Province sarde, a loro piace cambiare: dal referendum del 2012 alle elezioni del 2025
Le elezioni provinciali del 29 settembre si avvicinano, tra dubbi e polemiche. In questo approfondimento, Lorenzo Argiolas evidenzia il rischio che diventino solo poltrone e non strumenti utili ai cittadini.
Cerchiamo di non partire dalla notte dei tempi, anche se a volte ho pensato – in tono provocatorio – che si potesse arrivare alla ripartizione delle province ripristinando addirittura i quattro Stati Giudicali del Medioevo sardo. Oltre dieci anni fa, nel 2012, un referendum decretò l’abolizione delle nuove province in Sardegna, con un consenso popolare limitato ma significativo – l’affluenza fu del 35%. Quel voto era dettato dalla convinzione diffusa che fossero un inutile carrozzone. Oggi, a posteriori, molti osservatori riconoscono però che quell’abolizione non ha semplificato nulla, ma ha solo creato un vuoto.
Funzioni cruciali si sarebbero disperse in un limbo tra la Regione e i 377 Comuni sardi, spesso con risultati disastrosi in termini di efficienza. Adesso la Regione ha scelto di istituire nuovamente quattro province – oltre alle due città metropolitane di Cagliari e Sassari e a quelle storiche di Nuoro e Oristano – attraverso una legge regionale votata nel 2021. Ritroviamo quindi: Gallura Nord-Est Sardegna, Sulcis- Iglesiente, Medio Campidano e Ogliastra. Perciò, il 31 luglio, la Presidente Todde ha indetto la data per le nuove elezioni provinciali, che si terranno il 29 settembre prossimo.

Elezioni provinciali e legittimità popolare
Ma quindi dovremo assistere all’ennesima, caotica, campagna elettorale e recarci alle urne? No, la normativa statale – la legge n. 56 del 2014, la famosa legge Delrio – impedisce l’elezione diretta degli organi provinciali. Le province restano enti di secondo livello, sarebbe a dire che i loro rappresentanti vengono eletti dagli amministratori comunali, non dai cittadini. È significativo che il Consiglio Regionale, nel luglio scorso, abbia approvato una proposta di legge nazionale per tornare all’elezione diretta. Ma ora la palla passa al parlamento italiano.
Nel frattempo i consigli provinciali sardi avranno 14 seggi rispettivamente nelle due città metropolitane e 10 nelle restanti province, ripartiti con un sistema di voto ponderato in base alla popolazione dei Comuni così complesso da risultare opaco e incomprensibile ai più. Il risultato è che non solo i cittadini sono esclusi dal voto, ma anche gli stessi amministratori dei piccoli Comuni vedono il loro peso politico azzerato. Le elezioni si riducono a una trattativa tra i sindaci dei pochi centri maggiori. È la negazione stessa del principio di rappresentatività che dovrebbe animare un ente intermedio il cui compito è, paradossalmente, riequilibrare i territori e contrastare lo spopolamento.
Ma servono davvero le province in Sardegna?
In queste settimane si possono leggere i nomi dei possibili presidenti, ma non si può scegliere, valutare, premiare né punire chi si candida. Persino un sindaco che lavora male o un consigliere assenteista possono ambire a guidare o a sedere nel consiglio di una provincia, senza passare dal giudizio popolare. Istituzioni che amministrano risorse fondamentali quindi nascono già svuotate dalla legittimità popolare.
L’utilità (o meno) delle province
Ma servono davvero le province in Sardegna? La risposta potrebbe essere affermativa, ma a una condizione precisa: che non siano scatole vuote o, peggio, distributori di poltrone. Abbiamo già visto troppi enti diventare strumenti utili solo alla sopravvivenza di una certa classe politica e non ai cittadini.
C’è bisogno, invece, di soggetti istituzionali forti, in grado di garantire concretamente quelle funzioni sovracomunali che un singolo comune non può gestire da solo. Pensiamo alla programmazione del trasporto pubblico extraurbano, un servizio vitale per contrastare l’isolamento e lo spopolamento. Pensiamo alla manutenzione della viabilità provinciale secondaria, che è l’ossatura della mobilità interna. Pensiamo alla gestione dell’edilizia scolastica superiore (i nostri licei e istituti tecnici) e alla pianificazione territoriale per la tutela del paesaggio.

La Sardegna è un territorio vasto, complesso, con squilibri profondi e una densità demografica bassissima. Con i suoi 1,56 milioni di abitanti e un calo di quasi centomila residenti in un decennio, ridurre i servizi in base alla sola logica dei numeri significa condannare all’abbandono intere aree. Ben 132 Comuni sardi infatti contano oggi meno di mille abitanti. Un ente intermedio dunque, se costruito bene, può essere uno strumento per riequilibrare l’accesso ai diritti.
Ma per farlo, ciò che serve è rappresentanza vera. Occorre compiere un salto di qualità, culturale e politico. È necessario che le province abbiano competenze chiare e risorse certe. Ma soprattutto è indispensabile che chi le amministra abbia quella legittimità che può venire solo dal voto diretto, sia per chiedere sacrifici sia per dire di no quando serve. Se anche questa riforma fallirà, se anche il ritorno delle province si ridurrà a una mera redistribuzione di poltrone, allora sarà l’ennesima occasione sprecata. A quel punto a pagare il prezzo più alto, ancora una volta, sarebbero i cittadini. E questo significherebbe un’ulteriore delusione e un distacco ancor più profondo dalla politica e dalla cosa pubblica.
di Lorenzo Argiolas










Commenta l'articolo
Per commentare gli articoli registrati a Italia che Cambia oppure accedi
RegistratiSei già registrato?
Accedi