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12 Dicembre 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Se vogliamo respirare aria pulita dobbiamo fare 3 cose – 12/12/2025

Dall’evoluzione dell’inquinamento atmosferico in Cina e in Europa, alle nuove evidenze sul legame tra crisi climatica e cicloni asiatici e sulle temperature record del 2025, fino a una curiosa riflessione.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Trascrizione episodio

Negli ultimi giorni sono usciti un po’ di articoli interessanti relativi all’inquinamento dell’aria in vari luoghi del mondo. Ho pensato di presentarveli uno di fila all’altro, perché ci danno delle indicazioni interessanti e ci permettono di fare qualche ragionamento.

Prima di tutto, però, le definizioni. Per inquinamento atmosferico si intende la presenza nell’aria di sostanze che sono frutto delle attività umane e al tempo stesso nocive per gli esseri umani. Questi inquinanti possono essere sostanzialmente di due tipi: dei gas, ad esempio gli ossidi di azoto (NOx), l’ozono (O₃), il biossido di zolfo (SO₂) e altri gas appunto nocivi, oppure delle microparticelle, le famose PM10 e PM2,5, cioè polveri sottili.

Qui non consideriamo come inquinamento atmosferico i gas climalteranti, quelli che causano il cambiamento climatico, anche se ovviamente potremmo discutere su questa classificazione, ma consideriamo inquinamento atmosferico solo quelle sostanze che causano un danno diretto alla salute umana.

Ok, dicevamo, ci sono alcuni articoli interessanti. Il primo è un articolo di Wired, ripreso da molti giornali, che racconta l’andamento dell’inquinamento nelle città cinesi. Si chiama “Inquinamento in Cina, la qualità dell’aria è migliorata ma non per tutti”, è firmato da Enrico Pitzianti e ci dice due cose molto importanti. 

La prima è che l’inquinamento atmosferico in Cina sta diminuendo. Leggo:

“Negli ultimi anni il livello di inquinamento in Cina, in particolare da polveri sottili, è diminuito più rapidamente che in qualsiasi altro paese. Stando ai dati diffusi dall’Università di Chicago in media nel 2024 il livello di PM2,5 nelle città cinesi era inferiore del 36% rispetto a dieci anni prima. Andando a vedere la situazione di vent’anni fa il miglioramento è ancora più evidente: nel 2004 la Cina era il terzo paese più inquinato al mondo. Oggi non è nemmeno tra i primi dieci. 

Il miglioramento della qualità dell’aria in Cina si deve soprattutto al piano nazionale varato nel 2013, che ha fissato obiettivi ambiziosi di riduzione del PM2,5 per le città che si trovano nell’est del paese. Nel 2018 poi è arrivato un secondo piano nazionale, simile al primo, che oltre all’area di Pechino e di Hebei ha messo dei tetti massimi di inquinamento per la pianura di Fenwei, nota per le sue grandi riserve di carbone”.

Sebbene complessivamente l’inquinamento sia sceso, continui a scendere (-5% a livello nazionale solo rispetto al 2024) c’è anche un altro fenomeno di spostamento a ovest dell’inquinamento, conseguenza di uno spostamento industriale, perché le industrie pesanti sono state delocalizzate verso le regioni interne (tipo Xinjiang).

L’inquinamento in Cina infatti è dovuto soprattutto al carbone e all’industria pesante. 

Anche in Europa l’inquinamento sta mediamente diminuendo. Solo che l’Ue, su questo, si è data obiettivi molto ambiziosi. Dal 1° gennaio 2030 entreranno in vigore nuovi limiti europei molto più severi, che dimezzano o riducono di due terzi le soglie per il biossido di azoto NO₂, e per il particolato PM₂,₅ e PM₁₀. Tutto questo per arrivare all’obiettivo al 2050 di inquinamento zero.

Sebbene l’inquinamento atmosferico in Europa stia mediamente diminuendo infatti, la scienza ha reso evidente che i livelli attuali non sono ancora compatibili con una tutela sufficiente della salute.

E quindi diversi paesi stanno iniziando ad attrezzarsi. Ieri su ICC abbiamo raccontato il piano francese per migliorare la qualità dell’aria in città, che è un piano interessante. In pratica  l’Agenzia francese per la transizione ecologica ha messo in campo un piano che parte dalla mappatura precisa delle fonti di inquinamento e poi in base a delle simulazioni riproduce gli scenari futuri in base alle scelte che i comuni faranno, e che possono appunto simulare. 

Tipo, un comune potrebbe vedere cosa succede se ad esempio si limitano i SUV, oppure che impatto ha cambiare le stufe a pellet o ancora quanto si impatterebbe riducendo la presenza di allevamenti intensivi.

Mi sembra un esperimento interessante, perché innanzitutto parte dall’analisi dei dati e dal fotografare la situazione attuale, e poi fornisce agli amministratori un simulatore in tempo reale capace di far vedere gli effetti delle proprie politiche. E poi fornisce anche una serie di consigli su cosa fare per migliorare la situazione in quelli che ha individuato come i tre settori chiave. 

Ora, se io vi dicessi, quali sono secondo voi i principali fattori di inquinamento? Potete pensare tranquillamente all’Italia, perché è una situazione equiparabile a quella della Francia e di diversi paesi d’Europa. Sono convinto che se facessi un sondaggio molti di voi risponderebbero l’industria e il traffico. Qualcuno risponderebbe forse il riscaldamento. Pochissimi risponderebbero gli allevamenti intensivi. 

E invece l’industria ormai pesa poco in paesi tipo il nostro, mentre il grosso lo fanno appunto questi tre settori: mobilità, riscaldamenti (quando c’è di mezzo la combustione di legname o pellet) e allevamenti (e in parte anche agricoltura) intensivi. 

Capisco che infilare gli allevamenti qua dentro possa far sollevare più di un sopracciglio. Perché non è così immediato capire come mai gli allevamenti producono inquinamento atmosferico. Il fatto è che le immense quantità di deiezioni degli animali, insomma feci e urine, che vengono convogliate in gigantesche vasche, sono una zuppa organica piena di azoto, che ben presto per delle reazioni chimiche si trasforma in ammoniaca. L’ammoniaca è un gas che quindi evapora facilmente e finisce in aria. 

Ora, l’ammoniaca, da sola, è un gas relativamente semplice. Il problema è che si mescola con gli altri inquinanti che già circolano in atmosfera e combinandosi chimicamente forma quantità gigantesche di – soprattutto – PM2,5, cioè polveri sottili fini, quelle più pericolose, che arrivano in profondità nei polmoni e sono associate a un sacco di problemi di salute. 

Fra l’altro quegli stessi liquami spesso vengono sparsi sui campi come fertilizzante attraverso delle botti che nebulizzano il liquame a pioggia, che sono praticamente delle macchine che spruzzano ammoniaca nell’aria. Ci sarebbero anche delle tecniche più moderne che li iniettano nel terreno, ma in molti usano ancora la nebulizzazione. 

Quindi ecco, gli allevamenti intensivi sono una grande fonte di inquinamento atmosferico, sono una fonte di sofferenza atroce per milioni di animali e sono anche un modo del tutto inefficiente di utilizzo delle risorse, perché ci sono milioni di ettari dedicati a produrre cibo che viene dato in pasto ad animali, che poi diventano cibo per esseri umani. Insomma, una roba abbastanza folle da tanti punti di vista.

Il problema è che mentre sul traffico ci sono stati dei netti miglioramenti per via della progressiva anche se lenta elettrificazione delle vetture, sul fronte del riscaldamento il caro energia ha spinto molte persone a bruciare più legna o pellet, che sono le modalità più inquinanti, e sul fronte degli allevamenti intensivi non si sono registrati grossi cambiamenti. Ma se vogliamo respirare un’aria pulita, non possiamo fare a meno di agire anche su questi due fronti. 

Due notizie sul clima. Abbiamo parlato nelle scorse settimane dei cicloni che hanno colpito alcune zone dell’Asia, con più di 1.750 persone che sono morte a causa dei cicloni Ditwah e Senyar, che hanno colpito Sri Lanka, Sumatra e la Malesia peninsulare a fine novembre.

A due settimane di distanza – a riprova che ormai la scienza dell’attribuzione è diventata molto reattiva – è arrivato lo studio, realizzato dal World Weather Attribution – un consorzio internazionale di climatologi che si occupa proprio di capire il ruolo della crisi climatica nei disastri meteo – che analizza la connessione fra quell’evento meteo estremo e la crisi climatica. E il verdetto, anche in questo caso, è che il legame di quell’evento con la crisi climatica è molto molto forte.

In pratica la scienza dell’attribuzione rileva quanto la crisi climatica, e quindi la concentrazione anomala di CO2 e altri gas serra in atmosfera, abbia reso più probabile un dato evento.

Secondo lo studio nell’area colpita dal ciclone Senyar, l’intensità delle piogge in cinque giorni è aumentata fino al 160%, a causa del riscaldamento globale. In Sri Lanka, gli eventi estremi di pioggia sono oggi tra il 9% e il 50% più intensi rispetto al passato. 

Un articolo del Guardian ha ricostruito come gli effetti della crisi climatica siano esacerbati da alcuni fattori, che in parte sono gli stessi che la generano. In Indonesia, ad esempio, la distruzione delle foreste ha peggiorato le alluvioni. Dove prima gli alberi rallentavano il deflusso dell’acqua, ora l’acqua scende a valle senza ostacoli, portando con sé detriti e causando frane. E poi c’è l’urbanizzazione incontrollata: intere città cresciute in zone naturalmente esposte alle inondazioni, come pianure alluvionali o delta dei fiumi. 

Tutto questo genera una serie di danni anche economici crescenti, per cui la crisi climatica finirà per costare molto molto di più di quello che ci costerebbe cambiare la nostra economia e uscire dalla dipendenza dai combustibili fossili. Il problema delle dipendenze però è che ti impediscono di fare scelte razionali.

L’altra notizia è che secondo le previsioni e i dati aggiornati dei servizi climatici europei e internazionali, il 2025 è praticamente certo che chiuderà come uno dei tre anni più caldi mai registrati, con una probabilità molto alta che sia il secondo o il terzo, subito dietro al 2024. 

Non è una grossa novità. È quello che possiamo aspettarci dalla crisi climatica. Anche se la regolarità con cui ogni anno diventa uno dei più caldi di sempre è abbastanza anomala anche rispetto ai modelli attuali più diffusi. 

Allora, questa non è una notizia vera e propria, non è uno studio, però è una di quelle robe che quando l’ho letta ho pensato “cazzo, è vero! Come ho fatto a non notare mai questa cosa prima?”.

Passiamo ore, giornate, settimane incollati agli smartphone. Li usiamo per lavorare, per svagarci, per parlare con le persone a cui vogliamo bene – o anche con quelle a cui vogliamo meno bene – eppure… non li sogniamo quasi mai.

Mi sono imbattuto in un articolo su medium che cita un’analisi di quasi 16.000 sogni raccolti in un database inglese mostra che parole come “phone” o “smartphone” compaiono solo nel 2% dei casi. 

È un paradosso interessante. Alcuni articoli – su Worldcrunch, Medium, Psychology Today – provano a spiegarlo. Intanto ci sono alcune ipotesi neuroscientifiche: i sogni sembrano privilegiare scene dinamiche, corporee, coinvolgenti, dove il nostro corpo è in pericolo o in azione. Tipo lottare, scappare, cadere. Inseguimenti, litigi, drammi. Ecco, tutto questo sì. Lo scroll su Instagram no.

Secondo la cosiddetta “threat simulation hypothesis”, i sogni servono a simulare minacce e allenarci alla sopravvivenza. Tipo un training emotivo e sensoriale. E quindi le attività moderne, comode e passive come usare lo smartphone, non entrano facilmente in questo training. Non servono. Non attivano.

Poi c’è una questione percettiva: nei sogni è molto difficile leggere o digitare. Testi, numeri, schermi… diventano instabili, confusi. Forse perché nel sonno REM le aree del cervello deputate al linguaggio funzionano diversamente. Quindi anche solo sognare di scrivere un messaggio è difficile.

Qualsiasi sia la spiegazione, devo dire che questa: a) mi ha stupito, cioé mi ha stupito il fatto che non ci avessi mai pensato e b) un po’ mi ha confortato, il fatto che nonostante tutto ci sia una buona parte della nostra vita, quella in cui dormiamo, che per molti di noi resta un’area dedigitalizzata.

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