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13 Maggio 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Il PKK si scioglie. Che succede adesso alla lotta curda? – 13/5/2025

Il PKK si scioglie, Rama vince in Albania, calano i rifiuti sulle coste europee e un nuovo studio collega i campi da golf al rischio Parkinson.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
curdi ocalan sciolto pkk

Questo episodio é disponibile anche su Youtube

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Ieri il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, meglio conosciuto con l’acronimo PKK, ha ufficialmente annunciato il proprio scioglimento. Ad annunciarlo è stato il suo comitato direttivo, al termine di un congresso enorme che ha sancito la fine di una delle organizzazioni armate più longeve del Medio Oriente.

La decisione è storica storica, anche se era ampiamente attesa: già il 27 febbraio infatti – ne avevamo parlato – Abdullah Öcalan, leader e fondatore del PKK, detenuto da 25 anni in un carcere di massima sicurezza in turchia, aveva scritto una lettera in cui chiedeva la fine della lotta armata e lo scioglimento del partito. Pochi giorni dopo era arrivato un cessate il fuoco unilaterale, preludio dell’annuncio di ieri.

Ora, è difficile riassumere qui la storia di questo movimento e il pensiero di Ocalan, ma se siete interessate/i sappiate che c’è una puntata di INMR+ dedicata al tema in cui assieme al ricercatore Federico Venturini ricostruiamo la vicenda.

In breve comunque, giusto perché abbiate gli elementi minimi di comprensione, il PKK era nato nel 1978 come movimento rivoluzionario marxista-leninista per l’indipendenza dei curdi in Turchia. Col tempo, aveva abbandonato l’ideale dell’indipendenza per chiedere invece riconoscimento costituzionale, insegnamento della lingua curda e maggiore autonomia per le regioni curde nel sud-est del paese. 

Anche il pensiero di Ocalan, dal carcere, è cambiato molto negli anni, evolvendo dal marxismo-leninismo più ortodosso verso una visione politica ispirata al pensiero del filosofo ed ecologista statunitense Bookchin, in particolare all’idea di confederalismo democratico, un modello democratico decentralizzato che ha anche visto delle applicazioni pratiche soprattutto fra le comunictà curde che abitano il Rojava. 

Le comunità curde quindi hanno iniziato a rivendicare la possibilità di autodeterminarsi, come società comunitarie, ecologiche, plurietniche, femministe. Insomma, una storia molto interessante, che come sempre non va idealizzata ma che ha davvero un sacco di spunti da offrirci. E oltre al PKK sono nate altre organizzazioni, tant’è che oggi si parla anche di Movimento per la liberazione dei curdi come di un movimento più ampio di cui il Pkk è un pezzetto.

Comunque, la lotte del PKK ha avuto un lungo momento di tregua fra il 1999 e il 2004. Nel 1998 infatti Öcalan presentò un primo piano di pace e l’anno successivo il PKK dichiarò un cessate il fuoco che durò fino al 2004. Come racconta il Post, “Con l’elezione di Recep Tayyip Erdogan a primo ministro, inizialmente considerato un leader moderato, vennero approvate alcune riforme che concessero un minimo di autonomia alla cultura curda, mentre la condanna a morte di Öcalan fu commutata in ergastolo. Tuttavia i tentativi di dialogo tra il 2009 e il 2015 fallirono, e da allora Erdogan ha adottato una politica di dura repressione contro i curdi, con arresti di massa e operazioni militari mirate”.

Con lo scioglimento del PKK si chiude quindi un capitolo lungo oltre quarant’anni. Ma resta aperta eccome la questione curda. E molti si chiedono che succede adesso. E anche come mai questa decisione è arrivata in questo momento. Quali giochi politici, quali accordi ci sono dietro.

Visto che io sono una di quelle molte persone che se lo chiede, che non ho una risposta, e che nessun giornale fra quelli che ho consultato svela i retroscena di questa decisione, ho ricontattato il ricercatore Federico Venturini per cercare di vederci più chiaro. Ecco cosa mi ha detto. 

Audio disponibile nel video / podcast

Grazie davvero, continueremo a seguire quello che accade e a monitorare anche il comportamento della Turchia di Erdogan da questo punti di vista. Qui mi interessa sottolineare la grande forza morale di un movimento che, pur trovandosi in una posizione di debolezza e subalternità, invece di estremizzarsi come succede spesso, ha avuto il coraggio di fare un primo passo verso una riconciliazione.

Ieri avevamo solo gli exit poll, oggi ci sono già una buona percentuale di schede scrutinate e quella che si va sempre più delineando è una netta vittoria, nelle elezioni parlamentari albanesi, per il partito socialista del premier uscente Edi Rama, che secondo i risultati parziali ha superato il 52% dei voti, staccando di diciotto punti il Partito Democratico guidato da Sali Berisha, fermo al 34%. 

Piccola nota chiarificatrice, in Albania il partito di siistra è il partito socialista mentre il partito democratico, a differenza dell’Italia, è di centrodestra. Non so perché ho detto a differewnza dell’Italia. Vabbé questa battuta veniva meglio quando c’era Renzi. 

Tornando alle elezioni, se questo distacco enorme venisse confermato, potrebbe garantire ai socialisti non solo la maggioranza assoluta, ma forse anche quella qualificata in parlamento, necessaria per portare avanti le riforme richieste per l’adesione all’Unione Europea, che da anni è il principale cavallo di battaglia di Rama.

Il terzo partito è il Partito Socialdemocratico di Tom Doshi, dato intorno al 4%, che ha già escluso un’alleanza con Berisha e strizza invece l’occhio a Rama. Ma, a quanto sembra, il premier potrebbe non averne bisogno: la proiezione attuale assegna al Partito Socialista 84 seggi su 140, ben oltre i 79 previsti dagli exit poll.

L’opposizione però grida ai brogli e parla di elezioni truccate. Accuse bollate come “il solito copione” dal ministro dell’Interno, ma che potrebbero non essere del tutto infondate: sette persone sono già state arrestate per aver fotografato la scheda elettorale, tra cui il padre di un deputato del Partito Socialdemocratico. La Spak, la procura anticorruzione voluta dall’UE, si è impegnata nel prevenire i reati elettorali, ma ora l’ultima parola spetta agli osservatori dell’OSCE.

Negli ultimi anni l’Unione Europea ha registrato un progresso importante nella lotta all’inquinamento marino: tra il 2015-2016 e il 2020-2021 i macro-rifiuti presenti sulle spiagge europee sono diminuiti del 29%. A dirlo è l’EU Coastline Macro Litter Trend Report, che ha analizzato i dati raccolti su 253 spiagge del continente. Il Mar Baltico ha segnato il miglior risultato, con un calo del 45%, ma anche il Mediterraneo e il Mar Nero hanno mostrato trend incoraggianti.

La buona notizia è che sulle coste europee sono diminuiti soprattutto i rifiuti in plastica monouso — meno 40% — e quelli legati alla pesca, scesi del 20%. Il merito va a una combinazione di politiche, impegno civile, azioni locali e strumenti normativi come la Marine Strategy Framework Directive, che punta a ridurre del 50% i rifiuti plastici nei mari entro il 2030.

Ma non è tutto rose e fiori. La quantità media di rifiuti nel biennio più recente era ancora di 203 oggetti ogni 100 metri di costa — dieci volte oltre il limite raccomandato. E accanto ai rifiuti visibili, i nostri mari devono fare i conti con problemi spesso invisibili: inquinamento acustico, contaminazione chimica, perdita di biodiversità e degrado degli habitat marini.

In questo contesto, settori come la pesca e l’acquacoltura possono giocare un ruolo chiave: iniziative come il fishing for litter, che coinvolge i pescatori nella raccolta dei rifiuti, o l’impiego di materiali biodegradabili e tecnologie sostenibili, stanno mostrando il potenziale di un’azione condivisa.

Ovviamente il percorso verso mari davvero puliti è ancora lungo. Ma questi segnali mostrano che cambiare rotta è possibile, se c’è la volontà politica e sociale di farlo.

C’è un nuovo studio che ha trovato una correlazione molto forte e a prima vista stupefacente, in negativo. Vivere vicino a un campo da golf raddoppia il rischio di ammalarsi di Parkinson. 

Strano no? In pratica secondo un nuovo studio americano, condotto dal Barrow Neurological Institute e pubblicato su JAMA, vivere entro 5 chilometri da un campo da golf rende molto più probabile contrarre il morbo di parkinson, che è questa malattia neurodegenerativa, che quindi colpisce il cervello e peggiora nel tempo e causa tremori, rigidità e lentezza nei movimenti. 

Ma come è possibile questa associazione apparentemente così assurda? Ecco, il sospetto che emerge dallo studio, e dall’articolo di Repubblica a firma di Donatella XZorzetto che ne parla, è che i pesticidi usati per mantenere quei tappeti erbosi in condizioni impeccabili finiscano per contaminare le falde acquifere, infiltrandosi nell’acqua potabile.

Non è la prima volta che si ipotizza un legame tra pesticidi e malattie neurodegenerative, ma questo studio rappresenta uno dei tentativi più ampi e dettagliati di tracciare una correlazione concreta. I ricercatori hanno analizzato oltre 40mila chilometri quadrati tra Minnesota e Wisconsin, incrociando i dati di migliaia di cartelle cliniche con la vicinanza delle abitazioni a 139 campi da golf. Hanno anche tenuto conto delle caratteristiche dei pozzi e della vulnerabilità delle falde acquifere.

Le sostanze in questione non sono sconosciute: parliamo di composti come paraquat, rotenone, organofosfati e clorpirifos, già noti per la loro tossicità neurologica. Studi precedenti avevano dimostrato che queste sostanze possono indurre una degenerazione neuronale simile al Parkinson, colpendo in particolare l’area del cervello coinvolta nella produzione di dopamina, ovvero una sostanza chimica importantissima presente nel cervello che aiuta a controllare i movimenti, l’umore e la motivazione. Ecco, alcuni pesticidi potrebbero influire sulla produzione di dopamina. Il problema degli studi che provano a rilevare questa correlazione è che questi meccanismi di neurodegenerazione sono lenti, silenziosi e accumulativi: possono passare anni, se non decenni, tra l’esposizione e l’insorgere dei sintomi.

Non a caso, il neurologo Paolo Maria Rossini ha ricordato a Repubblica che nel Parkinson, così come in altre patologie neurodegenerative, la malattia si manifesta solo quando circa l’80% delle cellule dopaminergiche è già compromesso. Il cervello, che è un sistema complesso e ha i suoi meccanismi di stabilità, resiste a lungo, poi cede di colpo.

I dati raccolti nello studio comunque sembrano molto solidi: 450 casi di Parkinson identificati tra il 1991 e il 2015 solo nella contea di Olmsted, su un campione di 9.000 persone. E tutti con una lunga permanenza nelle abitazioni vicine ai campi da golf. I ricercatori hanno evidenziato anche la maggiore incidenza della malattia nelle zone dove l’approvvigionamento idrico è più vulnerabile, come i pozzi privati o le falde superficiali.

Ma ci sono anche dei limiti, come ricordano sia gli autori dello studio sia altri esperti: la malattia è multifattoriale e stabilire un nesso causale diretto non è semplice. I pesticidi possono essere un fattore, ma mancano ancora i cosiddetti studi longitudinali di lungo periodo in grado di valutare con precisione l’esposizione cumulativa. Inoltre, non è stato possibile determinare quanto tempo esattamente le persone abbiano vissuto nei pressi dei campi da golf prima dell’insorgenza dei sintomi.

Però, ecco, voi nel dubbio cercate di mandar via i campi da golf se li avete vicini. Scherzi a parte, per come funziona il sistema di approvigionamento di acqua in Italia, che è molto centralizzato e controllato, non dovrebbero esserci problemi di questo tipo, ma al netto di questo lo studio apre uno squarcio su quelle che sono le conseguenze dell’utilizzo dei pesticidi. Non solo nei campi da golf ovviamente. 

Prima di chiudere vi ricordo che oggi esce la terza puntata di CCC, cerco casa e comunità, il podcast per chi è interessato a esplorare i mondi dei cohousing e delle forme di abitare collaborativo. Oggi parliamo di lavoro!

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