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13 Ottobre 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Madagascar, l’esercito marcia a fianco dei manifestanti – 13/10/2025

Tentativo di colpo di Stato in Madagascar: parte dell’esercito si unisce ai manifestanti della Gen Z. Poi: Nobel per la Pace a una figura controversa, impeachment lampo in Perù, e la crisi di governo infinita in Francia.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Trascrizione episodio

In Madagascar sta succedendo una cosa piuttosto grossa: ieri il govenro ha fatto sapere che era in corso un colpo di stato e che l’esercito stava provando a prendere il potere. Solo che si tratta di un colpo di stato abbastanza atipico, e ora vi spiego come mai.

Le origini dei ftti di ieri risalgono al grande movimento giovanile che ormai da settimane protesta nel paese, e in particolare per le strade della capitale Antananarivo, contro il governo. I motivi delle proteste erano inizialmente molto basilare: parliamo di un paese in cui i ⅔ della popolazione sta sotto la soglia di povertà e in molte aree mancano l’acqua e l’elettricità. 

Chi protesta è soprattutto la Gen Z, cioè i più giovani, che vedono una mancanza di prospettive e di futuro, e che soffrono di un senso di ingiustizia cronico di fronte alla povertà, ma anche alla corruzione, alla ricchezza ostentata da parte della classe politica, alla gestione autoritaria del potere.

Un tipo di protesta che, come abbiamo visto in altre puntate, rientra in una modalità che si sta diffondendo in diversi paesi del mondo, dal Bangladesh, all’Indonesia, al Nepal, e che ha una serie di caratteristiche comuni: sono appunto portate avanti dai giovani, dai ventenni (e non a caso avvengono in paesi con un’età media molto bassa, pensate che in Madagascar l’età mediana è di 19 anni). vedono un uso massiccio e sistematico dei social media, fanno attenzione a una serie di simboli visivi ricorrenti, tipo appunto il simbolo dell’anime One Peace.

Comunque, per tornare ai fatti del weekend, sabato un’unità d’élite dell’esercito si è schierata con i manifestanti. L’unità in questione, che si chiama CAPSAT, ha inviato sabato un messaggio aperto a tutte le forze armate del paese, chiedendo di «smettere di essere pagati per sparare ai nostri amici, ai nostri fratelli e alle nostre sorelle», in riferimento ai manifestanti. «Noi militari non svolgiamo più il nostro ruolo (…). Abbiamo scelto di sottometterci ed eseguire gli ordini, anche se illegali, anziché proteggere la popolazione e le sue proprietà». Nel corso della giornata di domenica altre unità si sarebbero aggiunte a CAPSAT e ai manifestanti.

E ieri, domenica appunto, attorno alle 12 il presidente del Paese, Andry Rajoelina, ha dichiarato che era in corso un “tentativo di golpe”. Diffondendo questo messaggio: “La Presidenza della Repubblica desidera informare la nazione e la comunità internazionale che è attualmente in corso sul territorio nazionale un tentativo di prendere il potere illegalmente e con la forza, contrario alla Costituzione e ai principi democratici”. 

Poco dopo il ramo dell’esercito che era insorto ha dichiarato di aver preso il controllo di tutte le forze armate del Paese, e ha invitato anche le forze di sicurezza a “rifiutare gli ordini”. “D’ora in poi, tutte le forze dell’esercito malgascio, che siano terrestri, aerei o militari, prenderanno ordini dal quartier generale del Capsat”, cioè dal contingente ammutinato, composto da ufficiali amministrativi e tecnici. 

Fra l’altro il Capsat è lo stesso contingente che nel 2009 aveva guidato l’ammutinamento durante la rivolta popolare che portò al potere l’attuale Presidente Rajoelina. Che però dal mese scorso è al centro di grosse proteste, con i manifestanti che ne hanno chiesto più volte le dimissioni. Rajoelina dapprima ha risposto sostituendo il governo, poi, quando le proteste non si placavano, le ha represse con la forza: ci sono state decine di morti negli ultimi giorni.

Quando l’esercito ha di fatto dichiarato la ribellione nei confronti del governo centrale, si sono registrate delle manifestazioni di supporto ai militari, ne riporta alcune Al Jazeera, ma comunque più tiepide rispetto a quelle gigantesche di proteste delle settimane precedenti. 

La situazione comunque è in evoluzione, il tentativo di colpo di stato al momento non ha un esito chiaro e bisogna monitorare per capire cosa succederà nelle prossime ore.

Il premio Nobel per la Pace è stato – prendo in prestito questa definizione da un amico – un cortocircuito totale. E non solo per la persona a cui è andato, ma per le modalità, per il discorso fatto dalla giuria e tante altre cose.

Partiamo dall’inizio. Il Nobel per la Pace è stato consegnato venerdì pomeriggio, a Oslo, dal comitato norvegese per il Premio Nobel, come tutti i nobel. Sapete che Trump ambiva tantissimo a questo riconoscimento, lo brama da anni, fin dal suo primo mandato, ma adesso sembra essere diventata un po’ un’ossessione, al punto che secondo alcuni commentatori non è un caso che l’accordo per il cessate il fuoco voluto con la forza da Trump stesso sia arrivato due giorni prima della consegna. 

Insomma, Trump ci ha sperato fino all’ultimo, anche se si sapeva che il comitato aveva già deciso, anche se era davvero molto difficile, ci ha sperato di farcela quest’anno, mettendo in moto anche una discreta macchina di pressione. Ci riproverà il prossimo anno, probabilmente.

Comunque, il premio è andato invece a María Corina Machado, una politica a capo dell’opposizione in Venezuela. Nel consegnare il premio il Presidente della commissione per il Nobel fa tutto un discorso sull’importanza di assegnare il premio a chi difende la democrazia in un periodo in cui le democrazie nel mondo sono in pericolo e sotto assalto, che le democrazie sono la base per una pace duratura ma che stanno retrocedendo per far spazio a governi autoritari e violenza. A chi si riferiva? Non certo al Venezuela, dove il regime di Maduro va avanti da diversi anni, e prima di lui quello di Chavez. Insomma difficile non cogliere una frecciatina perlomeno anche Trump!

Solo che poi Machado, scopre di aver vinto il premio e come prima cosa pubblica un post su X in cui scrive “I dedicate this prize to the suffering people of Venezuela and to President Trump for his decisive support of our cause!” Cioè, in pratica ha dedicato il Nobel a Trump, che da qualche settimana sta facendo una sorta di escalation, non esattamente pacifica fra l’altro, con il Venezuela. Insomma, un paradosso.

In tutto ciò, a poche ore dall’assegnazione del Nobel, sono iniziati a uscire un po’ di articoli, compreso uno su ICC, che descrivevano questa vincitrice, che insomma è una figura perlomeno controversa. Vi leggo alcuni estratti del pezzo di Chiara Fanti su manifesto, che è uno di quelli più critici ed espliciti. 

“Ha compiuto un’impresa davvero degna di nota il Comitato per il Nobel norvegese: assegnando il più importante premio per la pace al mondo a María Corina Machado, è riuscito quasi – e ce ne voleva – a cancellare il sollievo per il suo mancato conferimento a Donald Trump, allungando la lista già piuttosto lunga di personalità, da Kissinger a Obama, premiate con totale demerito. Perché con la pace la leader estremista, la prima venezuelana e la sesta personalità latinoamericana a ricevere il riconoscimento, non ha proprio nulla da spartire.

Più avanti la giornalista definisce la neoNobel una “amica del Likud (il partito di Netanyahu) : «Oggi tutti noi che difendiamo i valori dell’Occidente stiamo a fianco di Israele, un genuino alleato della libertà», scriveva nel 2021, per poi auspicare tre anni dopo il trasferimento dell’ambasciata venezuelana a Gerusalemme.

UN PREMIO al momento giusto: quello in cui gli Stati Uniti, impegnati in un «conflitto armato» con i cartelli della droga nel Mar dei Caraibi, minacciano, con la convinta benedizione della neopremiata, di attaccare militarmente obiettivi legati al narcotraffico anche all’interno del territorio venezuelano, chiudendo ogni canale diplomatico con Caracas. 

Trump «non sta giocando», aveva dichiarato lei tutta contenta alla fine di agosto in un’intervista a Fox News dal suo nascondiglio segreto, definendo il governo Maduro «una struttura criminale» decisa ad «usare il Venezuela per canalizzare tonnellate di droga destinate al mercato statunitense».

Per poi concludere: “MA SE MARICORI È ARRIVATA fin lì lo deve soprattutto a Maduro: è grazie a lui, alla sua deriva autoritaria, alla sua contestatissima e mai dimostrata vittoria alle presidenziali e alla repressione disposta dal suo governo nei confronti di difensori dei diritti umani, giornalisti, attivisti sociali, cooperanti come il nostro Alberto Trentini ed esponenti politici tanto di destra quanto di sinistra, se a Oslo qualcuno ha potuto pensare a lei come a una fonte di ispirazione per i difensori della libertà”.

Insomma, figura molto controversa, il cuimerito è certamente quello di opporsi a un regime autoritari, senza però – e questa è una pecca non da poco – rappresentarne una valida alternativa. 

In Perù tè successo nel giro di poche ore. Giovedì mattina il Parlamento ha avviato la procedura di impeachment e poco dopo la mezzanotte destituito la premier Dina Boularte. Quattro mozioni di sfiducia, tutte approvate con una maggioranza larghissima, trasversale. Il minimo di voti favorevoli è stato 113 su 130. Ne bastavano 87. Insomma, un Parlamento raramente così unito.

Ma perché l’hanno cacciata? Il motivo dichiarato è “incapacità morale permanente”. Una formula ampia, che in questo caso includeva diversi elementi: l’inefficacia nel contrastare la criminalità organizzata – che in Perù sta diventando un problema enorme –, uno scandalo legato a degli orologi di lusso, e perfino una decina di giorni di assenza nel 2023 per un intervento di chirurgia estetica, durante i quali non avrebbe informato il Parlamento.

Mentre era in corso il dibattito, Boluarte è stata convocata d’urgenza per difendersi ma ha rifiutato di presentarsi. Il suo avvocato ha detto che le hanno dato solo 50 minuti di preavviso. Troppo pochi, secondo lui, per preparare una difesa dignitosa. E così è stata destituita.

La cosa interessante è che a votare la sfiducia non sono stati solo i partiti di opposizione, ma anche quelli che fino a ieri la sostenevano, compresi i partiti di destra populista e ultraconservatrice. Segno che il malcontento era davvero trasversale.

Boluarte era salita al potere nel dicembre 2022, dopo la rimozione di Pedro Castillo, il presidente marxista che aveva tentato un colpo di stato. Alle elezioni del 2021 faceva parte di Perù Libero, lo stesso partito di Castillo, quindi di sinistra quasi socialista, da cui però è stata espulsa nel 2022. Da allora, e durante la sua presidenza, ha adottato politiche di destra, alleandosi anche con formazioni di estrema destra e mostrando una certa spregiudicatezza politica.

Da tempo però i suoi livelli di consenso tra la popolazione erano bassissimi: secondo un sondaggio di fine settembre, più del 93 per cento dei peruviani disapprovava il suo operato. Su questo giudizio ha pesato in particolar modo la risposta del governo all’aumento dei crimini violenti, giudicata inefficace.

Il problema è che la situazione sociale nel paese nel frattempo è esplosa. Gli omicidi su commissione sono aumentati, le estorsioni anche. Solo nei primi dieci mesi del 2025 sono stati assassinati 180 dipendenti del trasporto pubblico e di piccole imprese, spesso per essersi rifiutati di pagare il pizzo. E quando pochi giorni fa è stata attaccata una delle band più famose del Perù, Agua Marina, durante un concerto, con cinque feriti, l’opinione pubblica ha avuto la netta sensazione che il governo non avesse più il controllo.

A questo si aggiunge la repressione delle grandi proteste sociali che c’erano state nel 2022-2023, in cui sono morti 50 manifestanti, e già ai tempi il consenso della presidente che era crollato sotto al 7%. 

Cosa succede adesso? Ieri, come previsto dalla Costituzione, il presidente del Parlamento José Jerí ha assunto l’incarico di presidente ad interim. Le prossime elezioni sono previste per aprile 2026.

Allora, la situazione in Francia sta diventando piuttosto paradossale. Lunedì scorso il primo ministro Sebastien Lecornu si era dimesso a meno di un mese dall’incarico e il giorno dipo aver formato un governo. Ne avevamo parlato abbastanza a lungo nella puntata del 7 ottobre. 

Dicendo che a quel punto il presidente Macron aveva tre opzioni: nominare un nuovo primo ministro, indire elezioni anticipate – ma in un momento in cui l’estrema destra del Rassemblement National è nettamente prima nei sondaggi; oppure dimettersi. 

Ha scelto una quarta opzione. Nominare di nuovo Lecornu. Una scelta diciamo a sorpresa, visto che il suo governo era imploso in meno di un giorno dalla presentazione e che, secondo i giornali francesi, aveva detto a Macron di non avere intenzione di riprovarci.

A quanto pare Macron ha insistito molto, Lecornu ha dichiarato di aver accettato per senso di responsabilità. Ma destra e sinistra hanno già detto che proveranno da subito a sfiduciarlo. La scommessa di Macron è che Lecornu riuscirà a formare un governo almeno per il tempo necessario ad approvare la legge di bilancio 2026, quella su cui sono caduti tutti e 3 i premier che ci hanno provato nell’ultimo anno. E che sta diventando un problema grosso. Vedremo.

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