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1 Settembre 2025
Podcast / Io non mi rassegno

L’estate delle piazze ribelli: da Budapest a Belgrado fino a Gaza – 1/9/2025

Dall’Ungheria alla Serbia crescono le proteste contro governi autoritari, mentre parte la Global Sumud Flotilla verso Gaza.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Questo episodio é disponibile anche su Youtube

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“Mocskos Fidesz, Mocskos Fidesz”

Quello che avete appena ascoltato è un coro che si levava regolarmente allo Sziget questa estate, uno dei più grandi festival musicali europei che si tiene sull’Isola di Obuda, nel Danubio, all’interno di Budapest, in Ungheria. Moskos Fidesz significa Fidesz lurido o per adattarlo a come faremmo un coro in Italia, Fidesz merda. Fidesz è il partito di estrema destra del primo ministro ungherese Viktor Orban e questa estate i festival musicali in Ungheria hanno risuonato con questo coro almeno quanto con le canzoni degli artisti che si esibivano. E la cosa sta mettendo in difficoltà il governo. 

Il coreo infatti è diventato un vero e proprio simbolo di protesta, tanto che il giornale 444 l’ha ribattezzata “la Mocskos Fidesz Summer”, paragonandola alla brat summer americana dell’anno scorso, che però era una moda musicale più estetica che politica, anche se Khamala Harris ha provato a cavalcarla, e definendo questo coro il tormentone dell’estate.

Ne parla il Post, in un articolo di qualche giorno fa. Che spiega come la musica e i festival musicali stiano giocando un ruolo cruciale nella contestazione a Orban 

Ora, bisogna capire che in Ungheria non è proprio scontato protestare così apertamente contro il governo. Orbán guida un governo che è sì democraticamente eletto, ma ha un piglio semi-autoritario, xenofobo, che da anni reprime duramente ogni forma di dissenso. 

E che ha fagocitato interi pezzi di società ungherese. Vi introduco un concetto nuovo, quello di NER. NER sta per Nemzeti Együttműködés Rendszere che vuol dire “sistema di cooperazione nazionale” ed  è un sistema creato da Orban nel 2010 che consiste in una rete ampia e ramificata di istituzioni politiche, culturali, accademiche, religiose, imprenditoriali — tutte allineate al partito Fidesz. 

Il governo distribuisce fondi europei e statali a questi gruppi, costruendo una rete di persone ideologicamente, economicamente e personalmente legata alla leadership. Pensatela come un’élite che prende possesso non solo del potere politico, ma anche dei media, delle scuole, delle università, delle associazioni culturali e religiose. Anche i media indipendenti vengono spesso fagocitati. Il controllo di Fidesz si estende ai mass media, alle ONG, all’istruzione, fino agli appalti pubblici: tutto diventa leva per mantenere il potere. I critici parlano apertamente di uno stato-mafia post-comunista, una democrazia illiberale con regole rigide e scelte guidate dal vertice.

Eco, capite che in questo contesto la protesta di quest’anno è qualcosa di nuovo e anomalo. E la cosa interessante è che a protestare sono soprattutto i giovani. 

Non è un caso che questa cosa stia avvenendo ai festival. Perché nelle fasce più giovani della popolazione, quelle che frequentano i concerti e i festival, il consenso per Orbán sta crollando. Secondo un sondaggio recente, solo il 16% delle persone sotto i 29 anni voterebbe Fidesz, contro il 58% che preferisce Tisza, il partito dell’oppositore Péter Magyar, che al momento sembra l’avversario più credibile. Che è un partito centrista, guidato da un ex alleato di Orban, che si è reinventato come figura anti-establishment.

Il coro “Mocskos Fidesz” è stato intonato anche durante il Pride di Budapest, a fine giugno, nonostante il governo avesse cercato di vietarlo — senza successo. E anche gli artisti stanno cominciando, in modi più o meno espliciti, a prendere posizione. Al festival Sziget, per esempio, il rapper Pogány Induló ha sorriso sentendo il coro e ha fatto con la mano il gesto di chi si tappa la bocca, come a dire: “Non posso parlare, ma vi capisco”. Altri, come Azahriah, hanno usato i social per criticare apertamente il governo.

E poi c’è il caso della canzone Csurran-cseppen — che significa “goccia dopo goccia” — di un rapper, diventata virale, che nel videoclip prende di mira proprio la corruzione del governo. 

Di contro, Fidesz sta provando a svecchiare l’immagine di Orbán, facendolo partecipare a podcast e contenuti per i social. A volte in maniera un po’ goffa.

Nel frattempo la protesta va avanti. C’è da capire se con la fine dell’estate e dei festival, questa cosa si trasformerà in una protesta sociale più estesa, in grado davvero di far vacillare Orban, o se resterà una moda estiva. 

A volte un evento minore, può scatenare effetti a catena giganteschi, se avviene nel momento e nel luogo giusto. Tipo l’omicidio dell’arciduca Francesco Ferdinando che dette origine alla Prima Guerra Mondiale, o, per venire a tempi più recenti, gli scioperi di Greta Thunberg che hanno dato origine a un movimento studentesco globale. 

Ecco, forse sta accadendo in Serbia, dove un evento drammatico ma comunque locale, ha dato origina a un gigantesco movimento di protesta, che sta mettendo seriamente in difficoltà il governo.L’origine di tutto è stato il drammatico crollo di una pensilina della stazione ferroviaria di Novi Sad del 1° novembre 2024, che ha provocato la morte di 16 persone, la protesta si è evoluta da un dolore locale a un movimento nazionale.

È stato proprio quell’episodio – in cui però si osservava un mix di colpe frutto della corruzione endemica del paese – a diventare la famosa goccia che fa traboccare il vaso, il detonatore che ha dato voce ai tanti malesseri rimossi: inflazione, salari bassi, situazione del Kosovo, corruzione, repressione.

Il movimento che ne è seguito, anche qui, è nato nelle fasce più giovani della popolazione, tra i banchi universitari di Belgrado fin da novembre 2024 ma presto si è esteso: entro marzo 2025 si contano manifestazioni in oltre 400 città in tutta la Serbia. In particolare il 15 marzo 2025 Belgrado è teatro del più grande raduno popolare degli ultimi 25 anni, con centinaia di migliaia di partecipanti.

Il movimento si distingue per essere orizzontale, privo di leader carismatici, lontano da logiche partitiche e ideologiche: né blu (europeisti/atlantisti), né rosso (filorussi), ma con una solidarietà trasversale, si dicono vicini alla Palestina e critici verso la guerra tra Russia e Ucraina. Ed esprimono una rabbia comune e trasversale, rifiutando le identità politiche tradizionali.

Il governo di Vučić, al potere da oltre un decennio, ha risposto con durezza crescente: in molte manifestazioni sono apparsi gruppi di persone mascherate, spesso armate di spranghe, petardi, bottiglie che gettavano fuoco, attaccavano manifestanti pacifici… e la polizia li proteggeva, invece di fermarli. Insomma delle “squadracce” pro-regime, supportte dalla polizia in assetto antisommossa, che non ha lesinato l’uso di gas lacrimogeni e persino armi sonore contro manifestanti pacifici.

Durante una grande manifestazione a Belgrado i partecipanti stavano osservando 15 minuti di silenzio commemorativo e all’improvviso un suono fortissimo e inquietante, descritto come un “passaggio sonoro”, ha causato panico, cadute, addirittura svenimenti.

In località come Valjevo, l’ennesimo video di pestaggi da parte della polizia ha fatto il giro dei social, intensificando la protesta. Inoltre, sostenitori del partito al governo si sono scontrati con manifestanti, anche dentro l’aula parlamentare.

Il presidente ha tentato un’apertura di facciata, proponendo dibattiti televisivi e online con studenti e manifestanti. Ma l’offerta è caduta nel vuoto: i principali leader studenteschi e dell’opposizione hanno respinto il confronto, chiedendo solo elezioni anticipate, che Vučić continua a rifiutare, sostenendo che le manifestazioni sarebbero orchestrate da “forze straniere”.

Un po’ come nel caso dei Gilet Gialli in Francia, anche in Serbia non è emerso un programma politico concreto post-Vučić: la forza del movimento risiede nella sua domanda di trasparenza, onestà e giustizia, e non in un’alternativa strutturale definita.

Questo è forse il suo limite – e al contempo la sua potenza. Però ecco, non dobbiamo aspettarci dai movimenti che diventino per forza un’aòternativa politica. I movimenti hanno questa enorme forza di rottura, sono frutto di energie represse della società che improvvisamente deflagrano. Poi, da questa forza che spesso è una forza destruens, si possono aprire delle fienstre di cambiamento, ma non è detto che siano le stesse persoen, le stesse formazioni a coglierle.

Il movimento comunque continua: arresti di ex ministri e funzionari coinvolti nella ricostruzione di Novi Sad hanno momentaneamente dato un segnale, ma la tensione resta alta. Le istituzioni europee chiedono riforme democratiche, mentre Vučić prova a tenere botta, consolidando legami con Russia e Cina.

Sono ovviamente successe tante cose in questo mesetto in cui ci siamo sentiti poco.

Oggi voglio intanto farvi un riassunto della situazione a Gaza, perché continua afd essere una delle situazioni più preoccupanti e su cui al tempo stesso si stanno muovendo più cose.

Circa due settimane fa giorni il governo israeliano ha dato il via libera a una nuova enorme colonia in Cisgiordania, che secondo molti analisti è la pietra tombale sull’ipotesi dei due stati. O come titolava il post, il chiodo sulla bara. Nel senso che l’ipotesi dei due stati era già morta e sepolta da un pezzo proprio per via delle colonie israeliane in Cisgiordania, una roba più utile per i convegni e la demagogia che per la realtà. Ma con questa mossa il governo israeliano vuole praticamente impedire anche che se ne possa parlare come una roba vagamente possibile. 

Parliamo di oltre tremila case nella zona cosiddetta E1, vicino a Maale Adumim. Ora, non è un progetto qualsiasi: quell’area è strategica perché collega Gerusalemme Est con la Cisgiordania, e costruirci significa di fatto spezzare in due i territori palestinesi rendendo praticamente impossibile la creazione di uno Stato indipendente. 

Un’altra notizia tremenda che è giunta da Gaza è quella sugli attacchi cosiddetti “double tap”, che sta facendo moltoi discutere: cioè è venuto fuori che l’esercito israeliano utilizza sistematicamente questi attacchi che consistono nel colpire un obiettivo una prima volta e poi, dopo qualche minuto, colpirlo di nuovo, sapendo che nel frattempo sul posto sono arrivati soccorritori, giornalisti, medici. 

È successo pochi giorni fa a Khan Younis, all’ospedale Nasser, nella zona maternità: prima un’esplosione e poi, diciassette minuti dopo, un secondo bombardamento che ha ucciso almeno cinque reporter e diversi sanitari. 

Sul fronte più largo del Medio Oriente, nello Yemen, un raid israeliano ha colpito la leadership houthi e ha ucciso Asaad al-Sharqabi, che era il capo di stato maggiore e ministro della Difesa, una figura politica di primo piano. Questo rischia di aprire un nuovo fronte e di allargare ulteriormente il conflitto, già di per sé traboccante.

Ora, in questo scenario così cupo, arrivano anche segnali di resistenza civile e di solidarietà. In Israele continuano gigantesche manifestazioni contro il governo, ancora perlopiù legate alla liberazione per gli ostaggi, ma il movimento di solidarietà verso i Palestinesi si sta ritagliando un suo spazio. 

In Italia ci sono state diverse manifestazioni e marce per Gaza durante l’estate, e questo weekend è partita la Global Sumud Flotilla, la più grande mai organizzata, con decine di imbarcazioni e attivisti da 44 Paesi, tra cui Greta Thunberg, che vogliono rompere simbolicamente e fisicamente il blocco navale di Gaza e portare aiuti. Dall’Italia c’è un forte sostegno all’iniziativa, pensate che a Genova in meno di 5 giorni sono state traccolte 250 tonnellate di cibo, praticamente un intero supermercato.

Io però voglio salutarvi con un articolo che pubblichiamo oggi su ICC, di cui vi leggo solo l’inizio. Lo ha scritto, originariamente per il suo blog, in Inglese, è Uri Noy Meir, un ex-soldato dell’Idf di stanza a Gaza, che da anni ha intrapreso un percorso di autoguarigione interiore, fatto di arte, teatro, narrazione e attivismo. 

Vi leggo solo l’inizio:

Scrivo queste parole con il peso del mondo che mi preme sul petto. Sono stato un soldato dell’IDF, di stanza a Gaza tra il 2002 e il 2005. In quegli anni ero armato non solo di un fucile, ma anche della certezza di essere nel “giusto”, che fosse “necessario”, che stessi proteggendo il mio popolo, la mia casa. Ora sono un artista sociale, un facilitatore, un padre che vive e lavora in Italia, intento a ricucire il tessuto lacerato della mia anima.

Il 7 ottobre 2023, “il caso volle” che mi trovassi a casa di mia madre, nel nord di Israele, con la mia compagna e le mie due figlie, in visita alla mia famiglia. Durante il susseguirsi di quella terribile mattina, stavo insegnando online il Teatro Giornale a un gruppo di studenti tedeschi, e il nostro volo serale per l’Italia venne cancellato. Le ferite si riaprirono.

Ora, quasi due anni dopo quel giorno, dopo tutto il dolore inflitto, dopo tanta rabbia espressa, possiamo dire che quelle ferite risuonano con le fratture e le paure più profonde del mondo.

Viviamo immersi nell’empatia selettiva. L’immagine di un bambino sofferente circola online, ma se piangiamo o se scorriamo oltre dipende dalla bandiera sopra (o dentro) la nostra testa. Algoritmi, politici, influencer e giornalisti sequestrano la nostra compassione, il nostro lutto incanalato in indignazione che alimenta proprio le divisioni da cui scaturisce questa sofferenza.

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