Il movimento No Kings, lo shutdown: rivincita o collasso degli Usa? – 21/10/2025
Milioni di persone in piazza negli Usa per il movimento No Kings contro Trump; a Gaza si registrano violazioni del cessate il fuoco, e prosegue il racconto della crisi di Auroville.
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Fonti
#NoKings
The Guardian – No Kings protesters on their hopes for resistance movement against Trump: ‘If we lose momentum, we lose the fight’
il manifesto – No Kings, l’esperimento americano è in bilico su un baratro
#Gaza Crisis
Al Jazeera – Live: Trump threatens ‘to eradicate Hamas’ as Israel kills dozens in Gaza
Trascrizione episodio
Nel fine settimana sui social è iniziato a circolare molto rapidamente l’ennesimo video prodotto con l’IA da Donald Trump, in cui il Presidente Usa alla guida di un aereo da combattimento, e con in testa una corona da re, a un certo punto scarica un fiume di letame su dei manifestanti, che vengono letteralmente ricoperti dalla testa ai piedi da escrementi.
Questo video, in realtà, ha portato alla conoscenza di molti europei dell’esistenza di un movimento di massa che sta nascendo negli Usa, un movimento che contesta Trump. È un movimento appena nato, che però sta mobilitando milioni di persone. Si chiama No Kings, letteralmente, nessun re.
Leggo sul Manifesto che sabato Milioni di persone hanno manifestato in centinaia di città in quello che è stato definito il più grande raduno della storia americana, almeno in tempo di pace. La chiamata era una: “No Kings”, nessun re, per ribadire che gli USA sono nati come ribellione contro l’autoritarismo monarchico e che oggi quella stessa minaccia, o qualcosa di molto simile, si sta riaffacciando sotto nuove vesti.
Una delle manifestazioni principali si è svolta a Washington, proprio davanti alla Casa Bianca, dove è stato allestito un palco e si sono alternati a parlare diversi politici, attivisti, scienziati, fra cui Bernie Sanders, Bill Nye e il senatore Chris Murphy.
Secondo molti degli oratori che si sono alternati sul palco Donald Trump starebbe portando avanti un piano preciso di trasformazione degli USA da democrazia costituzionale a regime oligarchico, che si fonderebbe su tre pilastri: una Corte Suprema compiacente, un uso autoritario dell’apparato esecutivo (con decreti presidenziali usati un po’ come fossero editti reali), e un esercito – o meglio, delle truppe scelte – già schierate nelle cosiddette “città nemiche”.
Oltre a Washington, le manifestazioni si sono svolte anche in tante altre città, da Chicago, a Atlanta, a NYC. Molti giornali le stanno descrivendo come un grande segnale di rinascita della sinistra statunitense, ma osservando almeno le notizie che arrivano, ho un po’ di dubbi che sia così, e l’immagine che mi arriva, bipartisan, da destra e da sinistra, è quella di un paese in via di disfacimento.
Non voglio essere drastico ed eccessivo, e mi rendo conto che rischio di essere smentito, ma provo a spiegarvi da dove arriva questa sensazione. Innanzitutto: il contesto interno degli Usa in questo istante è dominato dal cosiddetto shutdown, ovvero dal fatto che da 3 settimane tutti gli uffici federali sono completamente fermi per via del mancato accordo fra democratici e repubblicani sulla legge di bilancio.
Leggo dalla Newsletter da Costa a Costa:
“Da tre settimane il governo della prima superpotenza globale non può accedere ai suoi fondi: quindi non spende se non per i servizi essenziali. Gli sportelli pubblici sono chiusi, i controlli fiscali sono sospesi. Sono sospese anche le ispezioni ambientali, il controllo sulla qualità dell’aria e sui rifiuti. Parchi nazionali, musei e monumenti: chiusi. Edilizia popolare: sospesa. Fondi alle imprese, bandi di ricerca, difesa dei consumatori, formazione del personale, buoni pasto, assistenza previdenziale, visti e passaporti, tutto fermo. I dati sull’economia non vengono raccolti. Gli aeroporti funzionano perché gli addetti alla sicurezza lavorano senza stipendio. Da diciotto giorni”.
Poi Costa spiega che il motivo per cui siamo arrivati fin qui è il mancato accordo fra i dem e rep sulla legge di bilancio, che la Costituzione Usa prevede debba avere un’approvazione bipartisan. E prosegue commentando che al momento, incredibilmente, non c’è nemmeno nessuna trattativa in corso fra i due schieramenti:
Il Congresso è proprio chiuso. I senatori non sono nemmeno a Washington, quasi tutti sono tornati nei loro collegi. Quello che fanno, dalla mattina alla sera, è cercare di convincere gli americani che lo shutdown è gravissimo ma soprattutto che sta avvenendo per colpa di quegli altri, mentre loro non c’entrano niente. E magari hanno pure ragione. Fatto sta che le energie vengono convogliate soltanto in quella attività. Al momento invece non ci sono energie convogliate nel tentativo di risolvere il gravissimo problema.
Trump pensa di avere il coltello dalla parte del manico. Dopo aver passato nove mesi a cercare di smantellare il governo federale, non gli sembra vero che i Democratici lo aiutino a finire il lavoro, spingendosi dove senza uno shutdown non sarebbe potuto arrivare. Ogni giorno che passa, lo shutdown lascia cicatrici più profonde sulla pubblica amministrazione: non sarà possibile scongelare e rimettere in piedi tutti i progetti, bandi, servizi e programmi sospesi con la sospensione dei fondi. E intanto il paese si abitua a una realtà in cui il governo federale non conta.
Tra i dipendenti licenziati ci sono anche quelli dell’ufficio che si occupa di iniziative di pianificazione familiare, programmi di prevenzione delle gravidanze adolescenziali. Ma sono già migliaia, malgrado la solita evoluzione di questo tipo di notizie: lavoratori licenziati, giudice che blocca i licenziamenti, ricorso della Casa Bianca, ce ne vorrà prima di capire come andrà a finire. Perché non ci siano equivoci sulle intenzioni della Casa Bianca, un suo importante funzionario ha detto che il piano è licenziare più di diecimila dipendenti pubblici.
I Democratici speravano di usare lo shutdown per ottenere una vittoria politica: convincere Trump a ripristinare i fondi che ha tagliato alla sanità pur di far passare una legge di bilancio, oppure intestargli i disservizi, il malcontento e le conseguenze dello shutdown. Idealmente, entrambe le cose: prima fargli male, poi costringerlo a trattare. Lo sperano ancora, e non è detto che alla fine non ci riescano. Ma al momento, per l’appunto, Trump si gode il colpo di grazia al governo federale senza percepire alcun dolore. Ed è convinto che saranno i Democratici, a un certo punto, a implorarlo di trattare.
Intanto si tiene indaffarato con tutt’altro: il governo federale ha finito i soldi e il presidente degli Stati Uniti eletto con la promessa America First si occupa di altre questioni, passa le sue giornate tra l’Air Force One e le grandi capitali, firma accordi internazionali, cambia fusi orari, incontra capi di stato e di governo. Un simile impegno internazionale potrebbe renderlo vulnerabile in politica interna, ma anche su quel fronte Trump sta riuscendo a tenersi in piedi.
Insomma, quella Usa sembra una società ormai completamente lacerata e difficile da guarire, passatemi il termine. E che si rifugia in narrazioni autoreferenziali. Perché come fa notare il giornalista Gabriele Battaglia dal suo profilo Facebook, è un movimento che, leggo “non dismette – e anzi rilancia come antidoto al trumpismo – il proprio maledetto eccezionalismo”, cioè in altre parole si rifanno alla narrazione dell’eccezionalità degli Usa, al passato glorioso, al fatto che si sono ribellati ai colonizzatori, che non si sono lasciati sottomettere, al mito della libertà e tutto il resto.
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Insomma, sembra un po’ una reazione al trumpismo, che però ha in comune col trumpismo un’idea idealizzata di Paese come eccellenza assoluta, come leader mondiale indiscusso, una visione che non trova più riscontro in un mondo sempre più multipolare. Poi non è detto, come prosegue lo stesso Battaglia, che da lì dentro non possa nascere qualcosa di realmente interessante e alternativo. Al momento, non sembra sia così.
Intanto il cessate il fuoco a Gaza sembra molto fragile al momento. Il governo israeliano e Hamas si sono accusati a vicenda di ripetute violazioni degli accordi. Difficile capire da qui, a distanza, chi abbia ragione e chi torto, anche se c’è un dato riportato da hamas e confermato da altre fonti indipendenti, secondo cui l’esercito israeliano avrebbe ucciso almeno 97 palestinesi e feriti 230 dall’inizio del cessate il fuoco.
Che quindi, ecco, non è che stia proprio funzionando. Insomma, sembra che la strage stia in realtà continuando, e che forse l’unico risultato concreto ottenuto dall’accordo sia che i giornali hanno smesso di parlarne. E invece è importante continuare a parlarne.
Rieccoci con una nuova puntata di aurocrisis. Oggi parliamo di soldi ed economie di Auroville, con Marcol Saroldi.
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