Nepal, Francia, Regno Unito: proteste, ma diverse – 15/9/2025
Dalle proteste in Nepal che hanno fatto cadere il governo, alle piazze francesi e britanniche, fino all’ultima tappa della Vuelta interrotta da manifestanti pro Palestina: è stato un settembre segnato da mobilitazioni di massa in tutto il mondo.
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Fonti
#Nepal
GreenMe – Gen Z Nepal ripulire le strade (e dà una lezione al mondo): “la nostra lotta non è vandalismo”
Il Post – Chi sono i giovani che protestano in Nepal
RaiNews – Si è dimesso il premier nepalese Oli, pesano le accuse di corruzione e blocco dei social
#Francia
Il Post – Chi è Sébastien Lecornu, nuovo primo ministro francese
Il Post – Le proteste in Francia contro la legge di bilancio
#Regno Unito
Il Post – La grande manifestazione contro l’immigrazione a Londra
#Vuelta di Spagna
Italia che Cambia – La Vuelta si ferma per le proteste pro Palestina
Trascrizione episodio
Breve video proteste Nepal
Quello che avete ascoltato o visto è un breve estratto di quelle che sono state le gigantesche proteste degli scorsi giorni in Nepal. Proteste gigantesche e violente, partite apparentemente all’improvviso – anche se in realtà non è proprio così – e finite con una scena surreale e quasi commovente. Ma andiamo con ordine.
Tutto è iniziato con una legge del governo che limitava l’uso dei social network – TikTok, Instagram, WhatsApp –. Una misura giustificata dal governo con la motivazione di voler combattere le fake news e l’odio online ma che secondo molto era l’ennesimo tentativo di controllare la libertà di espressione, in un Paese dove la fiducia nei confronti della politica è ai minimi storici.
Sì, perché prima ho detto che tutto è iniziato con questa legge? Ecco, è vero solo in parte, un po’ perché nella matassa intrecciata della storia in cui ogni cosa porta a una successiva è difficile definire con precisione dove inizia qualcosa esattamente, un po’ perché anche a volerlo fare, non potremmo non includere nel nostro racconto una serie di fatti avvenuti prima, molto prima.
In Nepal c’è un malcontento che covava da anni. Il Nepal è un Paese piccolo, incastonato tra India e Cina, ai piedi dell’Himalaya, famoso per le montagne ma segnato da profonde disuguaglianze sociali ed economiche. È una repubblica parlamentare solo dal 2008, dopo l’abolizione della monarchia, ma da allora ha conosciuto una grande instabilità politica: governi che cadono quasi ogni anno, corruzione diffusa, una classe dirigente percepita come distante e privilegiata.
Un quarto della popolazione vive sotto la soglia di povertà, e molti giovani – spesso formati grazie ai soldi mandati a casa dai genitori emigrati – sono costretti a loro volta a partire per lavorare all’estero. Intanto, i figli di politici e funzionari postano sui social foto in resort di lusso, auto sportive, abiti firmati. Ecco, immaginate questo livello di frustrazione.
Così, quando il governo ha provato a chiudere i social, la reazione è stata immediata e furiosa: il Parlamento è stato assaltato, incendiato, insieme alla Corte Suprema, alle sedi dei partiti, a redazioni di giornali e alle case di vari politici, incluso il primo ministro Sharma Oli, che si è poi dimesso. Il numero delle vittime è salito a oltre 30, ci sono stati scontri anche nelle carceri, con centinaia di detenuti evasi.
Video condivisi sui social mostrano i manifestanti picchiare il leader del Partito del Congresso, di centrosinistra, principale forza politica del paese, l’ex primo ministro Sher Bahadur Deuba, così come sua moglie, Arzu Rana Deuba, ex ministra degli Esteri. La loro abitazione è stata incendiata e alcuni media locali e indiani riferiscono che la donna sarebbe deceduta nel rogo, ma la notizia non è al momento confermata.
Tra i manifestanti c’erano soprattutto giovani, molti in divisa scolastica o universitaria, altri travestiti da personaggi di One Piece, il celebre anime giapponese, il cui protagonista combatte per la libertà contro un sistema corrotto.
Si era già visto in Indonesia nelle proteste di questo agosto, che vanno avanti tuttora, in cui – anche lì – i manifestanti chiedono cose simili, tipo la rimozione degli extra-benefici per i parlamentari, trasparenza, fine dell’impunità per gli abusi della polizia.
Un’altra ispirazione importante, anzi forse la più importante per i e le giovani nepalesi, è arrivata da vicino: ovvero dal Bangladesh, dove qualche mese fa proteste simili hanno portato alle dimissioni della prima ministra Hasina. I nepalesi si sono lasciati ispirare dai vicini, hanno seguito con attenzione quel movimento, si sono organizzati online – in particolare su Discord – e hanno deciso di provarci anche loro.
Le proteste hanno avuto un impatto gigantesco. La legge anti social è stata ritirata quasi subito, ma non è bastato a placare il fuoco che era ormai deflagrato, innescando un effetto a catena che ha portato infine allo scioglimento del Parlamento. A marzo prossimo si voterà. Intanto il coprifuoco è stato annullato e a ricoprire il ruolo di premier ad interim ad interim è stata eletta, su suggerimento proprio dei manifestanti, Sushila Karki, ex presidente della Corte Suprema, nonché prima donna a ricoprire tale ruolo.
Insomma sono proteste che sono deflagrate e che non hanno lesinato anche il ricorso alla violenza, quindi piene di contraddizioni, come tutte le proteste. Ma l’aspetto più suggestivo per me, che fa da perfetto contraltare alle immagini del parlamento che brucia è l’immagine riportata dai giornali locali il giorno dopo. In tantissimi/e fra i e le manifestanti hanno scelto infatti di ripulire le strade dai detriti degli scontri, davanti al Parlamento bruciato. Di prendere una scopa in mano e spazzare via tra i vetri rotti e le macerie. Un gesto simbolico devo dire molto potente, che mostra, credo, una sorta di maturità di un movimento pur molto giovane, la volontà di costruire e non solo di distruggere.
Ma è stato un settembre caldo di proteste in tante altre parti del mondo. In Francia il 10 settembre ci sono state delle enormi manifestazioni contro una proposta di legge di bilancio che prevedeva grossi tagli alla spesa pubblica. Decine, forse centinaia di migliaia di cittadini e sindacati hanno aderito al movimento che chiedeva di “bloccare tutto”.
Il contesto di partenza qui è quello di una profonda crisi politica. Martedì sera il presidente Macron, sempre più impopolare, ha nominato un nuovo primo ministro, Sébastien Lecornu, dopo che l’Assemblea Nazionale aveva sfiduciato il precedente premier François Bayrou per via del caos sulla legge di bilancio del 2026.
Una legge contestata da sindacati, opposizioni e una buona fetta della popolazione, perché prevede tagli drastici alla praticamente tutta la spesa pubblica – con l’unica eccezione, guarda guarda un po’, della spesa militare che invece aumenta. Il nuovo premier in realtà non si discosta molto dal suo predecessore: è un personaggio noto per essere un buon mediatore ed è apprezzato in maniera abbastanza larga dalla classe politica francese, ma è un macroniano doc, legato a doppio filo al Presidente sempre più odiato in Francia.
Ecco, in questo contesto mercoledì, in oltre 800 città e paesi francesi, centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza sotto la bandiera di quello che il Post racconta come un nuovo movimento, che si chiama “Bloquons tout”, che in francese significa “Blocchiamo tutto”, e che ricorda un po’ nelle modalità i gilet gialli, che animarono sempre in Francia le proteste di qualche anno fa.
Come per i Gilet jaune anche questo movimento non ha leader ed è orizzontale. Ma il profilo dei manifestanti è diverso: più giovane, più politicizzato, spesso proveniente da scuole, università, collettivi, sindacati di base.
Le proteste, che non si sono del tutto placate con il cambio di primo ministro, sono state in gran parte pacifiche, ma non sono mancati momenti di tensione: a Parigi, scontri a Les Halles e incendio in un edificio vicino alla stazione Châtelet; a Caen, fiamme su un ponte per bloccare il traffico; a Bordeaux, barricate nei depositi dei tram; a Rennes, cassonetti dati alle fiamme e un autobus bruciato. E così via. La polizia ha mobilitato 80mila agenti, diverse centinaia di persone sono state arrestate, sono stati chiusi temporaneamente musei, scuole, stazioni, e anche France Inter ha interrotto le trasmissioni.
In tanti, nelle interviste, dicono la stessa cosa: non accettano un sistema che chiede sempre sacrifici agli stessi, mentre protegge i patrimoni miliardari e le grandi imprese. In questo caso però, Macron sembra saldamente ancorato al potere, anche se continua a perdere consenso, e non sembra deciso a cambiare rotta.
Se in Francia queste grosse manifestazioni avevano una chiara matrice popolare di sinistra, quelle altrettanto grandi che ci sono state nel Regno Unito avevano carattere opposto. Sabato pomeriggio infatti, a Londra, e in forma molto più concentrata rispetto alle manifestazioni sparse francesi, si è tenuta una manifestazione imponente contro l’immigrazione, guidata da Tommy Robinson, volto noto dell’estrema destra britannica.
Parliamo di circa 110mila persone che hanno sfilato per le strade del centro gridando lo slogan “Unite the Kingdom”, che era anche il nome della manifestazione nonché un appello all’unità nazionale contro le politiche migratorie, fino a Whitehall, davanti agli edifici del governo.
La mobilitazione ha superato di gran lunga le attese e ha generato momenti di forte tensione, soprattutto quando i manifestanti hanno cercato di raggiungere una contromanifestazione antirazzista, molto più piccola (di circa 5mila persone), che si è trovata accerchiata in alcuni punti.
Dal palco, Robinson ha arringato la folla con altri esponenti dell’ultradestra e – in modo abbastanza surreale – è intervenuto anche Elon Musk in videochiamata.
La cosa interessante è che queste due manifestazioni, quella francese e quella inglese, nascono da spinte relativamente simili. Da un malcontento abbastanza generalizzato causato da un mix di fattori: l’eredità irrisolta della Brexit, che aveva promesso “di riprendere il controllo” ma ha lasciato dietro di sé disillusione e precarietà; la crisi abitativa e l’aumento del costo della vita, che hanno alimentato la percezione che i migranti siano un peso sui servizi pubblici; la sfiducia verso una classe politica screditata da scandali e instabilità; e la capacità della destra radicale, con figure come Tommy Robinson, di usare i social per trasformare rabbia e insicurezza in narrazione politica. Lo slogan “Unite the Kingdom” richiama un po’ questa ricerca di un’unità identitaria attorno a un nemico comune, in un Paese che si sente frammentato, impoverito e culturalmente smarrito.
Ora, parliamone. Perché sotto a tutte queste proteste, credo che si celino all’incirca le stesse emozioni: una profonda rabbia sociale, che a sua volta è frutto di un senso di ingiustizia e una frustrazione nel vedere una discrepanza fra le condizioni di vita promesse/immaginate e quelle reali.
Però vediamo questa rabbia incanalata in modi molto diversi. lo stesso sentimento di fondo può trasformarsi in manifestazioni anti-immigrati a Londra o in scioperi e blocchi contro i tagli sociali a Parigi, o ancora in rabbia contro la classe politica in Nepal. Da cosa dipende la direzione che prende? Questa forse è la domanda più interessante che possiamo farci.
In parte, come per un fiume in piena, credo che dipenda da chi costruisce gli argini e indica la strada: leader politici, media, influencer, narrazioni culturali collettive. Quindi da chi costruisce le narrazioni dominanti in un certo paese. In parte dipende dal fattore scatenante: una riforma con dei tagli allo stato sociale è più probabile che scateni la rabbia in un certo settore della popolazione che in un altro. In parte ancora dalla classe politica al potere in quel momento: le narrazioni delle opposizioni tendono ad essere spesso più potenti perché non devono fare il conto con la realtà e con la mediazione fra ideale e reale. E probabilmente tanto altri fattori.
Chiederselo però è importante, e soprattutto chiederselo in maniera seria, analitica, evitando la risposta facile, di pancia. Perché la rabbia ha anche un potenziale enorme. In sociocrazia si raccomanda di osservare e utilizzare le tensioni, perché laddove c’è una tensione c’è dell’energia inespressa. Con la rabbia avviene più o meno la stessa cosa, è indice di una società viva, di tanta energia, di un potenziale. Pensate se quella stessa energia venisse incanalata in narrazioni costruttive e di cambiamento…
Ci sono un sacco di altre cose di cui parlare, e già domani parleremo di alcune di queste. Ad esempio dell’uccisione dell’influencer e attivista MAGA Charlie Kirk, di cui si sta parlando tantissimo e su cui ci sono un po’ di cose da dire.
E poi della partenza della flotta catanese della Freedom Flotilla. Dei droni russi che hanno violato lo spazio aereo della Polonia, al confine con la Bielorissia, e della risposta europea. Degli Usa che hanno – forse – sequestrato un peschereccio venezuelano e inviato degli F-35 a Porto Rico.
Delle alluvioni in Pakistan, con oltre 2 milioni di sfollati, ma anche della ripresa della cooperazione fra Iran e IAEA sul nucleare, della Norvegia che forse abbandonerà il petrolio, della condanna a 27 anni all’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro, alla prima ministra al mondo fatta con l’IA, in Albania.
Oggi però voglio chiudere con una roba molto potente, che ha ancora a che fare con le proteste, visto che siamo in tema. Ieri c’era l’ultima tappa della Vuelta de Espana, la terza grande corsa a tappe del ciclismo: ma quest’ultima frazione, a Madrid, è stata prima interrotta, poi annullata definitivamente dopo che centinaia di manifestanti pro Palestina hanno invaso il circuito finale.
I corridori si sono fermati a 57 chilometri dal traguardo, scendendo dalle bici, e la gara non è più ripartita. Il danese Anche la premiazione sul podio del vincitore, che è il danese Jonas Vingegaard, è stata annullata per motivi di sicurezza. Già nelle scorse settimane c’erano già state contestazioni contro il team Israel Premier Tech, che ha annunciato di cambiare nome dal 2026. Il premier spagnolo Sanchez ha appoggiato la protesta.
Quello che sta accadendo a Gaza è una roba terribile, impossibile anche da immaginare per quanto è atroce. Però, se vogliamo vedere una delle poche cose positive di questa situazione, è che credo che non si sia mai visto nella storia recente, anzi direi nella storia dell’umanità forse, una mobilitazione e un sostegno su scala così globale per una popolazione vittima di un’ingiustizia. Una popolazione di cui chi protesta, chi manifesta, spesso non conosce personalmente nemmeno una di quelle persone. Eppure c’è come un senso di giustizia che va oltre gli affetti personali e arriva in ogni angolo del globo, aiutato devo dire in questo anche dalle immagini e i video condivisi tramite i social.
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