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29 Maggio 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Piano SAFE, l’Europa fa sul serio su riarmo (oppure no?) – 29/5/2025

L’Europa si riarma, la Colombia riconosce l’autogoverno indigeno, in Sicilia si tutela il l’aborto, il WWF si mobilita contro la caccia e l’Irlanda boicotta Israele.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
safe readyness Eu

Questo episodio é disponibile anche su Youtube

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Martedì il Consiglio dell’UE ha approvato formalmente il programma SAFE – che sta per Security Action for Europe – un gigantesco piano di investimenti militari da 150 miliardi di euro. Ed è il primo passo concreto del famoso piano di riarmo europeo. 

Piano di riarmo che è un progetto più ampio, che si chiamava inizialmente ReArm Europe, poi ribattezzato Readiness 2030, per farlo suonare meno spaventoso. E che ora partorisce una sua prima legge concreta, con fondi stanziati e tutto il resto che appunto si chiama SAFE, termine ancora più rassicurante (in inglese significa sicuro). 

Solo che poi il piano in sé tanto safe non è. E non solo dal punto di vista delle armi. È un piano da 150 miliardi di euro, che sono tanti soldi e che verranno raccolti facendo debito comune, cioè con obbligazioni emesse direttamente dalla Commissione Europea. Un po’ come era stato fatto con il Recovery Fund, quello post-pandemia.

Ma questi soldi raccolti collettivamente dall’Ue saranno erogati poi come prestiti a lungo termine ai singoli stati. E quindi vanno restituiti. In pratica ogni stato membro, raccontano i giornali, dovrà presentare dei progetti per accedere ai finanziamenti. E i progetti dovranno essere condivisi almeno da due paesi, per incentivare l’interoperabilità, ovvero il fatto di usare armi e strumentazione che sia compatibile e utilizzabile da più di uno stato.

C’è però una deroga: per un tempo limitato, anche un singolo stato potrà ricevere fondi se lo richiede l’“attuale situazione geopolitica”. Leggi: la guerra in Ucraina e la crescente instabilità internazionale.

Altro aspetto: SAFE non si ferma ai soli stati membri. Potranno partecipare anche paesi extra Ue, purché facciano parte del gruppo più esteso chiamato EEA-EFTA, il che significa anche Norvegia, Islanda, Liechtenstein, l’Ucraina (cosa non da poco, che fra l’altro arriva mentre la Russia ieri annuncia che presenterà il suo memorandum per la pace a Istanbul il 2 giugno, fra lo scetticismo generale), e persino paesi candidati all’ingresso nell’UE, come la Turchia, la cui industria bellica è ritenuta fondamentale per l’Europa. Anche il Regno Unito – che ha una partnership di sicurezza con l’Unione – potrà vendere armi nell’ambito di questo programma. E il Regno unito è l’unica potenza nucleare europea insieme alla Francia.

In tutto ciò c’è un limite. Almeno il 65% del valore dei contratti dovrà restare in casa, cioè andare a aziende dell’Unione Europea

Ora, che dire. L’Europa sembra iniziare a fare sul serio in termini di riarmo, ma dobbiamo intenderci su cosa intendiamo per “fare sul serio”. Perché il divario di industria bellica fra le superpotenze mondiali come Stati Uniti, Russia e ormai anche Cina e Ue, è gigantesco. E oltre agli ovvi dubbi etici sull’idea che per essere più sicuri si debba armarsi di più, concetto piuttosto discutibile, diversi analisti hanno dubbi sul fatto che questo piano sia militarmente credibile. 

E forse una chiave di lettura, come proponeva tempo fa Alessandro Volpi su Altreconomia, è che tutta questa operazione sia più un piano industriale per attirare investimenti e capitali, che una roba pensata veramente per andare a far la guerra. Oppure sono vere entrambe le cose. Difficile a dirsi, anche perché spesso nella realtà complessa delle società umane i fini si mescolano, cambiano nel tempo, si evolvono, si adattano. 

La notizia risale a una ventina di giorni fa, al 5 maggio, ma è super importante e visto che non ve l’ho data in precedenza lo faccio oggi. Arriva dalla Colombia. Il governo guidato da Gustavo Petro ha approvato il decreto 488, che riconosce ufficialmente l’autogoverno alle comunità indigene dell’Amazzonia colombiana. Questo significa che i popoli indigeni avranno la possibilità di gestire autonomamente i loro territori e di opporsi a progetti commerciali o estrattivi che potrebbero minacciare la loro cultura e l’ambiente circostante.

Il decreto introduce il concetto di “obiezione culturale”, che permette alle comunità di rifiutare interventi esterni nei loro territori basandosi sui propri valori e tradizioni. In pratica, potranno dire “no” a progetti che non rispettano la loro visione del mondo e il loro modo di vivere.

Inoltre, le comunità indigene potranno amministrare direttamente i fondi pubblici destinati a loro, senza l’intermediazione delle autorità municipali. Questo rappresenta un passo significativo verso l’autonomia politica e amministrativa, permettendo loro di prendere decisioni in linea con i propri piani di vita e le proprie necessità.

Il decreto ha acceso un entusiasmo concreto tra le comunità indigene, che questa battaglia la portano avanti da decenni, spesso ignorate o messe ai margini. Ma adesso – lo sanno bene – la partita si gioca sull’attuazione: perché i diritti riconosciuti su carta, senza strumenti, risorse e volontà politica, rischiano di restare lettera morta.

Ad ogni modo questo sviluppo rappresenta un importante riconoscimento della diversità culturale e dei diritti delle popolazioni indigene in Colombia. E ha risvolti positivi per tutti. Secondo l’ONU infatti, l’80% della biodiversità rimasta sul pianeta si trova nei territori indigeni. Questo perché queste popolazioni sono i migliori custodi della biodiversità, perché sono forse le uniche popolazioni rimaste ad essere consapevoli di dipendere da quella biodiversità, da quei particolari equilibri della foresta e degli ecosistemi. Quindi difendere i loro diritti significa anche proteggere in fin dei conti noi stessi. Da noi stessi.

Allora, non so se ricordate, ma qualche giorno fa abbiamo parlato del disegno di legge sulla caccia selvaggia (ovviamente non si chiama così, ma per intenderci) promosso dal Ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida. Un decreto che non riesco nemmeno a riassumervi perché solo a elencare i punto viene fuori una puntata dedicata, ma una liberalizzazione senza precedenti, una sorta di disastro per le specie animali e la biodiversità.

Ecco, a qualche giorno di distanza il WWF Italia, una delle principali organizzazioni ambientaliste del nostro paese, ha lanciato una mobilitazione contro il ddl.

In pratica il WWF ha avviato una petizione online – che si chiama “Stop caccia selvaggia” – per chiedere al governo Meloni di fermare questa proposta di legge, che di fatto andrebbe a smantellare buona parte della legge 157 del ’92, quella che regolamenta la caccia in Italia, e pure l’articolo 9 della Costituzione, che tutela ambiente, animali e biodiversità.

In un comunicato stampa dell’associazione, si leggono quelli che sono i punti più problrematici del ddl. Ve li leggo, ma considerate che sono solo la punta dell’iceberg, se vi interessa approfondire andatevi a recuperare la puntata della scorsa settimana che approfondiva il tema. 

Comunque, ecco, parliamo di cose tipo legalizzare la caccia praticamente ovunque, anche in aree demaniali come le spiagge o i boschi, e perfino di notte o durante la stagione riproduttiva. Aumentare il numero di specie cacciabili e renderebbe legale l’uso dei cosiddetti richiami vivi – cioè uccelli tenuti in gabbiette minuscole per attirare altri uccelli da abbattere. 

E ovviamente le conseguenze sarebbero anche rischi per la sicurezza delle persone, per chi va a farsi una passeggiata nei boschi o lavora in natura, inquinamento da piombo, danni alla biodiversità, specie già vulnerabili messe ancora più a rischio. E probabilmente controlli più complicati e via libera ai bracconieri e al traffico illegale di animali.

C’è anche un rischio concreto – dice il WWF – che l’Unione Europea apra una nuova procedura d’infrazione contro l’Italia, che sarebbe la terza solo in questa legislatura. Con sanzioni che poi, come sempre, paghiamo tutti.

E c’è pure un passaggio inquietante nelle bozze del ddl: si parla di multe pesantissime per chi protesta in modo civile e nonviolento, a volte più salate di quelle per chi va a caccia illegalmente. Insomma, una criminalizzazione bella e buona del dissenso ambientale.

Il WWF quindi invita tutte e tutti a mobilitarsi, a firmare la petizione, e a far sentire la propria voce. Perché – leggo – questa è una legge che riporta indietro di trent’anni la tutela della natura e che favorisce una minoranza armata a discapito del bene comune.

Come redazione di ICC ci uniamo a questo appello. Sappiamo bene che le petizioni lasciano il tempo che trovano, però male non fa. La trovate sul sito del WWF e anche fra le fonti di questa rassegna. 

C’è una notizia sorprendente che arriva dalla Sicilia e che riguarda il diritto all’aborto. Ne parla il Post. In pratica l’Assemblea regionale siciliana ha approvato una legge che prevede, tra le altre cose, che gli ospedali pubblici debbano assumere anche personale medico non obiettore di coscienza. Non solo, ma anche. Quando si assume personale che lavora nei reparti dove si pratica l’aborto, ci si assicura che una percentuale “idonea” (non viene quantificata nella legge) di esso sia non obiettore. E fra l’altro, una volta assunte, queste persone non possono cambiare idea in cordo, insomma se sei stato assunto in quota di non obiettore di coscienza, non è che d’improviso puoi diventarlo, pena la rosoluzione del contratto.

Ora, perché è importante? Perché la famosa legge 194, quella che dal ’78 garantisce il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, dice anche che i medici possono fare obiezione di coscienza. Il problema è che se poi tutti, o quasi, fanno obiezione, quel diritto lì resta solo sulla carta. E infatti, in Sicilia, la situazione è proprio questa: oltre l’80% dei ginecologi sono obiettori, e in alcune province – tipo Messina – non ce n’è nemmeno uno che pratichi aborti. Uno.

Ma non è finita qui. La legge prevede anche che si creino aree dedicate all’interruzione volontaria di gravidanza in tutte le strutture dove ancora non ci sono. Perché? Perché secondo l’ultima relazione del Ministero della Salute, in Sicilia solo il 47% delle strutture con un reparto di ginecologia pratica l’aborto. Meno della metà. La media italiana è già bassa, ma lì si scende ancora di più.

Ultimo elemento molto interessante, questa legge nasce come un emendamento di minoranza presentato da Dario Safina, del PD ed è passata un po’ a sorpresa, con voto segreto: 27 favorevoli, 21 contrari. Il che significa che almeno una decina di voti sono arrivati dalla maggioranza di destra.

Insomma, una norma passata contro ogni aspettativa, in una regione dove il tema dell’aborto rischiava di essere impraticabile – e che non ha molti precedenti in Italia! – che prova a mettere una pezza su una situazione che da anni è insostenibile. Vedremo se sarà applicata davvero, e magari se qualcun’altra regione prenderà ispirazione. 

Continua lo slittamento globale dell’opinione pubblica e della classe politica nel movimento tellurico di allontanamento da Israele. È notizia di ieri che il governo irlandese ha approvato un disegno di legge per vietare le importazioni di prodotti che arrivano dalle colonie israeliane nei territori palestinesi occupati.

Le colonie, se ricordate, sono quegli insediamenti costruiti da Israele in territori che, secondo il diritto internazionale, non sarebbero suoi – parliamo di Gerusalemme Est e della Cisgiordania, in particolare. Sono considerate illegali, ma nel frattempo si sono espanse talmente tanto che spesso sembrano più quartieri residenziali o piccole città che semplici insediamenti.

Ecco, il governo dell’Irlanda ieri ha varato questo ddl che vieta l’importazione di prodotti che arrivano da queste colonie. Approvato il DDL eh, significa che adesso inizia l’iter parlamentare. E poi va detto che non è una misura che abbia un impatto economico enorme, eh. Lo ha ribadito anche il premier irlandese Martin: è una misura soprattutto simbolica, perché l’Irlanda importa pochissimo, praticamente nulla, da quelle aree.

Ma simbolicamente, appunto, è forte. Perché l’Irlanda potrebbe diventare il primo paese occidentale a introdurre una legge del genere. E che, magari, altri paesi europei potrebbero seguirne l’esempio. E soprattutto è un ennesimo segnale politico dell’allontamanento dell’occidente da Israele, come non è mai avvenuto dal secondo dopoguerra a oggi.

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