14 Maggio 2025 | Tempo lettura: 6 minuti

Chi era Mujica, il presidente più umile del mondo

Vi proponiamo un’analisi della storia e delle idee di Pepe Mujica, recentemente scomparso, e vi spieghiamo perché il suo è stato un esempio che può continuare a ispirarci profondamente.

Autore: Paolo Cignini
Pepe Mujica

Il 13 maggio 2025 José “Pepe” Mujica è morto nella sua chacra, la piccola fattoria alla periferia di Montevideo dove ha sempre vissuto. Si è spento come ha vissuto: con dignità, semplicità, amore per la terra e per ciò che davvero conta. Aveva 89 anni, da tempo era malato di un tumore all’esofago che si era poi esteso al fegato. Lo sapeva, lo aveva detto a tutti con la sua schiettezza disarmante: «Il mio ciclo è finito… sinceramente, sto morendo. Il guerriero ha diritto al suo riposo».

Ma non è solo la fine di una vita. È la chiusura di un’epoca e, per chi prova ogni giorno a praticare una politica diversa, è un addio che lascia il segno. Mujica non era un politico qualsiasi. Era una coscienza. Era uno specchio. Per noi di Italia che Cambia, che ogni giorno proviamo a raccontare le storie di chi costruisce un altro mondo possibile, Mujica non era un’icona: era un fratello maggiore, un testimone, una conferma vivente che la coerenza è possibile. Che sobrietà e potere possono convivere. Che si può cambiare davvero, anche dall’interno delle istituzioni.

Pepe Mujica in primo piano durante un incontro pubblico
Foto Licenza Creative Commons tratta da https://www.flickr.com/photos/65650720@N02/29849808443

Dalla lotta armata alla politica del perdono

José Mujica nasce nel 1935 in Uruguay, cresce in una famiglia modesta, si avvicina presto alla politica e sceglie la via radicale. Diventa uno dei leader del movimento guerrigliero Tupamaros negli anni Sessanta. Viene arrestato, evade, viene colpito da sei proiettili, viene arrestato di nuovo. Dal 1972 al 1985 vive quasi ininterrottamente in carcere in condizioni disumane: isolamento totale, celle strette e buie, torture psicologiche. Racconterà di aver parlato con le formiche per non impazzire. Ma non impazzisce. Resiste. E cambia.

Quando esce, con la fine della dittatura, non cerca vendetta. Cerca democrazia. Partecipa alla vita politica, fonda il Movimento di Partecipazione Popolare, entra nel Frente Amplio. Diventa deputato, poi senatore, poi ministro. Sempre con lo stesso stile: niente retorica, niente pose. Arriva al Parlamento con una vecchia Vespa, dorme nella sua casa di campagna, parla come mangia. La sua forza è la sua verità. Nel 2009 viene eletto Presidente della Repubblica. E lì accade qualcosa che raramente accade: Mujica non si trasforma nel potere, è il potere che si adatta a lui.

Un altro modo di governare

Per cinque anni guida il Paese senza mai cambiare stile di vita. Rifiuta la residenza presidenziale, vive nella sua chacra con la moglie Lucía Topolansky, coltiva fiori, dona il 90% del suo stipendio. Si sposta con il Maggiolino del 1987, niente scorte, niente formalità. Dice: «Non sono povero, sono sobrio. Povero è chi ha bisogno di tanto per vivere». Ma non è solo una questione di stile.

Durante il suo mandato l’Uruguay diventa il primo Paese al mondo a legalizzare la cannabis in modo statale. Viene approvato il matrimonio egualitario, l’aborto viene depenalizzato, le energie rinnovabili superano il 90% della produzione elettrica nazionale. I tassi di povertà e disoccupazione crollano. Il Paese cresce, ma in modo diverso. Più equo, più giusto, più umano. Mujica non teorizza, fa. Non moralizza, dà l’esempio. E forse proprio per questo diventa un simbolo planetario. I media internazionali iniziano a chiamarlo “il presidente più povero del mondo”. Lui sorride e smentisce: «Povero è chi ha solo soldi». In un mondo che idolatra la ricchezza, la sua sobrietà diventa una forma di disobbedienza. E di speranza.

Proprio la politica economica è uno dei campi su cui sono state mosse le critiche principali a Mujica, molte delle quali provenienti dal suo stesso schieramento politico. In particolare, l’ex presidente è stato accusato di aver favorito gli investimenti stranieri, soprattutto quelli delle grandi multinazionali, con alcune case histories controverse come la disputa sull’estrazione di fibra di cellulosa da parte di una compagnia finlandese. Mujica rispondeva a queste critiche identificando aspetti positivi del capitalismo e ammettendo l’impossibilità di disinnescare completamente un meccanismo troppo grande come quello della globalizzazione economica.

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Un pensiero che cammina sulle gambe

Mujica parlava poco, ma quando parlava colpiva nel segno. Come nel 2012, alla Conferenza Onu Rio+20, dove disse: «Abbiamo creato una civiltà che è figlia del mercato, del consumo compulsivo. Ma siamo davvero felici? O stiamo buttando via la vita lavorando per comprare cose inutili?». Non era ideologia. Era esperienza. Chi ha vissuto tredici anni in isolamento non si incanta più davanti a un centro commerciale. Mujica metteva in discussione le fondamenta del modello economico dominante, ma lo faceva da dentro, con la credibilità di chi ha vissuto ciò che dice. La sua voce parlava anche per noi.

In lui ritroviamo molto di ciò che raccontiamo ogni giorno su Italia che Cambia: la critica al consumismo, la sobrietà come valore, l’impegno politico come servizio e non come carriera, il rispetto per la diversità, il perdono come atto rivoluzionario, la partecipazione come antidoto alla rassegnazione. Il suo approccio alla politica era profondamente rigenerativo. Non nel senso teorico, ma nel senso più concreto e quotidiano del termine. Riconosceva i propri limiti, non pretendeva di salvare il mondo, ma chiedeva a ciascuno di fare la propria parte. Diceva: «La politica è lottare per la felicità degli altri».. E anche: «La libertà è tempo per vivere, non tempo per consumare».

Un’eredità che ci riguarda

Nel 2020, già anziano e malato, lasciò il Senato. «L’amore mi sostituisce – disse –, lascio spazio ai giovani. E alle giovani». Continuò a coltivare, a ricevere studenti, a parlare con chi voleva ascoltare. Con la stessa voce ferma, lo stesso sguardo gentile. Nel 2024 si scoprì malato di cancro. Quando la malattia peggiorò, chiese di non essere più cercato per interviste. Non voleva che la sua morte diventasse spettacolo. Voleva silenzio. Ma sapeva che la sua voce avrebbe continuato a camminare. Non sulle sue gambe, ma su quelle di chi ha scelto – e sceglie – un’altra strada.

Montevideo, Plaza Independencia: la città dove Pepe Mujica ha governato l’Uruguay
Montevideo, Plaza Independencia: la città dove Pepe Mujica ha governato l’Uruguay

Oggi lo piangono il presidente brasiliano Lula, le reti dei movimenti contadini, le comunità politiche della sinistra latinoamericana. Ma lo piangono anche persone comuni, studenti, insegnanti, contadini, giovani attivisti. Lo piangono anche quelli che non sono d’accordo con lui, ma che gli riconoscono un merito: essere stato coerente. Essere stato vero. Per noi di Italia che Cambia, Mujica è stato un esempio vivente di tutto ciò che raccontiamo. Ci ha mostrato che il cambiamento è possibile, anche nei luoghi del potere. Che si può fare politica senza perdere l’anima. Che si può governare senza smettere di ascoltare. Che si può essere radicali e costruttivi, austeri e gioiosi, idealisti e concreti. Che si può cambiare davvero.

Oggi, nel giorno della sua morte, ci sentiamo più soli. Ma anche più responsabili. Perché la sua voce ora tocca a noi riprenderla. Non per imitarla, ma per portarne avanti lo spirito. Non per farne un’icona, ma per farne memoria viva. Lo scriviamo qui, anche per noi stessi: continueremo a raccontare quel cambiamento che Mujica ha incarnato. Continueremo a credere nella politica come gesto umano. Continueremo a cercare e sostenere quelle persone, progetti, comunità che – come lui – dicono la verità con i fatti e con la vita.