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18 Dicembre 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Installare pannelli solari sui tetti sarà più facile, la mossa a sorpresa del governo – 18/12/2025

Dai tetti riconosciuti come aree idonee per il fotovoltaico alla proposta UE di allentare il bando sui motori endotermici dal 2035, passando per il taglio al Fondo “Dopo di noi” e l’ennesimo rinvio del Ponte sullo Stretto.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Trascrizione episodio

Ricordo ancora, nelle decine e decine di presentazioni e anche nelle nostre chiacchierate, che Daniel Tarozzi, di ritorno dal suo primo viaggio in camper di 13 anni fa che ha dato origine a Italia che Cambia, raccontava stupito di come praticamente chiunque portasse avanti progetti di cambiamento che aveva incontrato in giro del paese, che fossero di bioedilizia, gruppi d’acquisto, cohousing, energie rinnovabili, veramente chiunque, alla domanda qual era la principale sfida o ostacolo rispondessero la burocrazia.

E questa è stata una costante negli anni. Ricordo che anni fa un nostro socio Filippo Bozotti aveva tenuto una rubrica su ICC che si chiamava “Ci avete rotto il… Paese” in cui denunciava solo le vicissitudini che capitavano a lui, e appunto bastavano per una rubrica.

Questo preambolo è per dire che quando arriva una notizia che contrasta questa narrazione, è doppiamente una bella notizia, sia perché snellisce alcuni processi necessari, sia perché ci mostra come in fin dei conti, con un po’ di buona volontà politica, anche la burocrazia non sia un destino ineluttabile, un mostro imbattibile.

Ma che è successo? È successo che con un colpo a sorpresa il governo ha inserito i tetti (e più in generale gli edifici) come “aree idonee” per installare impianti da fonti rinnovabili, fotovoltaico in testa. 

Questo avviene grazie a due provvedimenti approvati in contemporanea: Il decreto-legge 175/2025 che riscrive il perimetro delle aree idonee dentro il Testo Unico rinnovabili e ci mette dentro anche gli edifici/tetti in modo esplicito. In pratica nel nuovo articolo sulle aree idonee “su terraferma”dice che fra queste inclusi esplicitamente “gli edifici e le strutture edificate e relative superfici esterne pertinenziali”. Tradotto: il costruito — tetti, coperture, pertinenze — entra nella categoria “idonea” per definizione, senza che ogni singolo Comune debba deciderlo autonomamente. E poi Il correttivo (D.Lgs. 178/2025) che rende questa cosa “operativa” sul campo: cioè chiarisce gli effetti sugli strumenti urbanistici e sul regime autorizzativo, e soprattutto rende molto più difficile continuare a bloccare tutto con dinieghi generici. 

Con questa mossa combinata il governo dice che mettere rinnovabili sui tetti e sugli edifici è non solo permesso, ma “preferibile”, e quindi fa scattare iter più veloci, meno ostacoli, e anche meno possibilità di dire “no” per motivi generici o pretestuosi.

Cosa significa, nella pratica. Che nella cosiddetta zona A, ovvero i centri storici, il fatto che un edificio sia “area idonea” neutralizza i divieti urbanistici generici. Cioè: se un Comune aveva scritto “in centro storico niente pannelli”, quel tipo di divieto “a prescindere” perde base normativa. Discorso diverso è se l’immobile è un bene culturale con vincolo diretto, lì le tutele restano forti. Insomma, non si corre il rischio di “pannelli sulla Cupola di San Pietro”. 

Poi c’è il capitolo paesaggio/Soprintendenza, che è quello dove finora si arenavano un sacco di pratiche. Qui il decreto sulle aree idonee introduce un regime in cui, per gli interventi in aree idonee, il parere paesaggistico resta obbligatorio ma diventa non vincolante (cioè non è più automaticamente un veto).

Infine c’è un riferimento esplicito ai siti UNESCO (chissà se legato al recente caso sardo, di cui avevamo palrato): in pratica si dice che nelle zone di protezione UNESCO l’installazione è consentita solo per certe tipologie di interventi.

Insomma, complessivamente un’ottima notizia, che potrebbe rendere più rapido installare ad esempio il fotovoltaico sui tetti e quindi anche limitare, ridurre, il ricorso del fotovoltaico a terra. 

Notizie meno rincuoranti arrivano, almeno apparentemente, dalla commissione Ue, che sembra intenzionata a depotenziare il bando totale delle auto a benzina e diesel dal 2035. Leggo dalla nostra news:

Oggi la regola in vigore prevede che dal 2035 le nuove auto e i nuovi furgoni immatricolati nell’UE debbano arrivare a una riduzione del 100% delle emissioni di CO2 allo scarico, di fatto azzerandole. Ciò significa, nella pratica, che stando alla normativa attuale dal 2035 non sarà più possibile immatricolare nuove auto a benzina e diesel.

Tuttavia, il 16 dicembre la Commissione ha presentato una proposta che apre la strada alla sopravvivenza delle auto a motore endotermico anche dopo il 2035. Nella nuova proposta, che prima di diventare legge dovrà essere negoziata e approvata dal Consiglio degli Stati membri e Parlamento europeo, l’obiettivo al 2035 passerebbe da -100% a -90% di CO2 (rispetto al 2021).

In questa architettura, le case automobilistiche potrebbero continuare a vendere oltre il 2035 alcune tecnologie non completamente elettriche (full electric) come ibride plug-in e “range extender”, che hanno a bordo sia un motore elettrico che uno a combustione.

Il 10% di emissioni in eccesso rispetto alle normative attuali dovrebbe, nella proposta di modifica, essere compensato dalle case automobilistiche con meccanismi previsti dal pacchetto. Ad esempio agendo su elementi “a monte”, come l’uso di carburanti CO2-neutrali e di acciaio a basse emissioni prodotto nell’UE.

Nella descrizione della Commissione, i risparmi di gas serra legati a e-fuels e biofuels “immessi sul mercato” in un dato anno verrebbero conteggiati come fuel credits a disposizione dei costruttori, da usare per compensare una parte delle emissioni “allo scarico” della loro flotta.

Sul passaggio intermedio 2030, la bozza introduce più flessibilità temporale. Oggi la norma vigente prevede che entro il 2030 le nuove auto vendute nell’UE debbano ridurre in media le emissioni del 55% rispetto al livello di riferimento 2021, e i furgoni del 50%. La proposta presentata dalla Commissione, invece, introduce più flessibilità sul percorso al 2030 permettendo ai costruttori di calcolare la conformità come media sul triennio 2030-2032 e, per i furgoni, abbassa l’obiettivo 2030 dal 50% al 40%.

Accanto all’allentamento, il pacchetto prova a sostenere la domanda imponendo alle flotte aziendali obiettivi di elettrificazione vincolanti: ogni Stato avrebbe un target nazionale di quota di auto a zero emissioni nelle flotte, calibrato sul PIL pro capite (più alto nei Paesi più ricchi, più basso in quelli con redditi inferiori; nel testo si citano valori che nel 2035 andrebbero dal 32% per la Bulgaria al 100% in molti Paesi). Sono previste esenzioni per molte PMI, indicate come aziende sotto 250 dipendenti e 50 milioni di euro di fatturato.

Per favorire modelli più accessibili, la Commissione ha creato anche una nuova categoria di piccole elettriche sotto 4,2 metri che fino al 2034 danno alle aziende dei super-crediti: ogni vendita vale 1,3 nel conteggio degli obiettivi (10 auto “contano” come 13).

Inoltre si prevede un Battery Booster, un pacchetto di sostegno finanziario da 1,8 miliardi per accelerare la filiera europea delle batterie, in gran parte sotto forma di prestiti a tasso zero (1,5 miliardi destinati ai produttori di celle).

La proposta sta suscitando reazioni divergenti. Governi e parte dell’industria parlano di pragmatismo e tutela di lavoro e competitività; associazioni climatiche e aziende più orientate all’elettrico temono invece un segnale di incertezza che potrebbe rallentare investimenti su infrastrutture e transizione, con effetti anche sulle emissioni complessive.

Sempre dalle nostre news di ieri prendo anche un’altra notizia. Leggo: “Oggi scopriamo che il Fondo per il ‘Dopo di Noi’ viene tagliato di 18 milioni di euro. Da 90 milioni si scende a 72 milioni. Non è un dettaglio tecnico. Non è un aggiustamento di bilancio. È una scelta politica che produce un effetto immediato e devastante”. Così Luca Trapanese – assessore alle politiche sociali del Comune di Napoli e attivista per i diritti delle persone con disabilità – commenta la decisione del Governo di tagliare le risorse per il fondo “Dopo di Noi”.

Il “Dopo di noi” è l’insieme di misure (e soprattutto un Fondo nazionale) nato con una legge del 2016 per garantire un futuro dignitoso alle persone con disabilità grave quando viene meno il sostegno della famiglia, tipicamente dopo la morte o l’impossibilità dei genitori. In pratica finanzia progetti personalizzati per vita autonoma, come soluzioni abitative, supporto alla domiciliarità e percorsi di inclusione per rendere queste persone il più indipendenti possibile.

Quando la legge fu approvata fu considerata una piccola rivoluzione che – almeno nelle intenzioni originarie – vuole abbandonare il modello assistenzialistico fondato sulle economie di scala consentite dalle strutture che, in maniera standardizzata, si occupano dell’assistenza alle persone con disabilità.

Il corposo taglio però – torno a leggere – pone seri dubbi sulla reale volontà politica di raggiungere tale obiettivo. “Di fatto non ci sono ancora cultura né coscienza sull’eventualità che le persone con disabilità possano avere una vita indipendente”, commenta Elena Rasia, giornalista e attivista nonché fondatrice del progetto di coinquilinaggio solidale Indi Mates, finalizzato proprio al raggiungimento delle autonomie.

Elena individua il nodo che impedisce di sviluppare una politica – e un relativo budget che sia adeguato e proporzionato – realmente efficace: “Noi persone con disabilità non siamo un investimento. Lo siamo solo nella misura in cui continuiamo a essere sempre e solo assistiti, dei numeri, degli utenti che forniscono lavoro”, sottolinea.

Dello stesso tenore le conclusioni dell’intervento di Luca Trapanese: “Altro che progetto di vita. Altro che autonomia. Altro che inclusione. Diciamolo chiaramente: se lo Stato taglia proprio qui, sul futuro delle persone più fragili, sulla dignità, sull’autonomia, se si smette di investire e si scarica tutto sui territori e sulle famiglie, smettiamo di fingere di parlare di diritti. Perché così non si parla di persone con disabilità, ma si torna semplicemente a parlare di handicappati abbandonati al loro destino“.

Ultima notizia del giorno, torniamo a parlare di  Ponte sullo Stretto. Se avete ascoltato la puntata della scorsa settimana sull’argomento saprete che la Corte dei Conti ha bocciato il piano del governo, sostenendo che ci sono alcune presunte incompatibilità fra l’iter di approvazione del progetto e le norme UE.

Inizialmente Salvini si era detto fiducioso di risolvere il tutto rapidamente e aveva promesso, come fa sempre in questo periodo dell’anno, che i cantieri sarebbero partiti prima dell’estate prossima. 

Ma ieri sono arrivatre altre due stangate. Prima – leggo su Repubblica – La Corte dei conti dopo aver bocciato la delibera Cipess ha bocciato anche l’atto aggiuntivo: il contratto, in soldoni, tra il ministero dell’Economia, il Mit e la società Stretto di Messina. L’iter messo in piedi dal governo Meloni per realizzare l’opera «non rispetta le norme europee», sostengono i magistrati contabili. 

E poi il governo ha approvato un emendamento alla legge di bilancio in cui sposta in avanti 780 milioni di euro che erano iscritti in bilancio per l’avvio dei lavori, e li ripianifica nel 2033. Il che lascia presupporre che anche quest’anno, i cantieri del Ponte prima dell’estate, non partiranno.

Ieri è uscita la nuova puntata di Con i miei soldi, il nostro podcast sulla finanza personale etica, e parla di Finanza e Palestina, ovvero di come possiamo aiutare (o condannare) il popolo palestinese anche con le nostre scelte finanziarie.

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