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18 Novembre 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Cile al bivio: cosa succede dopo Boric? – 18/11/2025

Elezioni in Cile, condanna a morte dell’ex premier Sheikh Hasina in Bangladesh, Equal Pay Day e divario salariale di genere in Italia.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Questo episodio é disponibile anche su Youtube

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Trascrizione episodio

Ieri lo abbiamo accennato, ma con lo spoglio ancora in corso. Oggi abbiamo i risultati definitivi delle votazioni in Cile. Si votava, ricordo, sia per eleggere il/la Presidente che per rinnovare il parlamento. 

Il Cile arriva da anni molto turbolenti, e credo che osservare quello che avviene lì sia molto interessante, perché negli ultimi 50 anni il Cile è spesso stato un laboratorio di cose che poi abbiamo visto altrove:

  • è uno dei primi Paesi al mondo in cui si è sperimentato il modello ultra-liberista degli anni ’70-’80 (i famosi “Chicago Boys” sotto Pinochet) e anche l’abbinata neoliberismo-dittatura, poi esportato in molti altri luoghi
  • ha sperimentato in anticipo un modello estremo di privatizzazioni di massa di tutti i comparti, cosa che ha creato una disparità sociale e di reddito gigantesca.
  • è diventato poi l’esempio dei limiti di quel modello quando le disuguaglianze esplodono e scoppia la protesta nel 2019.
  • E Gabriel Boric, il Presidente uscente, è uno dei primi leader della “nuova generazione” di sinistra latinoamericana (post-Chávez/Lula/Kirchner), più giovane, femminista, ambientalista, molto legato ai movimenti sociali.
  • Infine c’è stato il tentativo di scrivere una Costituzione super-progressista tramite un’assemblea costituente non politica, ma la sua bocciatura di questa costituzione tramite referendum, un po’ un test anche qui per capire fin dove si può spingere il cambiamento istituzionale guidato dal basso. 

Boric ha navigato questa complessità con luci e ombre. È stato eletto nel 2022 con un programma molto riformista di sinistra (più stato sociale, riforma fiscale, pensioni, agenda femminista ed ecologista). Poi però ha dovuto moderarsi parecchio, anche perché non ha mai avuto una maggioranza stabile in parlamento. E ha governato un paese più stanco e polarizzato, rispetto a quello delle proteste di cui lui stesso era stato fra i leader, riuscendo a portare avanti qualche riforma simbolica ma nessun cambio di sistema.

Adesso, la situazione politica sembra molto diversa. Al primo turno delle presidenziali è arrivata prima Jeannette Jara, candidata sostenuta dal governo e dal Partito Comunista, col 27% dei voti. Secondo è arrivato Antonio Kast, candidato di estrema destra che si è fermato al 23,9%.

Ma al ballottaggio Kast è favorito perché ha già ottenuto l’appoggio di tutto il fronte conservatore, che si è presentato diviso in 3 partiti, uno di centrodestra, uno liberale, uno di destra radicale, con l’accordo che poi si sarebbero coalizzati al ballottaggio. Ha vinto la destra radicale di Kast, che – racconta il Post – è un personaggio diciamo particolare: ultraliberista, nostalgico della dittatura di Pinochet, grande fan del presidente di El Salvador Nayib Bukele, quello che aveva dato corso legale ai bitcoin, e di Donald Trump, con un approccio muscolare alla sicurezza. 

Jara invece, per quanto venga dal Partito Comunista, ha una proposta politica piuttosto moderata. E anzi, ha già annunciato che lascerà il partito per tentare di allargare il suo consenso in vista del secondo turno. Ma potrebbe scontare il fatto che era già al primo turno l’unica figura di rilievo della sinistra, e ora convincere nuovi elettori non sarà semplice. 

Anche perché bisogna considerare che il voto era obbligatorio, per via di una legge del 2022 che ha reintrodotto appunto l’obbligatorietà del voto (pena sanzioni economiche). Per cui ha votato l’85% degli aventi diritto, ed è plausibile che non ci sarà una grande differenza di affluenza al ballottaggio. Anche il Parlamento è spostato nettamente a destra: Cambio por Chile, la coalizione pro-Kast, ha guadagnato seggi, e se sommiamo anche la destra tradizionale, oggi hanno la maggioranza sia alla Camera che al Senato.

Insomma, il Cile potrebbe andarsi ad allineare con la linea politica della destra estrema ed ultraliberale sudamericana, quindi con Milei, Bukele, nella faglia politica che divide il Sud America.

Ieri il Tribunale dei crimini internazionali del Bangladesh ha condannato a morte Sheikh Hasina, ex prima ministra del Paese, per crimini contro l’umanità. La sentenza riguarda la repressione violentissima delle proteste antigovernative scoppiate nell’estate del 2024, durante le quali — secondo varie stime — la polizia avrebbe ucciso più di 600 manifestanti e arrestato almeno 11mila persone. Si è trattato della repressione più sanguinosa dai tempi dell’indipendenza dal Pakistan, cioè dal 1971.

Hasina oggi ha 78 anni, ed è stata la prima ministra più longeva della storia del suo Paese, che ha governato dal 2009 al 2024, e in precedenza dal 1996 al 2001. È anche la figlia del fondatore del Bangladesh moderno, Sheikh Mujibur Rahman. E la sua figura è diventata sempre più controversa e polarizzante nel corso degli anni: inizialmente era considerata una leader progressista e anti-militarista, con politiche sociali a favore delle donne e delle classi più povere, nel tempo il suo governo è diventato sempre più autoritario. 

Le proteste erano iniziate come manifestazioni studentesche, contro il sistema delle “quote” per l’assegnazione dei posti pubblici, considerato discriminatorio. In pratica una grossa fetta dei posti nel pubblico impiego – considerate che lavorare nel pubblico in Bangladesh è veramente un provilegio – era riservata a categorie specifiche (familiari dei combattenti della guerra d’indipendenza, donne, persone di alcune aree, ecc.) e molti studenti lo vedevano come un sistema poco meritocratico e “di casta”, che perpetuava privilegi storici invece di premiare chi studiava di più e prendeva i punteggi migliori. 

Da lì la rabbia, le proteste, ma anche la repressione durissima. E più la represione è dura più le proteste si allargano, arrivando anche a settori più ampi della società, e si trasformano in qualcosa di molto più grande: una rivolta generalizzata contro il governo.

Per contrastarle, Hasina impose il coprifuoco, fece chiudere scuole e università, bloccò Internet e la telefonia mobile. Ma non servì a fermare la rabbia. Per giorni Dacca e altre città furono teatro di scontri, incendi e attacchi a edifici governativi. Alla fine, il 5 agosto, dopo l’assalto alla sua residenza ufficiale, Hasina si dimise e fuggì in India. Il presidente sciolse il Parlamento e incaricò Muhammad Yunus — Premio Nobel per la Pace nel 2006 per il microcredito — di guidare un governo di transizione.

Nel frattempo però i tribunali del Paese sono andati avanti. In Bangladesh la pena prevista per questo tipo di crimini è la pena di morte, e questa è stata la sentenza emessa. Ma è possibile fare ricorso alla Corte Suprema. Comunque Hasina al momento si trova in India, dove era fuggita già nell’agosto del 2024, e quindi per ora la condanna non è eseguibile, anche perché il governo indiano non ha approvato la richiesta di estradizione fatta dal Bangladesh.

Oltre a lei, sono stati condannati anche l’ex ministro dell’Interno e il capo della polizia. Solo quest’ultimo era presente in aula, ma anche per lui è arrivata la condanna, accusato di aver autorizzato e coordinato l’uso della forza contro i manifestanti.

Domenica è stato l’equal pay day, che come l’ha definito il nostro caporedattore Francesco Bevilacqua nella chat Telegram di redazione è una sorta di overshoot day ma per il gap salariale di genere. Provo a spiegarvelo meglio, comunque trovate una nostra news fra le fonti che lo spiega bene.

Secondo il Rendiconto di genere 2024, che è un report pubblicato annualmente dall’INPS, in Italia le donne guadagnano in media il 20% in meno degli uomini. Cioè, a parità di ruolo: se un uomo prende 2400 euro, una donna ne prende 2000. Senza altre motivazioni apparenti, né legate all’orario di lavoro, né alla qualità del lavoro, se non appunto il fatto di essere donna. È un divario più alto della media europea, che invece si aggira intorno al 12%. 

Per rendere visibile questa discriminazione si è iniziato a “celebrare”, si fa per dire, l’Equal Pay Day, che quest’anno è caduto il 15 novembre. In pratica da quella data in poi è come se, simbolicamente, le donne lavorassero gratis fino al 31 dicembre, perché il loro stipendio annuo è più basso di quello degli uomini. Se il gap aumenta, l’Equal Pay Day si sposta ancora più indietro nel calendario. E ci sono settori dove il divario è davvero enorme: ad esempio nel comparto immobiliare e in quello scientifico gli uomini guadagnano rispettivamente il 39,9% e il 35,1% in più delle colleghe.

La cosa particolare, come sottolinea anche il Sole24Ore, è che il divario è particolarmente alto nel mondo accademico e fra le persone laureate. E più passa il tempo, più la forbice si allarga. Nel senso che – dice il report – le retribuzioni aumentano con l’età molto di più per gli uomini che per le donne: rispetto alla fascia under 29, gli over 50 uomini guadagnano il 65,5% in più, mentre tra le donne la differenza si ferma al 38,6%. 

Perché succede tutto questo? Il sito the Wom, che si occupa di tematiche di genere, ricorda che le cause sono tante e intrecciate. C’è la maggiore presenza femminile nel part-time, spesso non come libera scelta ma come unica possibilità per tenere insieme lavoro professionale e lavoro di cura, a casa, ancora piu diffuso fra le donne. C’è la segregazione professionale, cioè il fatto che molte donne restano escluse dai ruoli tecnico-scientifici e dalle posizioni dirigenziali, che sono quelle pagate meglio. E poi ci sono gli ostacoli culturali e strutturali che rallentano le carriere femminili, i famosi “soffitti di cristallo”, e che limitano la partecipazione piena e paritaria al mercato del lavoro.

Va detto che comunque L’occupazione femminile in Italia sta salendo, ma piano e da livelli bassi, mentre il divario salariale si riduce solo lentamente e resta forte, soprattutto dopo i 30–40 anni e nei lavori più qualificati.

Al volo vi segnalo tre notizie importanti. La prima è che il Nord Italia è di nuovo sotto pressione per il maltempo: tra Liguria, Friuli Venezia Giulia ed Emilia si stanno registrando nubifragi molto intensi, allagamenti e frane. In FVG, nella zona tra Palmanova e la provincia di Gorizia, a Cormons sono caduti oltre 150 mm di pioggia in sei ore, con il fiume Judrio che è esondato e ha allagato strade e scantinati, compresi quelli dell’ospedale di Palmanova.

Poi, in Ecuador gli elettori hanno bocciato nettamente il referendum che avrebbe permesso il ritorno di basi militari straniere (in pratica statunitensi) nel Paese e l’avvio di una nuova Assemblea costituente. Circa il 60–65% dei votanti ha detto no a queste proposte, che erano un pilastro dell’agenda del presidente Daniel Noboa, conservatore e molto allineato con Trump.

Noboa sosteneva che la presenza militare straniera fosse necessaria per combattere i cartelli della droga, ma molti hanno letto il pacchetto come un rischio per la sovranità e un tentativo di concentrare più potere nelle mani del presidente. Il voto è visto come una forte sconfitta politica per il governo, in un paese già provato da violenza, crisi economica e proteste sociali.

Nella Repubblica Democratica del Congo, nel sud del Paese, è crollato un ponte interno a una miniera di cobalto/rame nella provincia di Lualaba, nel sito di Kalando. Le stime parlano di almeno 30–40 minatori morti e decine di feriti, dopo che una struttura sopra una trincea allagata ha ceduto improvvisamente mentre era piena di lavoratori.

L’incidente riaccende i riflettori sulle condizioni di sicurezza del settore minerario congolese, che è centrale per l’estrazione di cobalto e rame usati nelle batterie e nelle tecnologie “verdi” di mezzo mondo. Dietro la transizione energetica ci sono spesso luoghi come questo, con lavoratori in condizioni precarie e controlli molto deboli.

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