Perché proprio per la Palestina? Cronaca e riflessioni di una giornata in piazza – 22/9/2025
Centinaia di migliaia di persone hanno manifestato ieri in tutta Italia in solidarietà con la Palestina. Una riflessione sul significato dello sciopero.
Questo episodio é disponibile anche su Youtube
Fonti
#Palestina
Il Post – Cosa vuol dire riconoscere la Palestina
Il Post – Il Regno Unito ha riconosciuto ufficialmente lo Stato di Palestina
Italia che Cambia – Cosa è successo nelle piazze italiane in solidarietà alla Palestina
Italia che Cambia – Sciopero generale: la solidarietà con il popolo palestinese passa per le piazze italiane
Fanpage – Guerra a Gaza, diretta del 22 settembre
#relazioni
The Guardian – The big idea: why relationships are the key to existence
Trascrizione episodio
Ieri è stata una giornata di scioperi e manifestazioni in tutta Italia. Una cosa grossa, come non si vedeva da parecchio tempo nel nostro paese. E con la particolarità di essere uno sciopero/manifestazione del tutto altruistico, nel senso che era in solidarietà con la popolazione palestinese, vittima di quello che una Commissione indipendente delle Nazioni Unite ha riconosciuto come un genocidio nella striscia di Gaza.
I numeri in questi casi sono sempre complicati da dare, e a seconda delle fonti differiscono di molto: tendenzialmente gli organizzatori tendono a sovrastimare la partecipazione e la questura a sottostimarla. In questo caso a complicare ulteriormente le cose c’è il fatto che non parliamo di un’unica manifestazione, ma di almeno 75 presidi sparsi in giro per l’Italia. Comunque siamo nell’ordine delle centinaia di migliaia di persone.
In tantissime città italiane, le strade si sono riempite di persone, soprattutto studentesse e studenti, che hanno lasciato le aule per riversarsi nelle piazze e nei cortei. Parliamo di un’ondata di partecipazione molto diffusa, con numeri importanti soprattutto a Bologna, dove è stata addirittura bloccata l’autostrada A14 e la tangenziale, a Roma, con un corteo oceanico partito da Termini, a Milano, dove ci sono stati scontri e cariche in Stazione Centrale, e poi ancora Napoli, Palermo, Cagliari.
Le manifestazioni hanno avuto un impatto molto concreto anche sul funzionamento delle città: in alcune zone i trasporti erano praticamente fermi, con treni cancellati, ritardi, binari occupati; in altre, le scuole e le università hanno chiuso del tutto oppure sono state svuotate dalle assemblee e dalla mobilitazione.
Anche noi abbiamo aderito allo sciopero come Italia che Cambia, e molte e molti di noi hanno partecipato alle manifestazioni nelle proprie città, un po’ come giornalisti un po’ come persone (perché sì, anche i giornalisti/e sono delle persone. A volte. Ancora per un po’, poi non so con l’Ia. ma questo è un altro discorso).
Perciò vi do un assaggio dalle piazze d’Italia, da quelle in cui c’eravamo: questa è Valentina D’Amora da Genova:
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Questo è il nostro Francesco Bevilacqua da Bologna:
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Questa è Lisa Ferreli da Cagliari:
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Questo invece è un messaggio di Andrea da Catania, una testimonianza raccolta dalla nostra Elisa Cutuli:
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A Firenze, la manifestazione a cui ho partecipato io, c’erano diverse migliaia di persone, e a differenza del solito il corteo è partito non dal centro. Anzi, per dirla tutta non era nemmeno a Firenze, ma a Calenzano che è un altro comune che fa parte della Città Metropolitana di Firenze.
La scelta non è stata casuale. Il corteo ha fatto tappa in due luoghi che, messi insieme, raccontano uno spaccato profondo della contemporaneità e del conflitto sociale. Il primo è l’azienda Leonardo, colosso dell’industria bellica italiana, che produce armamenti e sistemi militari ad alta tecnologia ed è tra i fornitori di armi anche per Israele. Davanti alla Leonardo ci sono stati momenti di tensione, con cori e anche qualche lancio di oggetti verso la polizia
Il secondo è la GKN di Campi Bisenzio, ex stabilimento metalmeccanico occupato e autogestito da operai licenziati in tronco nell’estate del 2021, diventato nel tempo un simbolo di lotta operaia, mutualismo e difesa del lavoro. Due poli che rappresentano, in un certo senso, due idee opposte di società: da una parte l’economia di guerra, dall’altra la resistenza dal basso.
Poi nel pomeriggio, la mobilitazione è proseguita a Firenze.
Ora, ci sarebbero tante cose da dire. Però qui vorrei provare a fare un ragionamento su una domanda che serpeggia in rete, fra i commenti e che ci siamo chiesti anche in redazione, quando abbiamo deciso di aderire a questo sciopero. Come mai proprio la Palestina? Come mai manifestare contro questo genocidio, contro questa guerra, quando siamo consapevoli che nel mondo ci sono quasi 60 conflitti armati, alcuni dei quali con conseguenze almeno paragonabili al massacro di Gaza?
Molte volte questa argomentazione è usata in maniera strumentale e fa leva sul bias cognitivo del falso dilemma: ovvero induce a pensare che manifestando in solidarietà con la popolazione palestinese stessimo togliendo qualcosa alle altre popolazioni vittime delle guerre. Cosa che in realtà non è vero, dopo arriviamo anche a questo.
Ma c’è un pezzetto di verità in questa affermazione. Come mai ci commuoviamo e proviamo empatia per i bambini palestinesi e magari non sappiamo nemmeno, ad esempio, che quasi 25 milioni di persone soffrono la fame in Sudan per via della guerra civile, con aree del Darfur dove si è arrivati a livelli di carestia vera e propria?
Credo che alla base ci siano una serie di fattori politici, geopolitici, mediatici e culturali che fanno sì che alcune questioni vengano più raccontate di altre. Ad esempio, se continuiamo in questo confronto, il conflitto israelo-palestinese ha radici antiche, coinvolge potenze globali, tocca questioni identitarie e religiose, coinvolge più direttamente il nostro governo (quindi anche più cavalcabile politicamente) e in più abbiamo molte fonti, centinaia di Ong che operano sul campo, giornalisti occidentali che hanno trascorso anni lì, mentre quello in Sudan è un conflitto opaco, difficile da raccontare, con pochi giornalisti sul campo, poca copertura e una distanza culturale che rende difficile capirne alcune dinamiche.
Però questa spiegazione ci può dire qualcosa ma non tutto. Non ci spiega come mai a un certo punto centinaia di migliaia di persone in Italia decidono di scioperare e manifestare in piazza in solidarietà con una popolazione lontana, di cui spesso non conoscono quasi niente, e di cui magari si disinteressavano fino a qualche settimana prima.
Ecco, quando parliamo di questi numeri, di queste soglie, entra in gioco il concetto di punto critico. Che è una roba che ha a che fare con l’influenza sociale e il potere del contesto. Nel libro Tipping Point, Malcom Gladwell parla di un’epidemia sociale: a un certo punto siamo circondati da persone che pensano certe cose e fanno certe cose e improvvisamente sentiamo anche noi, se ne condividiamo i presupposti, l’impellenza di prenderne parte.
Ed è lì che le cose iniziano a succedere e diventano potenzialmente inarrestabili.
So che questo discorso potrebbe non piacerci, perché suona un po’ come deresponsabilizzante, toglie valore a quello che facciamo come individui. Però, se ci pensate, ne aggiunge a quello che possiamo fare come società. Credo che tutto derivi da una narrazione non del tutto corretta che facciamo di noi stessi.
Ovvero, soprattutto nelle società occidentali, molto individualiste, tendiamo a pensarci come esseri umani singoli, che prendono decisioni e fanno cose sulla base della loro coscienza, etica, convenienza. E ogni cosa di esterno a noi che esercita un’influenza sulla nostra individualità lo viviamo con un certo fastidio, come se qualcuno volesse imporci qualcosa.
Ma gli studi di psicologia sociale mostrano che l’influenza del contesto e delle relazioni è determinante nel determinare quello che pensiamo e quello che facciamo. E non è una roba bella o brutta, giusta è sbagliata. Certo può condurci a cose che ci piacciono o a cose che non ci piacciono. Ma al di ciò, è così che siamo fatti. Siamo esseri profondamente relazionali, siamo molto meno individui di quanto pensiamo.
E vi dirò di più: la nostra lente individualista potrebbe aver influenzato anche il modo in cui osserviamo il mondo, tant’è che alcune delle più recenti interpretazioni della fisica (guardatevi il lavoro del fisico Carlo Rovelli) potrebbero indicare che la realtà stessa è un fatto principalmente relazionale.
Detto ciò, tornando alle altre guerre e alle altre ingiustizie: quindi dobbiamo rassegnarci al fatto che certe questioni saranno sempre più popolari di altre e che a deciderlo saranno dei meccanismi sovraindividuali che non siamo nemmeno in grado di comprendere del tutto? Sì e no.
In realtà, è stato osservato che quando iniziamo ad attivarci per qualcosa, mettiamo contro un’ingiustizia come in questo caso, diventiamo più permeabili, e non meno, alle altre ingiustizie. Questo fenomeno è noto in psicologia come moral expansion: quando ci si identifica con la sofferenza di qualcuno, aumenta la capacità di empatizzare anche con altri soggetti vulnerabili, anche lontani nel tempo o nello spazio.
Tant’è che spesso i grandi movimenti di massa nascono per dei fatti molto specifici, e poi convogliano le energie su decine di altri aspetti, magari arrivando a rovesciare un governo o a creare movimenti globali. Pensate alle Primavere arabe che sono esplose in Tunisia per il caso specifico di Mohamed Bouazizi, ma poi hanno coinvolto decine di Paesi e fatto cadere regimi.
O al movimento Zapatista in Messico, che è partito come lotta indigena ed è diventato simbolo globale di antiglobalismo.
Quindi il fatto che adesso si parli tanto di Palestina potrebbe rendere le persone più predisposte a provare empatia anche per altre popolazioni che soffrono per conflitti ingiusti e sanguinosi.
Nel nostro piccolo, come Italia che Cambia ci siamo detti di provare parlare di più anche degli altri conflitti poco raccontati. Non siamo e non diventeremo un giornale che parla di guerre nel mondo. Il nostro focus rimane il giornalismo ecologico e costruttivo. Quindi non lo faremo quotidianamente, ma lo faremo, e lo faremo a modo nostro.
Vabbé, ormai facciamo una puntata dedicata. Comunque, il fatto che sulla questione si siano superati punti critici è mostrato anche dalla rapidità con cui molti stati stanno riconoscendo uno dopo l’altro lo Sttao di Palestina. Solo negli ultimi giorni lo hanno fatto Regno Unito, Canada, Australia e Portogallo. E anche la Francia e il Belgio hanno annunciato che lo faranno a breve.
Attualmente la Palestina è riconosciuta da oltre 150 paesi nel mondo — ma è significativo che a farlo ora siano paesi europei, e quindi vicini all’alleato storico di Israele.
Come spiega il Post però si tratta di un gesto soprattutto politico e simbolico, che isola ulteriormente il governo Netanyahu e sposta l’equilibrio del dibattito internazionale. Ma che non cambia le condizioni materiali dei palestinesi a Gaza o in Cisgiordania, almeno non nel breve termine.Nella pratica significa aprire canali diplomatici formali, scambiarsi ambasciatori, stringere o rivedere accordi commerciali, e ammettere il nuovo stato come interlocutore nelle organizzazioni internazionali. Chi riconosce la Palestina, ad esempio, lo fa attraverso l’Autorità Nazionale Palestinese, che però al momento è una organizzazione piuttosto evanescente e governa solo una parte della Cisgiordania.
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