Il clima va difeso per legge: la storica sentenza della Corte dell’Aia – 25/7/2025
Una decisione storica sul clima del tribunale dell’Aia, i motivi dietro a un Earth Overshoot Day così precoce, le lobby della plastica che boicottano i trattati globali e le trattative di Israele in Sardegna.
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Fonti
#clima
The Guardian – Nations who fail to curb fossil fuels could be ordered to pay reparations, top UN court rules
#plastica
The Guardian – ‘Total infiltration’: How plastics industry swamped vital global treaty talks
Italia che Cambia – Le microplastiche sono ovunque. Cosa possiamo fare per fermarle? – Soluscions #7
#overshoot day
Social Justice Ireland – Earth Overshoot Day 2025: Humanity Exhausts Nature’s Annual Resources by July 24
Trascrizione episodio
“Tutti gli Stati del mondo devono affrontare il problema dei combustibili fossili: lo ha stabilito la più alta corte mondiale. Non riuscire a prevenire i danni al clima potrebbe comportare l’obbligo di pagare risarcimenti.
In un parere consultivo storico pubblicato mercoledì, la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) ha dichiarato che i paesi hanno l’obbligo di prevenire i danni al sistema climatico e che il mancato rispetto di tale obbligo potrebbe comportare l’obbligo di versare compensazioni o attuare altre forme di riparazione”.
Siamo sul Guardian, articolo di Isabella Kaminski e quella che sui nostri giornali è passata piuttosto inosservata è in realtà una di quelle decisioni che possono cambiare la storia. La Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia è il massimo tribunale dell’ONU, e mercoledì ha pubblicato questo parere consultivo di 133 pagine che stabilisce un principio fondamentale: gli stati hanno l’obbligo giuridico di proteggere il clima, e se non lo fanno, possono essere costretti a risarcire i danni.
Il documento non lascia spazio a molte interpretazioni: produrre, consumare o sovvenzionare i combustibili fossili o non agire per ridurne l’impatto può costituire una violazione del diritto internazionale, e dunque comportare responsabilità dirette, anche sotto forma di compensazioni economiche o ripristino ambientale.
Ora, basta che pensiate un attimo a quanti danni e catastrofi sono riconducibili al cambiamento climatico e capirete che si spalancano le porte per cause miliardarie, per proteggersi dalle quali gli Stati, almeno in teoria, dovrebbero accelerare sulla decarbonizzazione.
Nel rendere pubblica la sentenza il presidente della Corte, Yūji Iwasawa, ha parlato di un’“urgenza esistenziale”, sottolineando gli effetti profondi e diffusi della crisi climatica sulla salute umana, gli ecosistemi, e i diritti fondamentali — dalla vita, all’acqua, al cibo, all’abitazione.
Questa decisione è frutto di anni di mobilitazione da parte dei piccoli stati insulari del Pacifico, come Vanuatu, e in particolare di un gruppo di giovani giuristi che ha convinto il proprio governo a portare la questione davanti alla Corte.
Un punto particolarmente forte riguarda il settore privato: secondo la Corte, anche le imprese che inquinano vanno regolamentate, e gli stati sono responsabili se non lo fanno. Inoltre, ha ribadito che l’obbligo di protezione del clima vale anche per quei paesi che non hanno ratificato gli accordi sul clima, come il Paris Agreement.
Insomma, il messaggio è chiaro: nessuno può chiamarsi fuori, e il fatto che la crisi climatica sia un problema globale non esonera i singoli stati dalla responsabilità delle loro azioni. Anzi: la Corte ha specificato che le vittime della crisi — comunità costiere, popoli indigeni, stati insulari — possono intentare cause legali internazionali per chiedere giustizia.
La corte dell’Aia in realtà non è la prima ma la terza grande Corte internazionale a pronunciarsi in questo senso (dopo quella interamericana e quella del diritto del mare), ma rispetto alle altre ha la giurisdizione più ampia. Ora Vanuatu e gli altri stati promotori puntano a far approvare una risoluzione all’Assemblea Generale dell’ONU per confermare questo principio.
Secondo l’ONU e molti esperti, leggo nell’articolo, siamo davanti a una svolta storica: la giustizia climatica non è più solo uno slogan, ma un fondamento giuridico riconosciuto a livello internazionale. È un altro tassello che si va ad inserire nel grande puzzle della lotta al cambiamento climatico.
Certo, c’è un po’ il rischio – è un rischio che vedo trasversale all’approccio della cosiddetta giustizia climatica – di far leva solo su aspetti punitivi e deterrenti, che magari mettono la politica e gli stati con le spalle al muro, ma fanno leva sul conflitto sociale e scoraggiano la collaborazione trasversale necessaria ad affrontare la transizione. È un rischio di questo approccio di cui dobbiamo essere coscienti. Al tempo stesso, se usato in maniera consapevole, credo che anche questo tipo di leve possano avere un ruolo nell’accelerare la transizione ecologica.
Se avete seguito la puntata di ieri saprete che ieri, 24 luglio 2025, era l’earth overshoot day, il giorno in cui abbiamo ufficialmente esaurito le risorse naturali che la Terra è in grado di rigenerare in un anno. Quest’anno è arrivato ben otto giorni prima rispetto al 2024, un record assoluto (in negativo).
Ma quindi perché ci vuoi tornare su? Per farci deprimere ancora di più? In realtà no, o perlomeno, io vi dico il motivo, poi scegliete voi se esserne contenti o deprimervi, ci sono motivi per entrambe le cose.
Leggo sul sito del Global Footprint Network, che è l’irganizzazione che calcola ogni anno l’Overshoot Day, che il motivo principale di questo scarto rispetto al 2024 non è tanto un peggioramento repentino dei nostri comportamenti ma una revisione dei dati e dei metodi di calcolo.
Che vuol dire? Vuol dire che nel corso di questo anno c’è stata una scoperta in particpolare che riguarda gli oceani, che, secondo nuovi studi sarebbero meno capaci di assorbire CO₂ di quanto si pensasse in precedenza. Questo riduce la cosiddetta “biocapacità” del pianeta, cioè la sua capacità di rigenerare risorse e assorbire i nostri scarti.
Poi sì, si registra un leggero aumento dell’impronta ecologica pro capite (cioè quanto “consumiamo” in media come esseri umani). Però è un fattore abbastanza marginale, che avrebbe anticipato forse di un giorno l’OD rispetto allo scorso anno.
Ora, come dobbiamo leggere questa notizia? Da un lato è rincuorante perché ci dice che, in linea con quello che abbiamo osservato negli ultimi anni, l’impatto umano sugli ecosistemi sta non ancora diminuendo, ma crescendo più lentamente. Siamo probabilmente vicini al cosiddetto picco, dopodiché inizierà a scendere.
Dall’altro è allarmante perché ci dice che i modelli su cui facciamo affidamento spesso vengono smentiti dalla realtà. Il fatto che gli oceani assorbano meno CO2 di quanto pensiamo è solo uno dei tanti casi in cui scopriamo che le nostre proiezioni vanno corrette in negativo. Ad esempio studi recenti hanno mostrato che la fusione dei ghiacci in Groenlandia e Antartide sta avvenendo più velocemente del previsto dai modelli climatici dell’IPCC di qualche anno fa. Le ondate di calore, incendi, alluvioni e altri eventi meteo estremi stanno diventando più frequenti e intensi rispetto alle previsioni fatte solo dieci o quindici anni fa.
Quindi, ecco, siamo sulla buona strada, e questo è un’ottima notizia, ma dobbiamo considerare che la situazione potrebbe essere peggiore di quello che ci dicono le previsioni e quindi è molto importante darci una mossa.
“Essere circondata e insultata con l’accusa di “falsificare la realtà” non è certo il modo in cui dovrebbero svolgersi trattative serie ospitate dalle Nazioni Unite. Eppure è quello che è successo alla professoressa Bethanie Carney Almroth durante i negoziati per un trattato globale contro l’inquinamento da plastica a Ottawa, in Canada. Secondo quanto racconta, i dipendenti di una grande azienda chimica statunitense “hanno fatto cerchio attorno a lei” per intimidirla”.
In un altro incontro ufficiale dell’ONU, un lobbista dell’industria degli imballaggi in plastica ha fatto irruzione accusandola di diffondere disinformazione. La scienziata ha presentato denuncia formale: l’uomo è stato costretto a scusarsi e ad andarsene, salvo poi riapparire alla riunione successiva.
Siamo tornati sul Guardian, per parlare di una lunga inchiesta a firma di uno dei principali giornalisti ambientali del giornale, Damien Carrington, che racconta come le lobby della plastica stanno adottando modalità sempre più violente per far deragliare i negoziati.
Carney Almroth, intervistata nell’articolo, racconta che episodi simili sono frequenti, non solo durante le trattative ma anche in conferenze scientifiche, eventi paralleli, e persino via email. Porta uno schermo protettivo sul telefono. Non aprire mai il computer senza sapere chi ha dietro. È un ambiente ad alta sorveglianza e altissimo stress, quello della plastica, dice.
Il clima di intimidazione è solo un sintomo di un problema più profondo. Secondo numerose fonti interne, le trattative per arrivare a un trattato globale sulla plastica, che vanno avanti dal 2022, sono state progressivamente “catturate” dalle lobby industriali, che esercitano un’enorme influenza, non solo nel merito, ma anche nei processi decisionali. Le lobby dei produttori di plastica e dei paesi petroliferi, con in testa l’Arabia Saudita, stanno cercando in tutti i modi di impedire che il trattato includa limiti vincolanti alla produzione di plastica.
E intanto, il numero di lobbisti cresce. All’ultimo incontro ufficiale, a Busan, erano presenti 220 rappresentanti del settore privato, più di qualunque delegazione nazionale. Più di tre volte il numero di scienziati. Alcuni di questi lobbisti erano addirittura integrati nelle delegazioni nazionali, con accesso a riunioni riservate.
Sul tavolo c’è la possibilità di limitare la produzione globale di plastica. Oggi parliamo di oltre 450 milioni di tonnellate all’anno, destinati secondo le stime – e se non facciamo niente per impedirlo – a triplicare entro il 2060. Le microplastiche sono ormai praticamente ovunque, come ci ricordava Daniel Tarozzi in una recente puntata di Soluscions. Secondo più di 100 paesi e oltre mille scienziati, porre un tetto lala produzione è l’unica strada per fermare un’emergenza che coinvolge la salute, la biodiversità e il clima. Ma i paesi produttori — Arabia Saudita, Russia, Iran, tra gli altri — dicono che la priorità è migliorare la gestione e il riciclo dei rifiuti, non ridurre la produzione. Peccato che, secondo l’OCSE, solo il 9% della plastica viene effettivamente riciclato.
A guidare il processo dei negoziati c’è l’UNEP, l’agenzia ambientale dell’ONU che sovrintende le trattative. Ma la sua direttrice, Inger Andersen, è stata accusata da oltre 100 organizzazioni di avere poca ambizione e di non essere trasparente su chi la consiglia. Insomma, c’è il dubbio che lei stessa possa essere in qualche modo influenzata dalle lobby, visto che di recente in una dichiarazione pubblica ha ridimensionato l’importanza di mettere un tetto – un cap – alla produzione, sostenendo che la discussione dovesse essere più “intelligente” del semplice “cap sì/cap no”. Le critiche sono arrivate fino al segretario generale dell’ONU Antonio Guterres, ma non ci sono state risposte ufficiali.
Intanto l’Arabia Saudita, che controlla una delle maggiori aziende di plastica al mondo (Sabic, di proprietà di Saudi Aramco), ha rafforzato i suoi rapporti con l’UNEP, con visite ufficiali, accordi di cooperazione, donazioni milionarie e la co-presidenza di gruppi strategici.
E a rendere tutto ancora più squilibrato c’è la questione economica: partecipare alle trattative costa — tra viaggi, hotel, logistica — e mentre i grandi gruppi industriali possono mandare decine di rappresentanti, molti paesi del sud globale, scienziati e attivisti faticano a finanziare la loro presenza. Anche Carney Almroth, che ha un posto fisso in una università pubblica svedese, dice di essere tra le poche fortunate a poter parlare senza paura di ritorsioni legali o tagli ai fondi.
Ecco, questa è la situazione. Tutto questo avviene mentre la crisi da plastica continua a peggiorare, con effetti ormai documentati sulla salute umana, sugli ecosistemi e sul clima. I prossimi negoziati si terranno a metà agosto a Ginevra. Alcuni paesi hanno già dichiarato che daranno battaglia per un trattato ambizioso. Altri preparano nuovi tentativi di boicottaggio. Intervistato da Daniel Tarozzi nella puntata di Soluscion di cui vi parlavo prima, Giuseppe Ungherese di Greenpeace Italia diceva di avere buone sensazioni sul fatto che si potessero raggiungere traguardi importanti.
Anche se il periodo, metà agosto, non aiuta, sarà importante tenere i riflettori ben accesi su quello che accadrà a Ginevra per smascherare e denunciare in tempo reale i tentativi della lobby della plastica di boicottare il trattato.
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