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17 Luglio 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Cosa c’è davvero nel piano di decarbonizzazione del governo per l’ex Ilva di Taranto? – 17/7/2025

Potrebbe esserci poco di concreto ed essere un modo per oliare l’approvazione dell’AIA, prevista per oggi. Parliamo anche di due uomini finiti in carcere per un albero.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
ex ilva decarbonizzazione

Questo episodio é disponibile anche su Youtube

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Trascrizione puntata

Lunedì, il 14 luglio il ministro delle Imprese Adolfo Urso ha presentato la prima bozza del Piano di decarbonizzazione dell’ex Ilva. Un piano che, secondo l’idea del ministro, andrebbe messo in piedi entro otto anni, con la realizzazione di quattro forni elettrici – tre a Taranto, uno a Genova – e quattro impianti di preriduzione dell’acciaio (Dri), poi vi spiego cosa sono, il tutto da completare entro il 2033. 

Facciamo un passo indietro. Siamo a Taranto ovviamente e parliamo di uno degli impanti industriali più inquinanti e discussi d’Italia. È difficile capire che cos’è l’Ilva per i tarantini, è questa sorta di montagna d’acciaio e fumo che abita la città da decenni, una fabbrica così grande da sembrare un pezzo di paesaggio, una periferia che ha inghiottito il centro.

Che ha dato lavoro a intere generazioni, ma lo ha fatto come in un patto faustiano: in cambio ha portato polveri sottili, tumori, lutti, aria irrespirabile e un senso costante di impotenza. A Taranto, ci sono bambini che giocano sotto ciminiere che sputano ferro, e quartieri – come Tamburi – dove la polvere rossa entra nelle case, si posa sui balconi, si infila nei polmoni.

C’è chi, in quella fabbrica, ci ha passato tutta la vita, e chi la vita ce l’ha persa. Difficile che a Taranto qualcuno non abbia storie personali o di familiari che si sono ammalati a causa dell’Ilva. Da anni ci sono tentativi di farla chiudere, denunce, tentativi di conversione, bonifica, ma finora ogni tentativo sembra essere rimbalzato addosso alla fabbrica. La popolazione è esausta.

Adesso però il governo si fa avanti con questa proposta per rendere l’ex Ilva più ecologica. Un piano di decarbonizzazione è un piano per azzerare le emissioni di Carbonio, che è l’atomo responsabile del cambiamento climatico. Sarebbe la C di CO2, l’anidride carbonica, è presente anche nel Metano e in tutti i gas climalteranti. Azzerare le emissioni significa raggiungere le emissioni nette zero, il cosiddetto net 0, o neutralità carbonica. 

Insomma, in teoria è una buona cosa. Ma vediamo in cosa consiste:

Leggo sul Corriere che sono “previsti progressivamente tre forni elettrici a Taranto e uno a Genova. Quindi – e qui si cita il monistro – «nella prima fase di decarbonizzazione avremmo 8 milioni di tonnellate di acciaio, 6 per Taranto e 2 per Genova. Nei primi quattro anni avremo un forno elettrico a Taranto e uno a Genova per 4 milioni di tonnellate di acciaio, e mantenendo a Taranto 2 altiforni altri 4 milioni. Dopo sei anni, cambia l’equilibrio: 6 milioni di tonnellate da forno elettrico e 2 da altoforno. Poi, dopo altri due anni, 8 milioni solo con i forni elettrici». 

Insomma, l’idea è di spostare la produzione via via verso i forni elettrici ad arco, che sono una tecnologia nettamente migliore sia dal punto di vista climatico che sanitario. Se alimentati con elettricità da fonti rinnovabili, possono avere un impatto molto basso in termini di emissioni di CO₂. E anche sul piano della salute pubblica rappresentano un miglioramento, perché evitano la combustione del carbone coke, che negli altiforni è una delle principali fonti di polveri sottili, metalli pesanti e inquinanti atmosferici.

Detto questo, parliamo comunque di industria pesante, e la produzione di acciaio non diventa per magia un processo pulito. Restano inquinanti legati alla lavorazione, alle scorie, alle movimentazioni, e soprattutto alla produzione del ferro con cui si alimentano i forni elettrici.

Ok, devo farvi una piccola parentesi tecnica, necessaria per capire. Questi giganteschi forni elettrici in cui si fonde il ferro per produrre l’acciaio vengono alimentati con un tipo di ferro particolare che si chiama ferro preridotto o DRI. Il ferro preridotto è un ferro che viene processato a basse temperature e a cui viene sostanzialmente tolto l’ossigeno attraverso l’utilizzo, però, di un gran quantitativo di gas. Quindi metano, o idrogeno sostanzialmente. 

E essendoci di mezzo il gas, ci sono comunque delle emissioni di CO2, che sono minori ma comunque ci sono. Tant’è che il piano del ministero prevede di catturare la CO₂ prodotta attraverso dei sistemi cosiddetti co di CCS (cattura e stoccaggio di Carbonio).

Poi vabbé, la bozza di piano del ministro presenta due opzioni, una con la presenza anche di una nave rigassificatrice a Taranto, che servirebbe proprio a fornire il gas necessario a questo processo, l’altra senza, ma non vorrei scendere così nel dettaglio sennò ci perdiamo la figura macro. Per ora accontentiamoci di dire che l’obiettivo del piano è – in teoria – azzerare le emissioni di CO2 dell’acciaieria, continuando però a produrre acciaio, tanto acciaio, fino a 8 milioni di tonnellate di acciaio all’anno. E continuando a garantire l’occupazione. 

Ora, perché continuo a dire “in teoria?”. perché non tutti sono convinti che questo piano sia realistico. Anzi nemmeno che questo piano sia quello che dice di essere. A sollevare dubbi, come spesso è accaduto in questi anni per tutto ciò che riguarda l’ex Ilva di Taranto, è ancora una volta Alessandro Marescotti, presidente di PeaceLink, da anni in prima linea sulle questioni ambientali di Taranto. Marescotti punta il dito innanzitutto sulla vaghezza dei dati sui livelli occupazionali e sulle emissioni: si parla genericamente di “cattura della CO₂”, ma i conti non tornano. 

La tecnologia prevista sostiene marescoti, trattiene solo 1,5 milioni di tonnellate di CO₂ l’anno, mentre le emissioni complessive – solo per produrre 2 milioni di tonnellate di acciaio – sono pari a 2,9 milioni. E se si punta a 8 milioni di tonnellate, le emissioni residue salirebbero a 5,6 milioni di tonnellate l’anno. Una quantità enorme. Insomma, in parole povere non si potrebbe nemmeno parlare di piano di decarbonizzazione, al limite di piano di riduzione delle emissioni.

E poi c’è il lavoro: la chiusura dell’area a caldo – prevista nella transizione – coinvolgerebbe 5.000 addetti, sostituiti da impianti molto più automatizzati. Insomma, il piano promette occupazione ma rischia di tagliarla. Che magari è inevitabile eh, però anche su questo il piano è perlomeno poco chiaro.

Tutti questi punti fanno sorgere a Marescotti un dubbio. Non è che il piano è una sorta di specchietto delle allodole? Secondo lui, il piano potrebbe essere una manovra politica per far firmare al sindaco di Taranto un Accordo di Programma, e poi usare quell’accordo per rendere più facile l’approvazione dell’AIA – l’Autorizzazione Integrata Ambientale, ovvero la “licenza” che consente agli impianti industriali più inquinanti di operare entro certi limiti.

Sì lo so, è complicato, ma provate a seguirmi. Perché l’AIA è un pezzo fondamentale di questa faccenda. In pratica l’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) è un documento che definisce i limiti e le prescrizioni ambientali per l’impianto.

Serve a regolare l’attività dell’ex Ilva e a stabilire cosa dovrà rispettare l’eventuale nuovo acquirente dell’impianto (che sì, fra le altre cose è in cerca di acwquirenti).

L’ultima AIA risale al 2011 ed è scaduta da due anni: va quindi rinnovata con nuove regole. E la data per rinnovare questa Aia è fissata per… oggi! Solo che l’AIA che dovrebbe essere approvata oggi non contiene obblighi concreti sulla decarbonizzazione, ma solo la richiesta che il gestore presenti entro un anno un piano per sostituire carbone e gas fossili.

E quindi l’ipotesi di Marescotti è che il ministero abbia presentato questo piano di decarbonizzazione molto vago, per far vedere che c’è l’intenzione di decarbonizzare, e intanto farsi approvare l’AIA che permette all’impianto di continuare a produrre e soprattutto di essere venduto. E poi chi vivrà vedrà.

A questo quadro si è aggiunto un aggiornamento importante arrivato martedì, il 15 luglio. Uno spiraglio di speranza: dopo un incontro al Ministero, si è deciso di rinviare la decisione finale sul piano di decarbonizzazione al 31 luglio e di istituire una commissione tecnica per approfondire le opzioni. Una piccola vittoria, secondo Marescotti, frutto della mobilitazione civile.

Il problema è che oggi, 17 luglio, resta fissata la Conferenza dei Servizi per l’approvazione dell’AIA. Marescotti lancia su questo un appello al sindaco di Taranto: gli chiede di chiedere tempo, scrivere un parere sanitario chiaro, motivato, e – se serve – dire no. Perché, dice, approvare in fretta un’AIA ancora centrata sul carbone e priva di garanzie ambientali, significherebbe condannare Taranto a nuovi anni di inquinamento e malattie. Domani ci aggiorniamo.

In Inghilterra due uomini sono finiti in carcere per aver abbattuto un albero. È una roba a cui non ho trovato dei precedenti giuridici. Ovviamente non parliamo si un albero qualsiasi ma di un albero secolare e molto famoso, il più fotografato d’Inghilterra, il Sycamor Gap tree, noto anche come Albero di Robin Hood. 

Siamo sul Guardian, articolo a firma di Mark Brown, che racconta che questo albero, bellissimo, incastonato tra i muretti del Vallo di Adriano, in Inghilterra, era diventato uno dei simboli paesaggistici più fotografati del Regno Unito. Fino a che nel 2023, due uomini – Daniel Graham e Adam Carruthers – l’hanno abbattuto con una motosega, nel cuore della notte. E adesso, due giorni fa, sono stati condannati a 4 anni e 3 mesi di carcere.

Non è solo per l’albero in sé – che comunque era lì da fine ‘800 e nel tempo era diventato un posto speciale, dove la gente andava a spargere le ceneri dei propri cari, a fare proposte di matrimonio, o semplicemente sedersi a guardare il paesaggio – ma anche perché nella caduta ha danneggiato una parte del Vallo, che è patrimonio Unesco.

Però sembra che il punto principale sia proprio l’albero. Durante il processo, fra l’altro, è emerso che i due avevano pianificato l’azione. Avevano guidato per 40 minuti, portato con sé l’attrezzatura, camminato altri 20 minuti per arrivare sul posto, e filmato tutto con lo smartphone. Non proprio un gesto impulsivo, ecco. La giudice ha parlato di “bravata” cercata apposta, forse per un po’ di notorietà. Il procuratore l’ha definita “l’equivalente arboreo di un atto vandalico”.

Entrambi gli accusati hanno negato le accuse, nonostante il video e le prove evidenti. L’albero era gestito dal National Trust e “apparteneva al popolo”, ha detto in aula uno dei responsabili dell’ente. La giudice ha aggiunto che i due sembravano quasi compiaciuti dell’attenzione ricevuta. Anche se poi, mentre il processo andava avanti, uno dei due uomini, Graham, ha tentato il suicidio ed è stato tenuto in custodia cautelare “per la sua stessa sicurezza”, secondo il suo avvocato.

Insomma, un caso che porta con sé tanti significati e interrogativi, sia sulle motivazioni, che sono ancora poco chiare, sia in quanto si crea un precedente giuridico, nel senco che è la prima volta che si finisce in carcere per aver abbattuto un albero nel Regno Unito e anche in altri paesi – per quel che ho trovato – ci sono state multe e condanne minori per casi simili.

E anche qui, un po’ come per la puntata sugli allevamenti di martedì, si apre una riflessione sul cosiddetto antropocentrismo. Nel senso: cosa stiamo condannando così severamente? L’abbattimento senza motivo di un albero centenario? O l’abbattimento senza motivo di un albero centenario che le persone amavano fotografare? Vogliamo garantire il diritto agli alberi di non essere abbattuti o stiamo tutelando il legame affettivo delle persone con quell’albero e i tanti selfie dei turisti?

Non voglio fare il puntiglioso, ma più osserviamo queste cose succedere, e per fortuna lo vediamo e lo vedremo sempre più spesso, più ha senso farsi queste domande. Credo.

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