Cessate il fuoco a Gaza: tutti i dettagli, il ruolo di Trump, il nostro “dovere” – 10/10/2025
Cessate il fuoco a Gaza: approvato l’accordo tra Israele e Hamas, mentre Israele attacca un’altra Flotilla in acque internazionali. In Italia, il governo decide di mantenere operative le centrali a carbone per “sicurezza nazionale”.
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Fonti
#CessateIlFuocoGaza
Il Post – Hamas e Israele hanno approvato l’accordo per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza
Il Post – L’accordo a Gaza è una grande vittoria per Donald Trump
#FreedomFlotilla
il manifesto – Bloccata da Israele anche la Freedom Flotilla: 145 i fermati
#Carbone
Energia Oltre – Teniamo le centrali a carbone: la mossa a sorpresa di Pichetto per la sicurezza nazionale
Trascrizione episodio
Dopo che l’accordo per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza era stato approvato dai negoziatori di Israele e Hamas, ieri sera tardi è arrivata anche l’approvazione formale da parte del governo di Israele e questa notte da parte di Hamas.
L’accordo lo abbiamo più o meno descritto ieri mattina, ma riprendiamolo in mano a mente più fredda e vediamone i punti principali. Il piano di partenza è quello negoziato inizialmente da Trump e Netanyahu a fine settembre e poi modificato negli ultimi giorni di trattative.
Secondo il piano, il cessate il fuoco dovrebbe iniziare a 24 ore dalla ratifica dell’accordo da parte delle due fazioni, quindi oggi pomeriggio, e portare verso una pace duratura attraverso varie fasi. Questa prima fase, l’unica su cui si è raggiunto un accordo, prevede come prima cosa la liberazione degli ostaggi ancora vivi e dei corpi di quelli che sono stati uccisi, entro 72 ore da parte di Hamas, e la liberazione di prigionieri da parte di Israele.
Subito dopo, o forse contestualmente, questo non è chiaro, dovrebbe scattare il via libera all’ingresso di aiuti umanitari, mentre Israele dovrebbe via via ritirare i propri soldati da un’ampia zona nel centro della Striscia, rimanendo però nel suo territorio. Secondo la portavoce di Netanyahu nella prima fase l’esercito continuerà comunque a controllare circa il 53 per cento della Striscia, mentre nelle fasi successive, stando al piano, dovrebbe ritirarsi ulteriormente, fino a mantenere una “zona cuscinetto” lungo il confine della Striscia.
Ovvio che ci sono ancora parecchi punti delicati. Anche a gennaio, forse lo ricorderete, Trump aveva negoziato un primo cessate il fuoco, ma era naufragato a marzo, a causa delle ripetute violazioni da parte di Israele. E poi ci sono le fasi successive, che dovrebbero definire il futuro politico della Striscia e portare alla smilitarizzazione di Hamas, che sono ancora più delicate e potrebbero facilmente arenarsi.
Ma se questo accordo durerà, allora sarà ovviamente la fine di un incubo per Gaza, e anche una gigantesca vittoria di Donald Trump. C’è un articolo molto interessante del Post che spiega bene tutto il processo che ha portato a questo accordo, che è un processo mediato da vari paesi, fra cui Qatar, Stati Uniti, Turchia ed Egitto, me comunque guidato con le maniere forti da Donald Trump, che ha letteralmente piegato Netanyahu, leader molto abile a manipolare in passato parecchi presidenti Usa, e che anche questa volta ha provato fino all’ultimo a scansare l’accordo ma alla fine ha dovuto cedere (che poi, cedere, è un accordo in realtà molto favorevole a Israele, però il governo israeliano sembrava davvero intenzionato ad arrivare fino in fondo stavolta).
Trump dal canto suo spera sotto sotto – ma nemmeno troppo sotto – di poter arrivare a vincere il Nobel per la Pace, che sarà consegnato fra qualche giorno, che probabilmente è già stato deciso prima dell’accordo e quindi è molto difficile che vada effettivamente a Trump. Ma non impossibile.
Il che, lo so che sembra un’eresia, ma non sarebbe nemmeno una cosa così assurda, in questo istante, e con questo risultato raggiunto. Come ha scritto il New York Times, un giornale non certo favorevole a Trump, «se l’accordo di pace va avanti, Trump potrebbe avere degli argomenti per il Nobel non meno validi di quelli dei quattro presidenti americani che l’hanno ricevuto nel passato».
Comunque, tornando all’accordo, al momento ci sono dei pezzi fondamentali che mancano. Ieri stavo intervistando Raffaele Crocco, giornalista, ex reporter di guerra, è stato cofondatore di Peacereporter assieme a Gino Strada, ed è l’ideatore e Direttore del Progetto Atlante delle guerre e dei conflitti del Mondo, che è una pubblicazione annuale, ma anche un sito quotidiano e tante altre cose, che ci aggiornano sull’andamento dei conflitti nel mondo.
L’ho intervistato per la nuova puntata di INMR+ che esce domani (sabato 11), ma voglio farvi ascoltare una piccola anticipazione perché a un certo punto abbiamo sfiorato anche l’argomento di questo accordo per un cessate il fuoco.
Contributo disponibile all’interno del podcast
Riconciliazione: è una parola che ancora ci sembra quasi scottare, perché sono ancora troppo fresche le immagini del campo di sterminio a cielo aperto in cui è stato trasformato Gaza dal 7 ottobre 2023 in poi. 67mila vittime dirette fra i palestinesi, che sfiorano le 200mila se consideriamo anche le persone morte per fame, distruzione degli ospedali, mancanza di servizi essenziali.
Ma è una parola che dobbiamo iniziare a masticare. Ad immaginare. Che c’entriamo noi, verrebbe da pensare. Penso che qualcosa possiamo averci a che fare. Qualche giorno fa ho letto su Facebook una cosa che mi ha fatto riflettere. Era il post di una persona che conosco e che stimo molto, israeliana, che a un certo punto diceva:
“Non so come spiegare che sono tanto speranzoso che questo governo cada (quello di Netanyahu), che la guerra finisca, che i palestinesi abbiano i loro diritti – e, allo stesso tempo, che c’è una voce in me che ha paura quando vedo la rabbia in gente che marcia con bandiere palestinesi e scritte anti Israele per strada.
Non è antisemitismo, lo so, eppure sembra minaccioso e scivoloso come cent’anni fa.
Ho amici palestinesi, e posso capire bene se un palestinese non si sentisse al sicuro a parlare con me o con un altro israeliano, capisco che si senta infuriato.
Sono più confuso con i privilegiati europei di origine occidentale, le loro parole e le loro passioni che bruciano come spade infuocate.
Ho timore che la bestia che Netanyahu e i ministri della guerra sono riusciti a scatenare consumi tutto: me stesso, la ragione e quel filo di saggezza che crede ancora che potrei trovare il modo di esaudire i miei sogni di pace in mezzo alla corruzione violenta e pulizia etnica che ci circonda.
A volte mi sembra che possa essere troppo tardi per trovare la via del ritorno. E dall’altra parte, c’è ancora tanta distruzione, troppa. Tuttavia, non voglio disperare”.
Il post continua, ma credo di avervi letto il cuore pulsante. In cui ho riconosciuto una verità profonda. Fra l’altro questa cosa mi ha riportato alla mente alcune riflessioni che mi ha condiviso giorni fa il collega Daniel Tarozzi. E mi è arrivata, forte una convinzione.
Io capisco quel fuore sacro che ha spinto centinaia di migliaia di persone a scendere in piazza, quel senso di ribellione contro un’ingiustizia, di necessità di fare qualcosa per fermare un genocidio che si sta compiendo davanti ai nostri occhi. E penso che sia una risorsa preziosa. Ma come ci ricorda il post che vi ho letto, noi non siamo sotto le bombe, non stiamo rischiando la nostra vita.
E quindi penso che abbiamo il dovere morale, verso il genere umano, di bagnare quel fuoco sacro nell’acqua della ragione. Per non far sì che la fine di una guerra crei le condizioni per una nuova guerra. Per spegnere la macchina dell’odio che continua a generare altro odio. L’odio di un palestinese verso un israeliano, oggi, è forse inevitabile. Il nostro no, e evitabilissimo. Quindi manifestiamo per Gaza, per la Palestina, in milioni, ma manifestiamo anche in supporto di un’Israele diversa, a supporto di quegli israeliani che cercano la pace, che sono una minoranza, ma che magari, se la nutriamo, se facciamo sentire il nostro supporto, un giorno diventerà maggioranza. Vabbé fine del pippone.
In tutto ciò c’è una seconda flotilla, che è stata intercettata da Israele, di cui si è parlato molto meno e del cui equipaggio no nsi sa niene. Nella notte, a circa 120 miglia da Gaza, anche la Freedom Flotilla è stata attaccata dalla marina israeliana. Tutte e nove le imbarcazioni della missione umanitaria sono state intercettate in acque internazionali, ben fuori dalla giurisdizione israeliana. I militari, armi in pugno, sono saliti a bordo, hanno distrutto le telecamere e bloccato l’equipaggio. Alcuni video sono stati salvati dagli attivisti prima che gettassero in mare telefoni e computer per proteggere i dati.
A bordo c’erano 145 persone, fra cui medici, giornalisti, parlamentari europei — tra cui l’eurodeputata verde Melissa Camara — e una decina di italiani. L’organizzazione Adalah ha denunciato l’operazione come una grave violazione del diritto internazionale e sta preparando ricorso. L’obiettivo della Flotilla era rompere simbolicamente l’assedio su Gaza, portando aiuti umanitari. Anche in questo caso, la reazione israeliana è stata brutale e immediata.
Due giorni fa il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin ha annunciato una mossa direi a sorpresa: l’Italia, ha detto, non smantellerà le sue centrali a carbone. Il che non vuol dire che continueremo a produrre energia col carbone, nel senso che la produzione – almeno a detta del Ministro – verrà sospesa, ma ma gli impianti resteranno in piedi per non meglio precisati “motivi di sicurezza nazionale”. Una decisione che verrà formalmente comunicata all’Unione Europea, e che sarà seguita da valutazioni economiche e giuridiche.
Ora, cosa c’è dietro questa scelta? Che vuol dire? Perché si è passati dallo smantellamento a questa nuova fase in cui gli impianti vengono comunque mantenuti? Non ho trovato grandi analisi in giro, per cui proviamo a fare qualche rapida ipotesi. Ipotesi 1: si tratta di una misura precauzionale perché si teme che succedano casini internazionali, guerre o quant’altro e quindi si tema che possano essere tagliati i rifornimento di gas, ad esemio, e quindi si tiene il carbone come fonte di backup in caso di crisi energetiche improvvise.
Ipotesi 2: potrebbe essere banalmente un modo per rallentare la transizione energetica mantenendo attiva l’infrastruttura fossile come leva negoziale o scudo politico. Cioé, se le smantelli, poi anche volendo non le hai più e sei obbligato ad accelerarew sulle rinnovabili. Se le tieni, hai sempre un piano b, e magari una scusa per usarle poi la trovi.
In entrambi i casi, è una decisione che getta qualche ombra sugli impegni climatici italiani. Perché comunque tenere impianti pronti a riaccendersi, anche se “fermi”, significa non chiudere del tutto con il carbone.
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