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25 Novembre 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Perché la storia della famiglia che vive nel bosco ci “muove” così tanto? – 25/11/2025

La vicenda della famiglia nei boschi solleva un dibattito sulla libertà educativa e il ruolo dello Stato. Intanto, 24 Paesi lanciano una conferenza per abbandonare i combustibili fossili. In Francia, Paul Watson ottiene un visto che gli consente di restare.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Trascrizione episodi

Sui giornali e sui social si continua a parlare molto della famiglia che vive nel bosco. Se ne parla così tanto che basta dire “famiglia che vive nel bosco” per evocare quella singola famiglia, come se fosse l’unica famiglia ad aver fatto una scelta del genere. 

Detta in brevissimo, se per caso non sapeste di cosa sto parlando, è la vicenda di una coppia con due figlie e un figlio che vivono in una vecchia casa nel bosco vicino a Chieti, in Abruzzo, in una casa off-grid, quindi scollegata dalla rete elettrica, senza servizi igienici, con i bambini che non frequentano la scuola, ma tutto ciò non per trascuratezza ma come scelta di vita, una vita a contatto profondo con la natura e lontana dai valori della modernità.

Se avete seguito un po’ la vicenda saprete che sono emersi via via più dettagli, ad esempio su una sorta di braccio di ferro fra i due genitori e i servizi sociali, culminato con una sentenza del tribunale dei minori che ha sospeso la potestà genitoriale e ordinato che i bambini fossero trasferiti in una casa famiglia, con la madre. Al centro della vicenda ci sarebbe anche la scelta educativa di non mandare i bambini a scuola, anche se su questo si è espresso ieri il Ministero dell’istruzione che ha detto che l’obbligo scolastico è stato rispettato attraverso l’educazione domiciliare.

Comunque, non voglio soffermarmi qui sulla vicenda giudiziaria né su quella umana di queste persone perché è stato detto e scritto fin troppo. Se volete approfondirla, vi segnalo un articolo ragionato e pacato di Paolo Piacentini su Italia che Cambia, che si distingue sia per la profondità delle riflessioni che per appunto il tono pacato con cui vengono esposte.

Mi interessa invece osservare il fenomeno. Provare a capire perché questo caso sta suscitando tutto questo clamore. Certamente c’è un ruolo dei giornali, che si nutrono come il pane di storie come questa, perché sono storie estreme, che contrappongono due mondi opposti. In una chiacchierata che ho fatto ieri con l’esperto di sistemi educativi – e amico – Danilo Casertano li ha definiti “opposti estremismi”: c’è da un lato una scelta – quella di vivere isolati – estrema perlomeno rispetto alla normalità (poi possiamo discutere sul concetto di normalità, ma qui parlo di percezione media). Dall’altro c’è una reazione estrema di un sistema educativo-statale che è a suo modo estremo, nella sua rigidità.

È una storia perfetta, facile da raccontare, in cui chiunque potrà riconoscersi in una parte e trovare delle buone ragioni per confermare la sua posizione. 

Poi c’è, credo, il fascino della scelta selvaggia. Una scelta che si presta sia alla condanna ma anche molto all’idealizzazione; in una società che ha spesso perso il contatto quotidiano con gli ecosistemi naturali la scelta della famiglia di Palmoli rappresenta probabilmente una pulsione presente in molti di noi, quando più quando meno accentuata. 

Poi ci sono di mezzo i bambini, bambini che vengono sottratti ai genitori quindi c’è un elemento drammatico forte, che colpisce allo stomaco chiunque. E poi c’è il fatto, ho la sensazione che anche questo abbia giocato un ruolo, che comunque i due genitori non sono due poveracci qualunque, ma sono molto benestanti e acculturati, lei australiana, ex cavallerizza, lui britannico, ex chef e ex imprenditore di mobili pregiati. Che hanno scelto di venire a vivere in Italia fra le decine di paesi girati per la bellezza della natura. Che conferisce a tutta questa storia un lignaggio diverso.

Quindi, ecco, ci sono tanti fattori perché questa sia una storia perfetta. Però non è solo una questione mediatica. Perché rispetto ad altre volte, mi pare di aver colto, nell’opinione pubblica, una generale insofferenza verso una società contemporanea e in particolare verso un sistema educativo statale che viene percepito come opprimente, direttivo, poco accogliente rispetto alla diversità.

Questa sensazione è almeno in parte confermata da alcuni numeri. Nel momento in cui registro sono quasi 150 le firme raccolte in sostegno della famiglia in una petizioen su Change. Ieri il Post scriveva che “Dopo la pandemia il numero di studenti in homeschooling in Italia è più che triplicato: secondo i dati raccolti dal ministero dell’Istruzione nell’anno scolastico 2024/2025 erano circa 16mila”. 

A spingere verso scelte di questo tipo sono tanti fattori. Sicuramente gli obblighi vaccinali hanno giocato e giocano un ruolo, soprattutto nel post pandemia. Così come giocano un ruolo appunto un sistema scolastico rigidissimo e incapace di innovarsi. Di fronte a questi dati possiamo fare anche qui due cose: schierarci, scegliere da che parte stare, oppure analizzare la situazione e leggere queste cose come dei segnali. 

A questo proposito, voglio leggervi un estratto di una vecchia intervista di qualche anno fa proprio a Danilo Casertano (che fra le altre cose è il creatore del primo asilo nel bosco d’Italia, è un maestro di strada, professore universitario, ricercatore, facilitatore di comunità educanti, insomma uno che due robe sul tema le capisce). Lo avevo intervistato in risposta a una serie di articoli che attaccavano l’educazione outdoor. Vi leggo un passaggio:

Veniamo a una questione più complessa: la libertà educativa. Secondo l’articolo pubblicato su Dinamo Press, la scuola pubblica è stata una conquista nell’ottica dell’emancipazione del bambino dal genitore, nel senso che viene garantita a tutti lo stesso tipo di istruzione indipendentemente dalla famiglia di origine.

Sono d’accordo. Sono assolutamente d’accordo che sia una conquista. Però, a una condizione: che la scuola pubblica si faccia carico allo stesso tempo di gestire la relazione con i genitori.

Cosa intendi?

Ti spiego: ci sono degli aspetti che sono imprescindibili, che sono la cura fisica, emotiva e sentimentale del bambino. Se la scuola garantisce questi aspetti e li trasmette anche al genitore, poi può anche permettersi di dire cose scomode. Perché alla base c’è un rapporto di fiducia. Quello che succede spesso invece è un rapporto di forza del tipo “io che ho studiato so che cosa è meglio per tuo figlio”. Allora togliamoglielo a questo punto il figlio, facciamo prima! In questo senso ho trovato la scuola a volte presuntuosa, perché non accoglie il genitore nella sua dimensione educante. Questo è un pezzo di pedagogia importante, si chiama pedagogia dei genitori, ovvero imparare ad accogliere i valori delle famiglie. E a volte è difficile, eh! Oggi ci sono valori, per esempio, di alcune frange del mondo musulmano che in alcuni casi hanno una visione della donna molto chiusa. Ovvio che non possiamo assecondare il genitore nel non parlare con una maestra perché è femmina, ma se c’è una relazione umana, di fiducia alla base, io riesco a fargliela capire questa cosa senza farlo sentire giudicato. La dimensione per cui io ti costringo a fare quello che penso che sia giusto deve essere considerata l’extrema ratio. Non può essere una cosa normale obbligare il genitore a essere altro.

Anche perché in quel modo non si genera cambiamento culturale, ma conflitto, giusto?

Esattamente. E quindi quello che succede è che se tu non mi accogli, poi io in qualche modo mi arrangio e mi faccio la mia scuola. La mia esperienza di tutti questi anni mi dice che determinati impulsi scissionisti rispetto al sistema nascono quando nella realtà della comunità mancano situazioni che accolgono la diversità. Altrimenti queste spinte restano marginali. Dipende molto dai contesti. In Veneto, dove sono abituati culturalmente a risolversi i problemi da soli, ci sono tantissime realtà autorganizzate. Mentre in Emilia Romagna, dove c’è un controllo forte da parte dell’autorità, ma anche un’offerta formativa mediamente molto alta e di qualità, le spinte “scissioniste” sono poche. L’Emilia Romagna ha molto istituzionalizzato tutto lo scenario outdoor, l’ha portato dentro. Ha fornito un’alternativa.

Ne abbiamo accennato ieri, ma credo sia interessante approfondire la questione. Immaginate la scena: siamo alla COP30 a Belém, in Brasile, e quando ci si avvicina alla fine è sempre più chiaro che, dopo giorni e notti di negoziati, il testo finale non nominerà nemmeno i combustibili fossili

A quel punto – racconta il Guardian – un gruppetto di paesi, guidati dalla Colombia e dai Paesi Bassi, prende parola. E annuncia l’apertura di un altro tavolo negoziale, parallelo alle COP, dove si parla solo di quello. Solo di come abbandonare i combustibili fossili, che sono la causa principale del cambiamento climatico. 

Viene così lanciata questa prima conferenza, che si chiama letteralmente First International Conference on the Just Transition Away from Fossil Fuels – quindi prima conferenza internazionale sulla giusta transizione dall’uso dei combustibili fossili – che si terrà il 28-29 aprile 2026 a Santa Marta, in Colombia. Che fra l’altro è un posto simbolico perché è un grande porto del carbone. 

Questa cosa viene poi formalizzata con una “Dichiarazione di Belém” firmata da 24 paesi, che dice:

Leggo da un articolo di AltrEconomia a firma di Laura Greco che “I Paesi firmatari della Dichiarazione sono a oggi Australia, Austria, Belgio, Cambogia, Cile, Colombia, Costa Rica, Danimarca, Figi, Finlandia, Irlanda, Giamaica, Kenya, Lussemburgo, Isole Marshall, Messico, Micronesia, Nepal, Olanda, Panama, Spagna, Slovenia, Vanuatu e Tuvalu”. Interessante notare che è una squadra molto diversa di paesi, che unisce paesi ricchi come la Spagna o l’Australia, con piccole isole del pacifico come Vanuatu e Tuvalu, così come paesi africani, europei, asiatici, sudamericani. Questo in genere è un buon segno, quando un gruppo è disomogeneo ha più probabilità di successo. 

“L’obiettivo – leggo ancora dall’articolo di AltrEconomia – è creare uno spazio multilaterale complementare alla Cop al quale possano aderire il maggior numero di Paesi con l’obiettivo di discutere concretamente dell’abbandono delle fonti fossili dopo le giornate di Belém. La ministra colombiana ha dichiarato di aver già avviato numerose interlocuzioni anche con governi europei, alcuni dei quali interessati anche per ragioni che puntano all’autonomia energetica, più a che a risollevare le sorti del Pianeta. Uno degli obiettivi dell’iniziativa è una moratoria estrattiva immediata nell’area amazzonica colombiana, che come per il Brasile occupa una porzione importante del Paese e che potrebbe essere da stimolo agli altri otto Stati “amazzonici”.

L’idea è che non sia la solita passerella di ministri che leggono discorsi, ma una specie di laboratorio globale dove si siedono al tavolo: 1. governi, 2. comunità indigene, afrodiscendenti, campesinos, 3. sindacati e lavoratori del settore fossile, 4. imprese e finanza, 5. accademici, movimenti, ONG. 

E dove si ragiona sulle domande chiave della transizione. Non più sul se, ma sul come. Tipo: come fai, davvero, a uscire dal carbone in un posto che vive di carbone? Cosa fai per i lavoratori? Che alternative economiche costruisci nel territorio? Chi paga la transizione?
I paesi ricchi che hanno bruciato fossili per 150 anni? I paesi produttori? La finanza internazionale? Come si scrivono le regole del “phase out” in modo che siano eque? Perché se diciamo “da domani stop alle fonti fossili”, chi è ricco si compra le tecnologie pulite e chi è povero resta al buio.

Tutto questo con l’idea dichiarata di arrivare a una sorta di “roadmap globale” per l’uscita dai fossili, che poi possa influenzare le prossime COP, e portare a un possibile futuro Trattato globale sull’abbandono dei combustibili fossili.

Quindi una notizia interessante, forse la più interessante emersa da COP30. Al tempo stesso una notizia che ci mostra un cortocircuito gigantesco. Nel senso che una conferenza per abbandonare i combustibili fossili, unica misura sensata per risolvere il problema del cambiamento climatico in teoria esiste già. Sono appunto le COP. Che dovevano servire solo a quello. In questo riconosco la dinamica molto umana di continuare a rifare la stessa cosa, dandogli un nome diverso. Spero che questa iniziativa abbia al suo interno dei germogli di reale cambiamento e innovazione e si interroghi profondamente su come mai le COP non funzionano.

Si è votato in tre regioni, Veneto, Campania e Puglia. Le cose sono andate abbastanza secondo copione. In Veneto ha vinto il leghista Alberto Stefani, l’erede di Zaia, ed è il più giovane presidente di regione e guiderà una coalizione che è – pare – molto litigiosa in campagna elettorale. 

In Puglia anche come ampiamente previsto ha vinto Antonio Decaro, europarlamentare del Partito Democratico e per dieci anni sindaco di Bari. In Campania forse c’è stato il risultato un po’ meno scontato, nel senso che ha vinto Roberto Fico, da sempre rappresentante dell’ala più a sinistra del M5S, oggi candidato della coalizione larga del centrosinistra in Campania, che ha vinto con oltre il 60% di preferenze, che è una maggioranza più ampia del previsto. Un po’ ovunque, l’affluenza è stata in calo rispetto alla tornata precedente. 

Paul Watson, il fondatore di Sea Shepherd e storico difensore delle balene su cui pende un mandato d’arresto del Giappone, potrà restare legalmente in Francia: le autorità gli hanno concesso un visto “visiteur”, che dovrebbe essergli formalmente rilasciato il 28 novembre. Non si tratta di asilo politico – che la Francia gli aveva negato qualche settimana fa – ma di un permesso di soggiorno che gli permette di vivere nel Paese e viaggiare liberamente nell’area Schengen, insieme alla sua famiglia che già risiede lì. È una sorta di compromesso: Parigi evita lo scontro frontale con il Giappone ma, nei fatti, offre a Watson una forma di protezione politica e personale, riconoscendone il ruolo di attivista ambientale perseguitato per le sue azioni contro la caccia alle balene.

In Belgio è stato lanciato uno sciopero generale per protestare contro le misure di austerità del governo, che includono anche un aumento dell’età pensionabile. A proclamare la protesta sono state tre delle maggiori firme sindacali del Paese che hanno organizzato manifestazioni per tre giorni consecutivi: oggi sciopereranno i lavoratori del settore dei trasporti pubblici, e le ferrovie prevedono di far funzionare un treno su tre. Domani non verranno garantiti i servizi pubblici di scuole, asili nido e ospedali, e dopodomani il personale aeroportuale si unirà alla protesta, tanto che gli aeroporti di Bruxelles-Zaventem e Charleroi, i due principali scali del Paese, hanno già cancellato tutti i voli.

Domenica in Slovenia si è tenuto un referendum sulla legge che avrebbe introdotto il suicidio assistito per adulti con malattie terminali o gravi sofferenze senza possibilità di cura. Il 53 per cento dei votanti ha respinto la norma, contro il 47 per cento favorevole, impedendone così l’entrata in vigore nonostante l’approvazione parlamentare di luglio. 

La consultazione era stata richiesta da una petizione sostenuta da Chiesa cattolica e partiti conservatori, che contestavano la compatibilità della legge con la Costituzione e chiedevano migliori cure palliative. Per 12 mesi il parlamento non potrà riproporre una legge simile.

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