5 Novembre 2025 | Tempo lettura: 6 minuti

“La lingua sarda è un continuum, non è vero che non ci si capisce”. Intervista alla divulgatrice Caterina Roselli

Nell’ultimo approfondimento sulla lingua sarda abbiamo accennato alla differenza delle parlate, tema di cui parliamo oggi con la divulgatrice Caterina Roselli.

Autore: Sara Brughitta
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In Sardegna può capitare che cambiare paese coincida anche col cambiare parlata. Una moltitudine di luoghi alla quale viene attribuita la causa di uno dei luoghi comuni sul sardo, quello che vede gli stessi parlanti lingua sarda come non in grado di capirsi fra loro. E il tutto sarebbe causato delle varianti diatopiche – le differenze dovute alla provenienza geografica. Ma è davvero così? Per Caterina Roselli, mediatrice linguistica e studiosa di gallurese, è una questione di abitudine e contatto, in una cornice sicuramente complessa.

Le lingue della Sardegna sono state classificate in macrosezioni tramite le isoglosse, linee immaginarie che separano un’area in cui è presente un determinato fenomeno linguistico dall’area in cui è differente. Le principali sono il logudorese, il campidanese, il nuorese, il sassarese, l’arborense, il tabarchino e il gallurese. Quest’ultima varietà Caterina Roselli la definisce “un innesto di lingua corsa su un tronco di lingua sarda”. Si tratta però di una suddivisione che non è né univoca né unanime, proprio perché la lingua è un continuum e non c’è uno stacco netto fra una variante e l’altra. Una complessità che non è però esclusiva del sardo e che anzi lo caratterizzava anche quando non era l’italiano la lingua comune.

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Rocce galluresi – immagine di repertorio Canva

Ma allora tra parlanti di lingua sarda oggi ci capiamo o non ci capiamo?

Parlo partendo dalla mia esperienza personale. Io sono di Calangianus e parlo gallurese, ma fin da piccola ho avuto contatti con la lingua sarda per via della posizione del mio paese: vicino c’è Luras, un paese sardofono. Per cui sono cresciuta ascoltando il logudorese di Luras e mi sembrava una lingua familiare. Nella mia zona inoltre si diceva che il logudorese fosse più vicino e quindi più comprensibile, mentre del campidanese si pensava che fosse completamente diverso. Crescendo ho capito che la distanza è meno profonda di quanto sembri. Non ho mai sentito mia nonna dire: “Non capisco il campidanese”. Oggi invece questa percezione di lontananza è più diffusa, ma per me è soprattutto una questione di abitudine e contatto.

Forse può aver influito anche la necessità di circoscrivere, “inscatolare” le diverse varietà del sardo – logudorese, campidanese o nuorese…

Capisco l’esigenza degli studiosi: per analizzare e classificare le lingue serve definire dei confini. Ma nella realtà le lingue non funzionano così: sono un continuum. Penso a esempi concreti: prendiamo il verbo pappare. In alcune zone si dice pappae, più giù pappai. È sempre la stessa parola, mangiare, che cambia leggermente da un paese all’altro. Per questo credo che la difficoltà di comprensione tra varietà sarde sia più un mito che una realtà.

Prima del Novecento, quando l’italiano non era la lingua comune, i sardi si capivano benissimo: ognuno parlava la propria varietà, ma l’intercomprensione era naturale. Oggi invece tendiamo a pensare che l’italiano sia l’unico strumento per capirci, ma l’italiano standard è una lingua artificiale, imposta per fini nazionalistici. In realtà, anche l’italiano cambia da una città all’altra eppure nessuno dice che “non ci si capisce”.

Il problema è la mancanza di familiarità con la lingua sarda

Nonna non ha mai detto di non capire il campidanese, ma la difficoltà di comprensione può riguardare più le nuove generazioni?

Sì, credo che oggi il problema sia più evidente tra i giovani. Oggi siamo abituati a pensare in termini di confini, “questa è la mia lingua, quella è un’altra”. Ma la comprensione non dipende dai confini, dipende dall’abitudine e dall’apertura mentale. Fino al 1900 circa la lingua di riferimento era il sardo; oggi invece è l’italiano. Di conseguenza quando i giovani si confrontano con un’altra varietà sarda si interfacciano con essa attraverso l’italiano, non più da dentro la lingua. E questo cambia tutto.

La distanza non è geografica, ma psicologica.

Esatto. Il problema è la mancanza di familiarità con la lingua sarda. Oggi è impensabile che il sardo venga usato come lingua veicolare in contesti diversi. Basti pensare che molti movimenti indipendentisti comunicano in italiano. D’altro canto esperienze come quella dell’Assemblea Natzionale Sarda, dove io parlo in gallurese e mi rispondono in sassarese o in algherese, mostrano che l’intercomprensione è possibile.

Non colpevolizzo però chi non parla più la propria lingua: anch’io, per motivi di classe e di emancipazione, ho dovuto imparare l’italiano. Ma oggi abbiamo la possibilità di riappropriarci del sardo, superando la vergogna interiorizzata con un percorso di avvicinamento.

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Caterina Roselli – foto di ANS

A proposito di vergogna, può contribuire ad alimentarla anche la paura di parlare e scrivere in sardo per timore di sbagliare?

Sì, c’è una forma di giudizio molto forte. Spesso chi prova a parlare viene corretto continuamente: “Non si dice così”, “quella parola è sbagliata”. Ma questo non aiuta. È una questione di ignoranza della didattica delle lingue, oggi  sappiamo che non bisogna interrompere chi parla o correggerlo ogni tre per due: serve incoraggiare, non bloccare. Diversamente, il rischio è che la persona si senta demotivata e non prosegua, ma la lingua è allenamento. 

C’è poi il dibattito sullo standard: personalmente sono favorevole. Non capisco perché molti sardi rifiutino uno standard sardo, ma accettino lo standard italiano, che non è loro. Sono contenta che oggi esista una certificazione per il gallurese: finalmente abbiamo riferimenti anche per creare materiali didattici, libri per bambini, strumenti per trasmettere la lingua.

In conclusione, quali possono essere delle buone pratiche per riappropriarsi della lingua sarda e dell’intercomprensione tra varietà?

Un primo passo per ri-familiarizzare con la lingua può essere informarsi se nel proprio Comune vengono organizzati corsi di lingua sarda e iscriversi. Serve poi mettere in discussione le idee che ci siamo abituati a ripetere: spesso derivano da una narrazione colonialista che non valorizza la nostra cultura. Bisogna smettere di parlare “sulle” lingue e cominciare a parlarle. Prima di classificarle, bisogna sentirle proprie. Io dico sempre: “Parlare gallurese per aprirsi al mondo”.

Lo stesso vale per tutte le lingue della Sardegna: se ci avviciniamo con curiosità , ci capiamo. Il problema non è linguistico, ma relazionale. Bisogna tenere a mente che la lingua sarda – e non solo – è tanto un mezzo di comunicazione quanto un luogo di valori, di memoria e di identità, per cui in essa ci sono la nostra letteratura, la nostra musica, i paesaggi che abitiamo ogni giorno. Recuperare la lingua significa anche recuperare un rapporto con i nostri territori, con la nostra storia e con noi stessi.

Qui trovi l’approfondimento in merito alla normativa sulla lingua sarda