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21 Novembre 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Ex Ilva, la rabbia di Genova e Taranto: fabbriche ferme e città bloccate – 21/11/2025

Scioperi e blocchi a Genova e Taranto contro il piano del governo sull’ex Ilva; la filiera del riciclo della plastica entra in crisi; la nuova classifica mondiale delle performance climatiche.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Questo episodio é disponibile anche su Youtube

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Trascrizione episodio

Prima Genova, poi Taranto. Da due giorni due importanti città sono letteralmente bloccate da scioperi e manifestazioni gigantesche. Al centro di queste proteste c’è uno degli impianti più controversi e ingombranti della storia del nostro Paese: l’ex Ilva. E un piano del governo che vorrebbe ridurne la portata e chiudere alcuni stabilimenti.

Provo a riassumervi un po’ la vicenda per capire come siamo arrivati fin qui. Allora, dovete sapere che in Italia esistono diversi stabilimenti dell’Ex Ilva, che oggi si chiama Acciaierie d’Italia S.p.A. Il più noto è indubbiamente quello di Taranto che è anche lo stabilimento principale. È l’unico dove si produce l’acciaio negli altiforni, e per questo è anche lo stabilimento più grande, più inquinante, più controverso, attorno a cui ruota una storia fatta di inquinamento, malattie, distruzione ambientale e sociale, processi giudiziari. 

Ma esistono anche altri stabilimenti sparsi per l’Italia. alcuni di questi sono stati chiusi negli anni, altri sono ancora aperti. Generalmente avevano la funzione di lavorare l’acciaio prodotto a Taranto e farci dei sottoprodotti che poi vendevano, o vendono. Fra questi stabilimenti secondari, il più importante è quello di Genova, che sorge nel quartiere di Cornigliano. E poi ce n’è un altro abbastanza grosso a Novi Ligure.

Quello di Genova è comunque considerato più importante e strategico perché vi si producono la banda stagnata, la banda cromata e la banda zincata. Ma la prima, la banda stagnata, è particolarmente importante perché altro non è che la latta, con cui si fanno le lattine per lo scatolame alimentare e non viene prodotta altrove in Italia, che già comunque ne importa dall’estero centinaia di tonnellate ogni anno.

Ok, questa è la situazione di partenza. Dovete sapere però che l’Ex Ilva da anni lavora a ritmi ridotti, in tutte le sue sedi. È in crisi sia per via delle sue vicende giudiziarie, legate soprattutto all’inquinamento prodotto, sia perché per continuare a produrre dovrebbe fare una mole non indifferente di investimenti in tecnologie meno inquinanti, tipo gli altiforni elettrici. 

Il governo – anzi i governi – da anni promettono piani ambiziosi di transizione ecologica degli stabilimenti, in alcuni casi li hanno anche presentati, ma poi alla prova dei fatti nessun governo li ha davvero portati avanti. Vuoi per una difficoltà oggettiva nell’attuarli, vuoi per i grossi investimenti necessari, vuoi per un generale disinteresse politico per una questione che non è mai riuscita del tutto a raggiungere una dimensione nazionale, a coinvolgere del tutto l’opinione pubblica. Così attualmente l’ex ILVA lavora già a ritmi molto ridotti. Su circa 8mila dipendenti complessivi ora sono in cassa integrazione 4.500, e il governo ha previsto che saliranno a 6mila da gennaio.

In parallelo il governo sta provando a rivendere l’azienda, dopo l’esperienza fallimentare con la multinazionale indiana Arcelormittal, ma ora come ora non è facile trovare qualcuno che la compri così com’è, ovvero con tutti i soldi che poi ci andrebbero spesi. Ci sarebbero delle offerte, dice il governo, ad esempio quella del fondo Bedrock, che però prevede molti licenziamenti.

E arriviamo alla sera di martedì 18 novembre, quando c’è stato un incontro fra alcuni rappresentanti del governo e alcuni sindacati (Fim, Fiom e Uilm) in cui i commissari governativi dell’ex ILVA hanno detto, un po’ di punto in bianco, che intendono fermare gli impianti nel nord Italia, quindi principalmente quelli di Genova e Novi Ligure, in cui si lavora l’acciaio prodotto a Taranto, la sede principale. 

L’idea del governo è che lo stabilimento di Taranto venda direttamente sul mercato l’acciaio prodotto. In questa configurazione quindi quelli di Genova e Novi Ligure rimarrebbero senza materiale da lavorare e da vendere poi a terzi, verrebbero chiusi e i dipendenti verosimilmente licenziati.

Da lì è stato un crescendo di proteste: subito dopo l’incontro i sindacati hanno indetto 24 ore di sciopero in tutte le sedi dell’azienda. La mattina successiva, mercoledì 19, i lavoratori dello stabilimento di Cornigliano, quello di Genova insomma, hanno occupato la fabbrica e sono scesi in corteo bloccando le strade con i mezzi di cantiere. Poi sono tornati in presidio e hanno passato la notte in tenda davanti allo stabilimento.

Anche a Taranto è successo qualcosa di simile. Fabbrica occupata e blocchi stradali su due statali, blocco anche sulla bretella che unisce le due statali sul principale varco dell’Eni utilizzato per carico e scarico. Ieri sera si è riunito il Consiglio dei ministri per discutere un nuovo decreto legge con misure urgenti per assicurare la continuità operativa degli stabilimenti, ma ancora ne sappiamo poco.

Intanto le proteste vanno avanti. Vi faccio ascoltare una testimonianza della collega giornalista Valentina D’Amora, che vive a Genova e ci racconta quanto sia pervasivo questo sciopero e bloccante per tutta la città.

Contributo disponibile all’interno del podcast

Ecco, insomma, la situazione è questa. E a Taranto non è da meno. 

Ovviamente è una questione molto complessa. Ed è importante inquadrarla nella maniera corretta, perché per anni i media, la politica, un po’ devo dire anche i sindacati, hanno presentato la questione dell’Ilva come un dilemma fra tutela di salute e ambiente e tutela del lavoro. 

Chi manifesta per strada però, oggi, non chiede di mantenere il suo posto di lavoro così com’è, perché quel lavoro – questo soprattutto a Taranto – spesso equivale ad ammalarsi e far ammalare i propri cari e tutti coloro che vivono nelle vicinanze dello stabilimento.

Chiedono, piuttosto, un impegno chiaro nella misure di sostenibilità, una conversione ecologica, chiedono sì un lavoro ma un lavoro che sia anche sano e sicuro. È chiaro che tutto questo è molto complicato e apre a tanti interrogativi. Ad esempio: esiste un modo realmente sostenibile e non dannoso per la salute di produrre e lavorare l’acciaio? Soprattutto, può essere sostenibile una fabbrica gigante che si trova nel cuore di una città? La possiamo convertire o dovremmo semplicemente chiuderla e riaprirla magari altrove?

Sono tutte domande lecite, il grosso tema di fondo però è che qualsiasi sia la risposta, le conseguenze di questa risposta non dovrebbero ricadere su migliaia di persone che hanno bisogno di un lavoro per vivere. E guardate che non è un tema che riguarda solo l’Ilva, riguarda anche i milioni di lavoratori nell’industria fossile, degli allevamenti intensivi, dell’agricoltura intensiva, nell’aviazione civile. Ci sono decine di settori che dovremo ripensare o proprio smantellare. E non possiamo permetterci che a pagare pegno siano gli anelli più fragili della catena sociale. Altrimenti poi le destre populiste hanno gioco facile nel fomentare la popolazione dando contro alla transizione ecologica.

Voglio farvi ascoltare un messaggio di un europarlamentare che si chiama Dario Tamburrano, un estratto di un suo intervento al Parlamento Ue. Che non c’entra niente con l’Ilva. Ma c’entra eccome, se sapete cogliere il legame. 

Contributo disponibile all’interno del podcast

“La scorsa settimana Assorimap, l’associazione nazionale che rappresenta le aziende private che riciclano o rigenerano il 90 per cento dei rifiuti di plastica provenienti dalla raccolta differenziata nazionale, aveva annunciato la chiusura degli impianti a causa di una grave crisi di competitività e della mancanza di misure governative per salvare il settore.

Ora le prime conseguenze sulla gestione dei rifiuti si sono presentate in Sardegna, dove almeno un comune ha dovuto sospendere temporaneamente la raccolta della plastica, e in Sicilia, dove molti comuni hanno emesso delle ordinanze per rallentarla. Sempre in Sicilia molti degli impianti di stoccaggio hanno già chiuso o hanno smesso di accettare la plastica proveniente dalla raccolta differenziata dei comuni creando problemi di gestione, «seri rischi» sul piano igienico-sanitario e rischi legati a incendi ed esplosioni, come denunciato da Anci Sicilia (l’associazione che riunisce i sindaci della regione), che ha chiesto un incontro urgente con l’assessore regionale all’Energia Francesco Colianni”.

L’articolo che sto leggendo è del Post e racconta un fenomeno preoccupante, ma abbastanza prevedibile, che sta attraversando la filiera del riciclo della plastica in Italia.

Succede che i costi dell’energia in Europa sono molto alti, mentre i prezzi di vendita delle plastiche riciclate stanno crollando perché devono competere con la plastica vergine, spesso più economica, e la plastica riciclata importata da Paesi extra UE a prezzi ancora più bassi. Risultato: chi compra si rivolge sempre di più a prodotti fuori dall’Europa, e i riciclatori europei restano con i magazzini pieni. Solo che questa plastica in eccesso non può essere mandata in discarica per via delle norme europee che giustamente puntano ad aumentare il riciclo e ridurre al minimo lo smaltimento in discarica.

Nel frattempo il settore sta collassando: a livello europeo la produzione di plastica (vergine + riciclata) è calata, la quota di mercato dell’Europa è scesa moltissimo e dal 2023 hanno già chiuso circa 40 impianti di riciclo, soprattutto nel Regno Unito e nei Paesi Bassi. Assorimap, il consorzio italiano che riunisce i riciclatori di materie plastiche, ha scritto una lettera al ministro Pichetto Fratin, in cui parla di una filiera italiana da oltre 350 imprese, più di 10mila addetti e 1,8 milioni di tonnellate di capacità di riciclo che rischia il blocco, con utili crollati dell’87% dal 2021 e praticamente a zero nel 2025.

Le soluzioni proposte da Assorimap prevedono di anticipare al 2027 l’obbligo di un contenuto minimo di plastica riciclata negli imballaggi, attualmente fissato al 2030 dal regolamento europeo sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio. Tra le altre proposte c’è anche quella di maggiori controlli sulle importazioni e di incentivi a chi produce beni con plastica riciclata.

Anche qui, però, vale un discorso simile. La filiera del riciclo della plastica è probabilmente destinata a contrarsi, perché il mercato della plastica è destinato a contrarsi. Dovremmo produrre mooolta meno plastica. Poi magari, quel poco di plastica che produciamo, dovrebbe essere fatta con sole 2-3 varietà di polimeri invece delle centinaia presenti oggi, in modo che poi riusciremmo a metterla tutta assieme e riciclarla meglio. Ma anche aumentando molto la percentuale di riciclo, e la qualità del prodotto riciclato, non è una filiera che può espandersi. 

E di nuovo siamo di fronte al dilemma: dobbiamo trovare dei modi socialmente attuabili e inclusivi per chiudere o ridurre dei settori e delle filiere industriali, e questo non è semplice in una società in cui tutto è progettato per crescere all’infinito.

Al volo, 2-3 cose sulla COP30. Dopo l’ottimismo di martedì, ieri è stata una giornata di attesa e stallo, con le fratture fra i paesi favorevoli alla roadmap e quelli contrari che invece di attenuarsi si sono acuite e l’ipotesi di un prolungamento, come scrive ad esempio il climatologo Luca Lombroso presente a Belem, che si fa via via più probabile.

Intanto vi segnalo due cose. Una è che due giorni fa, durante la COP, il governo Brasiliano ha annunciato  di aver riconosciuto dieci nuovi territori alle popolazioni indigene che li abitano da sempre.

L’altra è che ieri è uscita l’edizione 2026 dell’indice di performance dei paesi sul cambiamento climatico, un indice che monitora e fa una classifica delle politiche ambientali dei 63 Paesi più ricchi e inquinanti al mondo, più l’Ue.

I risultati sono interessanti. Innanzitutto nessun Paese occupa i primi tre posti, riservati agli Stati che hanno adottato misure considerate adeguate: significa che, secondo gli autori, nessuno (almeno fra i Paesi ricchi) è ancora su un percorso compatibile con l’obiettivo di contenere il riscaldamento ben al di sotto dei 2 °C e possibilmente entro 1,5 °C. Al primo posto utile (il quarto) troviamo la Danimarca, stabile tra i leader per qualità delle politiche e sviluppo delle rinnovabili, seguita dal Regno Unito e dal Marocco. Il Marocco terzo è un dato molto interessante. 

L’Ue nel suo complesso è ventesima, l’Italia 46a. Maluccio. Comunque se vi leggete la nostra news c’è la classifica completa e ci sono diversi spunti di riflessione interessanti.

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