se entrare, prendersi tutto e andarselo a vendere per distruggersi ancora di più.
Lì scattò qualcosa, il dubbio piano piano lasciò venire su non esattamente una decisione, ma la percezione di essere “diventato affidabile”. Roberto racconta che per una serie di condanne, legate a diversi reati, era a un soffio dall’essere dichiarato delinquente abituale, ma ora era successo qualcosa di “clamoroso”, si sentiva riconosciuto e capace di darsi una vita diversa, di rendersi conto che intorno, ormai alle spalle, aveva solo caricature di persone, zombie persi nella dipendenza.
E cominciò a studiare, come fa oggi, che torna a prepararsi sui quiz per il concorso che è stato bandito, anche se è stanco, se ormai ha 63 anni e si sente sicuro che tanti giovani colleghi senza esperienza gli passeranno avanti su tutta quella teoria. Lui conosce il segreto della pratica della cura, dell’attenzione ai pazienti, altro che libri. E oltretutto teme che potrebbe rischiare di doversi trasferire a lavorare nell’estrema provincia, lo preoccupa essere senz’auto, ma sorridiamo pensando che sarebbe davvero meglio dover risolvere questo problema e non quello di rimanere senza lavoro, soprattutto senza il riconoscimento di un percorso che, davvero – io stesso ne sono testimone – è stato straordinario, incredibile.

Quanto lo ha aiutato nel fare l’operatore il fatto di “venire dall’inferno”? Roberto risponde che arrivando nei servizi ha trovato pazienti chiusi a chiave di cui i suoi colleghi più giovani avevano paura: lui sentiva di avere tanto da dare, di non avere più
paura del disagio mentale, neanche delle persone aggressive, degli ex detenuti che qualche volta gli si rivolgevano dicendogli “che ne sai della galera, tu che fai l’operatore”.
Già, che ne sa? Certe cose non è il caso di raccontarle lì al lavoro, a loro soprattutto, meglio riderci su. E cominciamo a
ridere di gusto quando tocco il suo tasto dolente e gli chiedo “come va con i minori?”. Ridiamo perché ricordiamo insieme quando, nel nostro servizio per le tossicodipendenze, facemmo nei suoi confronti un ennesimo tentativo di recupero proponendogli una comunità come pena alternativa per una condanna pendente, lui rispose subito che se c’erano minorenni in quella sede avrebbe
preferito tornare a farsi la galera.
Il sorriso si apre in una risata: sì, la fortuna è che nel suo servizio aveva a che fare con adulti. I ragazzi, specie tossicodipendenti, non riusciva a sopportarli: arroganti e presuntuosi, temerari e sfacciati, provocatori allo sbando. È purtroppo l’amara realtà delle cronache di questi giorni a Napoli, dove i ragazzi si ammazzano fra loro per uno sguardo storto. La sofferenza psichica è un ambiente nel quale sa dare il meglio, sa creare relazioni che fanno bene innanzitutto a lui, mentre i ragazzi di oggi sono allo sbando, in delirio di onnipotenza e alla disperazione inconsapevole.

Roberto merita tutto quello che ha fatto per se stesso in questi anni, lui come i “suoi pazienti” avrebbero meritato un passaggio graduale e un trattamento migliore in questa fase. Ma Roberto supererà anche questa, Roberto viene dall’inferno e sa come uscirne, anche grazie alle sue nipotine di 6 e 11 anni che aiuta a fare i compiti e che lo interrogano chiedendogli aiuto per le frazioni, loro gli danno continuamente il senso di essere finalmente persona.
E forse è davvero importante quest’altra parte più intima del suo percorso di cambiamento: si sente grato a queste bambine, alla sua compagna che è anche una collega – ma soprattutto «è una combattente», dice –, agli utenti dei servizi, a Rino, il suo amico operatore ormai ritirato, purtroppo ridotto alla miseria di una pensione sociale: dopo anni di contratti infimi con le stesse cooperative che non riuscivano ad avere pagamenti regolari della Regione e non potevano fare altro che contratti di collaborazione continuata e non assunzioni: Roberto riconosce di esser stato persino più fortunato di Rino.
Roberto può cambiare ancora, come ha imparato a fare in anni disperati, come ormai sa fare anche se ne ha molta paura: si sente
abitudinario. Oggi Roberto sa riconoscersi come essere umano, per il bene che gli fa sentire chi gli è intorno, per il bene che finalmente vuole a sé stesso.
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