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25 Settembre 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Il Brasile annuncia un fondo globale per salvare le foreste. È una buona idea? – 25/9/2025

Il Brasile lancia un fondo globale per proteggere le foreste tropicali, nuovo massacro in Sudan e attacchi contro la Global Sumud Flotilla.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
brasile fondo mondiale foreste tropicali

Questo episodio é disponibile anche su Youtube

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Trascrizione episodio

Ieri è arrivata una notizia molto interessante, che riguarda la conservazione delle foreste tropicali globali. Parlando all’Assemblea Generale delle Nazioni unite infatti Lula, presidnete brasiliano, ha annunciato che il suo paese sarà il primo a finanziare la creazione del fondo Tropical Forests Forever Facility (TFFF), con un impegno iniziale da 1 miliardo di dollari. 

Allora ho cercato di capire come funzionerebbe questo fondo in cosa è una roba nuova e se è interessante. Provo a spiegarvelo: l’idea è di base è di raccogliere fondi pubblici e privati, un sacco di fondi, Lula ha parlato di 125 miliardi di dollari, di cui 100 da investitori privati e 25 dagli stati, 125 miliardi di dollari sono tipo il pil di un paese non tropo ricco, tipo la Cambogia.  

Comunque, l’idea è che il fondo prenda questi 125 miliardi di dollari, ma non li usi direttamente per finanziare la protezione delle foreste nei vari paesi del mondo, perché sennò poi finiscono e siamo punto e a capo. Ma piuttosto che li investa nei mercati finanziari, per poi utilizzare solo i rendimenti così generati, che su 125 miliardi potrebbero essere robe non da poco, per pagare i paesi che mantengono in piedi le loro foreste tropicali intatte.

Quindi l’idea è che da un lato i paesi dalle economie più ricche siano disposti a investire in questo fondo, non rinunciando al capitale di partenza che resta loro, anche se investito nel fondo, ma rinunciano ai profitti che quel capitale può generare. 

Dall’altro lato invece ci sono i paesi che chiedono finanziamenti per la conservazione delle foreste. Qui le condizioni per partecipare non sono facili: i paesi che vorranno ricevere fondi dovranno dimostrare che stanno innanzitutto controllando la deforestazione (quindi tenersi sotto una soglia, tipo lo 0,5 % annuo), avere sistemi affidabili di monitoraggio delle foreste, e riservare una quota del denaro anche alle comunità indigene e locali.

Insomma, l’idea di fondo è fare in modo che proteggere le foreste diventi vantaggioso per i paesi più ricchi di biodiversità, che spesso sono anche le economie più povere e quindi vendono quello che hanno, ovvero la biodiversità, le foreste, e così via.

Ora, è una roba interessante oppure no? Vediamo pro e contro. I pro sono che sicuramente è una soluzione molto pratica, a costo quasi zero per chi investe e anche abbastanza fattibile, perché sfrutta i meccanismi del sistema attuale per proteggere la biodiversità.

Al tempo stesso, il fatto di usare il sistema attuale è anche un grosso limite: perché sappiamo che è un sistema, quello basato sul capitalismo finanziarizzato, che non è in grado di risolvere la crisi ecologica. Quindi ecco, le soluzioni che poggiano con entrambe le gambe dentro al sistema, come questa, magari funzionano bene per un po’, ma non sono soluzioni trasformative.

Il che va anche bene, basta saperlo. Probabilmente è meglio di niente, e permetterà ad alcuni paesi di tutelare il loro patrimonio naturale per un po’. Ma cosa succederà quando la crisi ecologica porterà a nuovi scossoni nei mercati finanziari? O cosa succede a quei paesi che non saranno in grado di matchare con gli standard richiesti per accedere ai finanziamenti, come avviene per molti paesi tropicali?

Di nuovo, basta che ce lo diciamo, che non ci aspettiamo che un meccanismo del genere risolva di colpo tutti i problemi, che mentre questa cosa entra in vigore lavoriamo già per applicare strumenti più trasformativi.

Quattro giorni fa, in Sudan, nella martoriata regione del Darfur, almeno 75 persone sono state uccise in un attacco con un drone compiuto dalle Rapid Support Forces, un gruppo paramilitare che da più di un anno è in guerra con l’esercito regolare del paese.

L’attacco è avvenuto ad Al Fashir, che è l’ultima grande città del Darfur ancora controllata dall’esercito, ed è sotto assedio da maggio. Il drone ha colpito una moschea nel quartiere di al Daraja, dove si erano rifugiate tante persone in fuga da un campo profughi vicino, anch’esso attaccato nei giorni precedenti.

Questa è solo l’ultima delle tante stragi che avvengono ormai quotidianamente nel paese che è teatro della più grande e più dimenticata crisi umanitaria al mondo, il Sudan appunto. In Sudan infatti è in corso una guerra civile violentissima, iniziata nell’aprile del 2023, che ha già fatto almeno 150mila morti e 13 milioni di sfollati – 13 milioni, oltre un quarto della popolazione totale del paese. Una guerra che sta causando una delle peggiori crisi umanitarie al mondo in questo momento.

E di cui sappiamo pochissimo. Come scrive Valentina Giulia Milani su Rivista Africa, parliamo di “Un Paese lacerato dalla guerra e un conflitto che continua a sprofondare nel silenzio internazionale.” 

L’articolo riporta quindi un nuovo rapporto diffuso di recente dall’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani secondo cui, solo tra il 1° gennaio e il 30 giugno di quest’anno, quindi sono stati registrati almeno 3.384 morti fra i civili, pari a quasi l’80% dell’intero bilancio del 2024. E la cifra reale potrebbe essere “significativamente più alta”, si legge sempre nel rapporto, con la maggior parte delle vittime localizzate in Darfur, Kordofan e nella capitale Khartoum.

Il rapporto rileva che il 70% delle perdite civili è stato provocato da attacchi in aree densamente popolate, condotti con artiglieria pesante e raid aerei. Tra gli episodi più gravi, l’offensiva delle Forze di supporto rapido (Rsf) su Al Fasher in aprile, che ha causato centinaia di vittime, e i bombardamenti delle Forze armate sudanesi (Saf) contro un mercato del Darfur settentrionale a marzo, con almeno 350 morti.

Oltre alle stragi dirette sul campo di battaglia, l’Onu documenta 990 esecuzioni sommarie, con vittime anche tra minori di 14 anni. Il rapporto denuncia inoltre l’uso ricorrente della violenza sessuale come arma di guerra. E il fatto sempre nei primi sei mesi dell’anno ci sono stati anche diversi attacchi a strutture sanitarie e convogli di aiuti, con almeno 30 operatori umanitari uccisi.

Tutto ciò ha generato la più grave crisi umanitaria al mondo, con 24,6 milioni di persone in grave insicurezza alimentare.

E dietro a tutto ciò, ma più nell’ombra rispetto ai conflitti che conosciamo meglio come quello in Ucraina o a Gaza, si muovono interessi specifici e tentativi di muovere pedine sullo scacchiere geopolitico. 

Nel nostro immaginario stereotipato e probabilmente un po’ inconsciamente razzista le guerre africane sono guerre fra gruppi etnici rivali, con guerriglieri armati al massimo degli Ak-47. In realtà, se avete ascoltato bene la prima notizia, parliamo di un gruppo paramilitare che ha colpito una moschea con un drone da guerra. E non un piccolo drone fai da te, come quelli ad esempio usati qualche settimana fa in un attacco Ucraino su una base russa, ma di droni di fabbricazione industriale, probabilmente cinese.

Alcune fonti suggeriscono che dietro alle RSF ci siano gli Emirati Arabi Uniti che sono uno dei principali lavoratori d’oro al mondo e che mirano al controllo delle miniere e a occupare delle posizioni strategiche nel Corno d’Africa rispetto ai rivali del Qatar e della Turchia. Altre fonti parlano di Etiopia ed Eritrea, altre ancora del gruppo Wagner. Probabilmente ognuno di questi attori gioca un ruolo, dal peso variabile, sulla questione. 

Detto ciò – anche se so che quello che sto per dire contraddice in parte quanto detto fin qui – credo che anche la narrativa del Paese africano sempre e perennemente assoggettato ai voleri di potenze straniere sia una narrativa un po’ occidentalocentrica, che comunque ci mette al centro del discorso e che non tiene conto di decine di altre variabili culturali, sociali ed economiche locali che non conosciamo e che quindi, in virtù del bias della disponibilità, tendiamo a non considerare come rilevanti.

Insomma, al solito è tutto molto complesso. Ne riparleremo meglio.

Ieri notte dei droni presumibilmente israeliani hanno colpito alcune imbarcazioni, due in particolare, della Global Sumud Flotilla, mentre navigavano in acque internazionali a largo di Cipro, dirette verso Gaza. 

La Global Sumud Flotilla, come forse saprete, è questa flotta di 51 imbarcazioni che sono partite dalla Spagna, dall’Italia, dalla Grecia e dalla Tunisia e stanno navigando verso Gaza cariche di cibo per rompere il blocco navale imposto da Israele alla Striscia.

Le segnalazioni da parte dell’equipaggio della Flotilla parlano di droni, bombe sonore, spray urticanti e oggetti non identificati lanciati contro le navi. Non si registrano feriti, ma alcuni danni strutturali, in particolare alle imbarcazioni Zefiro e Morgana. Secondo altre fonti sarebbero in totale 15 le imbarcazioni danneggiate.

la Repubblica ha contattato Benedetta Scuderi, europarlamentare di Avs che è a bordo della Morgana, una delle due navi colpite, che ha detto: “La Morgana, la barca su cui stiamo, batte bandiera italiana ed è stata colpita da tre attacchi stanotte. A bordo ci sono cittadini italiani e parlamentari della Repubblica, i gentili inviti di Tajani alla moderazione non bastano. Bisogna fermare il genocidio e usare tutti i mezzi per garantire che questa missione arrivi a Gaza”. 

Il fatto è che, come stanno facendo notare in molti in rete, e ringrazio un nostro abbonato, Marco, per la segnalazione, una nave che batte bandiera italiana ricade sotto la giurisdizione italiana e in un certo senso è come se fosse suolo italiano. Quindi, con le dovute differenze, ma è un po’ come se questi droni, di presunta origine israeliana, avessero attaccato il nostro Paese. Uso qualche condizionale perché non è esattamente così, la faccenda è leggermente più complicata dal punto di vista giuridico, ma non è nemmeno troppo distante.

Tant’è che, come ripresosi improvvisamente dal torpore, il Ministro della Difesa Guido Crosetto ha inviato una fregata, quindi una nave da guerra, a protezione delle imbarcazioni italiane della flotilla, dove appunto ci sono anche parlamentari, giornalisti, ecc (non che faccia differenza, ma forse per il governo italiano un po’ la fa). 

Ora c’è da capire cosa farà la fregata italiana. Sembra improbabile che scorterà le imbarcazioni fino a Gaza, perché questo aprirebbe una crisi diplomatica con Israele che di certo il nostro governo non vuole. Forse è solo un elemento di deterrenza, per mandare un segnale a Israele, o forse è lì per facilitare il soccorso nel caso le cose si mettano male, o per scortare le imbarcazioni verso un porto sicuro. Non lo sappiamo ovviamente, sono solo ipotesi.

Intanto l’Usb (Unione dei sindacati di base) prepara una nuova agitazione su Gaza per questi giorni. Leggo su Repubblica: “Proclameremo un nuovo sciopero generale e questa volta lo faremo senza preavviso. La parola d’ordine ‘blocchiamo tutto’ tornerà in tutto il Paese” spiega un rappresentante del sindacato di base, annunciando anche l’agitazione permanente, nel corso della conferenza Stampa a Montecitorio, indetta dal Global Movement to Gaza Italia. “A Roma piazza dei cinquecento sarà presidio permanente per Gaza. E sarà così in tutta Italia. Organizzeremo 100 piazze per Gaza”. 

Sulle nostre news avrete aggiornamenti su questo, ovviamente.

Prima di chiudere, ma restando in tema mobilitazioni per Gaza, vorrei tornare sulle manifestazioni invece di lunedì, quelle di cui abbiamo già parlato, per raccontarvi una storia, anzi per farvela raccontare. Da Gianluca Esposito, che è un attivista di Extinction Rebellion e che testimonia un fatto raro e abbastanza magico, un esempio di resistenza nonviolenta in azione avvenuto nella manifestazione di Marghera, a Venezia. È un audio che stava girando, insomma che non era diretto a me personalmente ma che ho avuto l’autorizzazione a pubblicare.

Contributo disponibile all’interno del podcast

Comunque ne riparliamo di questa storia, perché secondo me merita un approfondimento dedicato. Seguite ICC perché nei prossimi giorni uscirà qualcosa di più approfondito.

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