250mila persone sono sotto assedio da un anno e mezzo, a El Fasher – 17/10/2025
In Sudan El Fasher è stata dichiarata inabitabile dopo quasi 550 giorni di assedio, mentre nel mondo ambientalista italiano si accende il dibattito attorno a un piano per la transizione energetica a zero consumo di suolo.
Questo episodio é disponibile anche su Youtube
Fonti
#Sudan
Pagine Esteri – Il cuore logistico del Sudan diventa il nuovo terreno di scontro
The Guardian – Thousands trapped in El Fasher siege on ‘edge of survival’, says report
Africa Rivista – Ad Addis Abeba si discute per la pace in Sudan e Sud Sudan
TGCOM24 – Sud Sudan, Onu: 300mila persone in fuga solo nel 2025
#donazioni UNHCR
UNHCR – Emergenza aiuti umanitari
#TransizioneEnergetica
Il Fatto Quotidiano – Transizione energetica a zero consumo di suolo, il mondo ambientalista si è spaccato
Italia che Cambia – A Putifigari mega-impianto fotovoltaico nel sito UNESCO: lo Stato contro soprintendenza e ONU
Italia che Cambia – Rinnovabili e territori. Conflitto inevitabile o dialogo possibile? – Io non mi rassegno + #26
Trascrizione episodio
Fino a qualche anno fa El Fasher, la capitale del Darfur del Nord, era una città vivace, piena di mercati, circondata da campi coltivati e un luogo di scambi commerciali. Vi arrivavano ogni giorno i prodotti agricoli e i frutti delle zone circostanti, che venivano portati in città per essere venduti nei mercati. Era un centro di traffici caravanieri, collegata con rotte che andavano verso il Sahel, verso Libia, l’Egitto, il fiume Nilo.
Se parlo al passato è perché questa città di fatto non esiste più. Due giorni fa è stata dichiarata ufficialmente “inabitabile”. El Fasher è assediata da 549 giorni. Da quasi un anno e mezzo, quindi. Circondata, stretta in una morsa dalla milizia paramilitare delle RSF — le Rapid Support Forces — che non fanno entrare nessun aiuto umanitario. Niente cibo, niente acqua, niente medicine.
Al suo interno si stima che vivano ancora circa 250mila persone, intrappolate in una prigione a cielo aperto, che vivono sotto terra o in bunker improvvisati, sotto il fuoco continuo di artiglieria e droni. Chi ha provato a scappare, spesso è stato ucciso, rapito, o se è riuscito a salvarsi lo ha fatto dopo aver superato gli enormi terrapieni costruiti attorno alla città dalle milizie ribelli per impedire qualsiasi via di fuga. E dopo giorni di cammino a piedi nel deserto.
A raccontare tutte queste cose è un articolo del Guardian, uscito ieri, a firma di Mark Townsend, che a sua volta fa riferimento a una recente indagine di MedGlobal, un’organizzazione medico-umanitaria che opera anche in Sudan. L’indagine si basa su una serie di interviste fatte a circa 900 persone che sono riuscite a fuggire.
Perché – e questa è un’altra caratteristica drammatica del conflitto in Sudan, buona parte di quello che accade avviene in una sorta di buco nero informativo. Dentro El Fasher non ci sono giornalisti, e le comunicazioni sono fortemente limitate. Molti abitanti non hanno accesso a telefono o internet.
In certi periodi, le linee vengono completamente interrotte, i ripetitori spenti, le reti mobili fuori uso. Questo blackout informativo fa sì che molte vicende interne non siano documentate in “tempo reale”, ma emergano solo successivamente, e in buona parte grazie a chi riesce a fuggire.
Torniamo all’indagine. Il 90% degli intervistati, racconta l’articolo, ha detto che la propria casa è stata distrutta, saccheggiata, bombardata. Il 25% ha visto morire qualcuno in famiglia solo negli ultimi tre mesi.
E poi ci sono i dati sulla fame. Un bambino su cinque sotto i cinque anni è gravemente malnutrito. Fra quelli più piccoli, sotto i 18 mesi, la percentuale sale al 27%. Anche le donne in gravidanza o in allattamento sono malnutrite — quasi 4 su 10 — con picchi drammatici tra le adolescenti. Il che significa che i bambini nascono spesso molto deboli, piccoli, fragili.
C’è una frase pesantissima detta da una donna sopravvissuta che mi pare riassuma bene la situazione. Dice: “A El Fasher non sento la vita, sento l’odore della morte”. L’immagine che arriva da questa indagine, terribile, è quella di un luogo dove non c’è più speranza. Le persone vivono sottoterra, in bunker improvvisati, e si muovono solo per cercare un sorso d’acqua o un tozzo di pane.
Nel frattempo, l’unico ospedale rimasto operativo in città — si chiama al Saudi — viene colpito regolarmente dai bombardamenti. L’ultima volta sono morte 13 persone. L’esercito sudanese ha provato a fare dei lanci aerei di cibo e rifornimenti, ma non basta.
Questo assedio drammatico è solo uno dei tanti scenari di guerra che caratterizzano ormai da due anni e mezzo il Sudan, e in particolare la regione del Darfur, ma anche la capitale Khartoum e gli stati di Kordofan, Sennar (il Sudan è uno stato federale).
Il conflitto attuale è una guerra civile che è iniziata il 15 aprile 2023 tra le Sudanese Armed Forces (SAF), ovvero l’esercito ufficiale, e le Rapid Support Forces (RSF), una forza paramilitare formata da una serie di milizie locali che avevano avuto un ruolo anche nel sanguinoso conflitto dei primi anni duemila in Darfur.
È una guerra di potere dentro lo Stato, una lotta per il controllo del potere centrale, delle risorse e delle strutture statali. Il bilancio umano è già drammatico: si stimano decine di migliaia di morti (alcune stime parlano di fino a 150.000) e più di 14 milioni di persone costrette a lasciare le loro case (internamente o verso paesi vicini) e oltre 25 milioni che vivono in una condizione di insicurezza alimentare, in un Paese con 50 milioni di abitanti.
Ieri ad Addis Abeba, in Etiopia, c’è stato l’incontro annuale congiunto fra Il Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione Africana (Aupsc) e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite i loro incontri annuali congiunti. E la guerra in Sudan, assieme a quella nel vicino Sud Sudan, erano in cima alla lista. Ancora però una risoluzione sembra lontana.
In tutto ciò, ci sono dei modi per aiutare. C’è un primo modo diretto, che è partecipare agli aiuti umanitari, sostenendo chi li fornisce. Che soprattutto in questo periodo è una roba tutt’altro che scontata, visto che molte agenzie come l’UNHCR, l’agenzia Onu che nata per proteggere e assistere i rifugiati e gli sfollati in tutto il mondo, ha subito forti tagli di fondi negli ultimi mesi, anche in conseguenza delle politiche dell’amministrazione Trump. E quindi è tutto più complicato.
Per farmi raccontare meglio come aiutare la popolazione del Sudan (e non solo) ho contattato Filippo Ungaro, Portavoce Unhcr per l’Italia e gli ho fatto un po’ di domande, a partire da: qual’è la situazione umanitaria in Sudan oggi, dal vostro punto di vista che ci lavorate direttamente? Come sta andando al momento la raccolta degli aiuti? E invece quali conseguenze stanno avendo i tagli agli aiuti?
Contributo disponibile all’interno del podcast
Fra le fonti di questa rassegna, e anche in descrizione di video e podcast, trovate il link alla campagna dell’UNHCR, se volete approfondire ed eventualmente contribuire.
Oltre a ciò, comunque, c’è anche qualcos’altro che possiamo fare, di più sottile, meno immediato ma comunque fondamentale. Ed è uno scatto di consapevolezza.
Spesso non ci interessiamo a questi conflitti come quello in Sudan perché ci sembra una roba che non ci riguarda. E con noi intendo gli occidentali benestanti, ma non è così. E non è così da un punto di vista storico, perché Il Sudan moderno nasce da una mappa tracciata col righello a Londra e Parigi, non da logiche locali. Il dominio coloniale ha unificato territori diversissimi sotto uno stesso Stato, senza considerare le identità etniche, tribali, religiose.
E quando poi se n’è andato ha lasciato un paese vastissimo, mal governabile, una classe dirigente centralizzata a Khartoum, formata spesso da élite arabe e musulmane e invece periferie — come il Darfur o il Sud Sudan — poverissime e marginalizzate. E questo ha creato disuguaglianze strutturali, che sono esplose nei decenni successivi, alimentando risentimenti e conflitti.
E tutta quell’instabilità, in realtà resta motlo funzionale a chi comunque continua a accaparrarsi per pochi spicci le preziose risorse del Paese. L’oro del Darfur viene esportato verso Emirati, Turchia ed Europa: finanzia i gruppi armati, incluse le RSF.
Il Bestiame del Kordofan è venduto all’Arabia Saudita per i pellegrinaggi e per i mercati del Golfo. Il Petrolio del Sud Sudan è estratto da compagnie cinesi, malesi, ma anche con investitori occidentali. Che ci possiamo fare noi? Forse non molto, però intanto sappiamolo. Iniziamo a comprendere profondamente le radici su cui poggia il nostro benessere. È già qualcosa.
Ieri su Sardegna che Cambia abbiamo pubblicato un articolo che racconta di un progetto di un grosso impianto fotovoltaico all’interno di un sito UNESCO, in Sardegna. Questa cosa sta sollevando un discreto putiferio ed è l’ennesimo territorio di scontro del sempre più complesso rapporto fra energie rinnovabili e territori, un tema centrale per la nostra epoca, e di cui ci siamo occupati più volte.
Ho chiesto a Sara Corona Demurtas, autrice dell’articolo, di raccontarci meglio la questione e anche il suo punto di vista su di essa.
Contributo disponibile all’interno del podcast
Ma come vi dicevo, questo caso è solo l’ennesimo di un confronto che sta dividendo, forse spaccando al suo interno, il mondo ambientalista. Anche se forse si stanno aprendo degli spiragli di confronto più costrutivo, mi pare (o forse lo spero).
Qualche giorno fa è stato presentato un documento chiamato “Piano Nazionale di Transizione energetica a Zero consumo di suolo”. A realizzarlo e presentarlo è stata la coalizione TESS – Transizione Energetica Senza Speculazione, insieme al Movimento Sindaci per una Transizione Rispettosa dei Territori.
Ne parla Elisabetta Ambrosi in un articolo sul Fatto Quotidiano.
Il succo del documento è che, secondo choi lo ha realizzato, non ci sarebbe bisogno di costruire impianti industriali di rinnovabili su suolo agricolo, selvatico o montano. Quindi, dice il Piano: sì al fotovoltaico solo su tetti, cave, aree dismesse. Sì alle comunità energetiche. No a impianti a terra, no all’eolico, perché consumano suolo, alterano gli ecosistemi, deturpano i paesaggi.
Il piano è supportato da alcuni tecnici come Michele Munafò di ISPRA e Massimo Rovai di Slow Food Toscana, che sottolineano i danni prodotti da impianti giganti piazzati ovunque, spesso con logiche speculative, spesso con incentivi pubblici. Parliamo di quasi 18mila ettari di suolo occupati solo dai pannelli fotovoltaici, dice ISPRA.
TESS propone invece un’altra via: secondo il report usando circa il 70% dei tetti dei 400mila capannoni industriali italiani produrremmo energia sufficiente per superare gli obiettivi che l’Italia si è data per il 2030. E superarli di parecchio: secondo i calcoli, si arriverebbe a 191 GW di potenza installata, ben oltre i 100 GW previsti dal Piano per la Transizione Ecologica.
La questione però, è un po’ più complicata di così. Ad esempio alcune associazioni che si occupano di rinnovabili, come il Coordinamento Free o Italia Solare, fanno notare che è sicuramente necessario partire dalle superfici già artificializzate, ma che questo non basta, perché poi molti tetti non sono utilizzabili, per limiti strutturali o burocratici. Oltre al fatto che l’energia prodotta sui tetti costa molto di più, e questo causerebbe problemi alle famiglie, all’industria e a un sacco di altre robe. Quindi, dicono, dire di no a prescindere ai grandi impianti è una strategia che non porta da nessuna parte.
Devo dire che personalmente mi trovo d’accordo con questa visione, e aggiungo anche che ad esempio nel caso dell’eolico i grandi impianti sono molto più efficienti e meno impattanti dei piccoli impianti, e che l’eolico è necessario per bilanciare i picchi del fotovoltaico essendo due fonti abbastanza complementari.
Al tempo stesso, il fatto che i grandi impianti siano necessari non deve diventare un lasciapassare per permettere la costruzione di impianti ovunque, e soprattutto per permettere quello che al momento è un rapporto molto sbilanciato e in alcuni casi predatorio fra le aziende energetiche e i territori, dove i profitti stanno tutti da un lato e i danni tutti dall’altro.
Insomma, temo che il caso del conflitto fra rinnovabili e territori sia uno di quelli – molto faticosi, lo capisco – in cui non si può dire che ha ragione qualcuno a prescindere. In cui bisogna analizzare caso per caso, volta volta, e capire se in quel territorio, in quel contesto, ha senso costruire quell’impianto oppure no. Considerando che l’impatto zero non esiste, che l’alternativa è comunque continuare con le fossili e finire per distruggere qualsiasi cosa, non solo un appezzamento di terreno o una montagna. Ma anche che la voce dei territori va ascoltata, che i profitti vanno spartiti equamente e che in alcuni casi ha senso dire no, probabilmente. Come in quello di un impianto fotovoltaico in un’area protetta dall’Unesco.
Segnala una notizia
Segnalaci una notizia interessante per Io non mi rassegno.
Valuteremo il suo inserimento all'interno di un prossimo episodio.







Commenta l'articolo
Per commentare gli articoli registrati a Italia che Cambia oppure accedi
RegistratiSei già registrato?
Accedi