Riforma della giustizia: cosa cambia e ripercussioni in vista del referendum – 31/10/2025
Il Senato approva la riforma della giustizia, la Corte dei conti blocca il ponte sullo Stretto, nei Paesi Bassi è testa a testa per governare e in Camerun Paul Biya vince di nuovo tra accuse di brogli e proteste.
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Fonti
#Riforma della giustizia
Il Fatto Quotidiano – Riforma giustizia, voto finale in Senato: “Renzi: ‘Ci asteniamo, è una bandierina. La separazione giudici-pm esiste già’”
Il Riformista – Separazione delle carriere, Di Pietro vota Sì al referendum: “Basta strapotere toghe. Ma dà fastidio il cappello messo sopra dai berlusconiani”
il manifesto – Gratteri, Di Pietro e Garlasco: ecco la campagna per procura
Il Fatto Quotidiano – Gratteri contro Nordio e Meloni: “La separazione delle carriere è un modo per controllare i pm e salvare i colletti bianchi”
#Ponte sullo Stretto
Il Post – Perché la Corte dei conti ha bloccato l’approvazione del progetto del ponte sullo Stretto
#Elezioni Paesi Bassi
Sky TG24 – Elezioni Olanda: testa a testa tra Wilders e Jetten
#Camerun e conflitti dimenticati
Internazionale – Camerun: proteste e repressione dopo la vittoria di Biya
Italia che Cambia – Le immagini della guerra in Sudan: come influiscono sull’opinione pubblica
#Obsolescenza digitale / Soluscions!
Italia che Cambia – Milioni di computer rottamati: come fermare l’ondata di e-waste?
Trascrizione episodio
Prima di cominciare, una piccola rettifica sulla puntata di martedì. Ho detto che nel caso di cronaca di Castel D’Azzano in cui tre fratelli avevano fatto esplodere il proprio appartamento come gesto estremo di rifiuto dello sfratto, i tre fratelli erano morti assieme a tre carabinieri. Non è vero, sono morti solo tre carabinieri, mentre i due fratelli e la sorella Ramponi, pur presenti in casa, non sono morti nell’esplosione.
Ieri il Senato della Repubblica ha approvato la riforma della giustizia. Che di per sé non sarebbe una grande notizia. Praticamente ogni esecutivo dalla fine degli anni Novanta ad oggi ha messo mano alla giustizia.
Lo fece il centrosinistra con il “Giusto processo” nel 1999, poi lo fece Berlusconi nel 2001 e nel 2006 con la Riforma Castelli, poi di nuovo il centrosinistra con la “Legge Orlando”, pei nel 2019 il M5S con lo Spazzacorrotti, infine il governo Draghi con la Riforma Cartabia. Questo per dire che ogni governo ha cercato negli anni di sistemare un po’ la giustizia, vuoi per questioni di comodo, vuoi per migliorarne il funzionamento.
La novità questa volta è che la riforma va a toccare alcuni punti che erano considerati fra i cardini del nostro ordinamento giuridico. Tant’è che si va a modificare la costituzione e che quindi sarà necessario un referendum Costituzionale perché la riforma entri in vigore, visto che la riforma non ha raggiunto i ⅔ dei sì in parlamento, ovvero la maggioranza qualificata necessaria ad evitare di passare attraverso il referendum.
Sarà un referendum costituzionale, quindi senza quorum: chi prenderà più voti tra il Sì e il No vincerà, a prescindere dall’affluenza. La data del voto potrebbe essere nella primavera 2026, forse in una domenica tra marzo e aprile, quindi preparatevi a sentir parlare moltissimo di questo tema nei prossimi mesi in Tv, sui giornali, nei bar, o insomma ovunque voi vi informiate.
Comunque, in che consiste? Il punto principale, quello più voluto dal governo, più contestato dalle opposizioni, su cui ci si accapiglia da mesi, è la famosa separazione delle carriere dei magistrati. Che vuol dire?
Allora attualmente la cosa funziona così: la magistratura, forse lo saprete ma meglio partire dalle basi, si divide in due figure professionali: i giudici e i pm, i pubblici ministeri. Il giudice, lo dice il nome, giudica, quindi rappresenta l’imparzialità, la terzietà, è colui che decide qual è la ricostruzione più credibile dei fatti la cosiddetta verità processuale) dopo aver ascoltato accusa e difesa, e che alla fine sceglie la sentenza, che condanna o assolve e stabilisce la pena.
Il Pm invece è sempre un magistrato autonomo, che però rappresenta lo stato, il pubblico interesse, e svolge il ruolo dell’accusa. Cioé quando c’è un caso penale, quindi un omicidio, un caso di corruzione, di frode, è colui che raccoglie le prove e mette in piedi l’impianto accusatorio. Può chiedere misure cautelari, sostiene l’accusa in aula, può dirigere la polizia giudiziaria, può chiedere intercettazioni.
Insomma, sono due figure diverse e complementari, che rappresentano le due facce della giustizia, per come è organizzata. Attualmente però, e fino a che questa riforma non entrerà eventualmente in vigore, c’è un unico “ordine”: giudici e pubblici ministeri fanno parte della stessa magistratura. Entrano con lo stesso concorso, hanno lo stesso status e le stesse garanzie di indipendenza.
E quindi un magistrato/a può passare da pm a giudice o viceversa. In realtà non è una roba così frequente e automatica, nel senso che già oggi ci sono un sacco di paletti (legati ai tempi di servizio, alla formazione, a incompatibilità territoriali, ecc.). Non è che oggi uno si sveglia pm e va a letto giudice giudice a cena. Però è possibile.
Ecco, la nuova legge prevede invece che questo passaggio da una carriera all’altra sia impossibile, e scolpisce in Costituzione che chi fa il giudice fa il giudice, chi fa il pm fa il pm. In pratica, nel momento in cui si accede alla magistratura si dovrà/dovrebbe scegliere uno dei due ruoli, e quello tenersi per tutta la carriera lavorativa.
Questo cambiamento si porta dietro una serie di ripercussioni profonde. Innanzitutto, ci saranno Due Consigli Superiori della Magistratura distinti. Oggi il CSM è l’organo di autogoverno unico di giudici e pm: decide le nomine i trasferimenti e le carriere, approva le tabelle organizzative dei tribunali e delle procure, ed ha anche una sezione disciplinare, quindi che giudica e punisce le irregolarità nella magistratura (che quindi si autogiudica). Insomma è il governo, l’autogoverno, della magistratura. Ne garantisce l’indipendenza.
Con la riforma, il concetto di autogoverno rimane ma si sdoppia: nascono due CSM separati, uno per i giudici e uno per i pm, ciascuno competente su nomine, mobilità e organizzazione del proprio ramo. Inoltre cambia anche la modalità di nomina. Oggi i membri del CSM (che sono per 2/3 togati, quindi magistrati, e per 1/3 laici, ovvero professori universitari o avvocati esperti) si eleggono: i magistrati votano i togati, il Parlamento sceglie i laici.
La riforma cambia il metodo di selezione: niente più elezioni interne, ma estrazione a sorte dei membri da elenchi di aventi diritto (elenchi separati per giudici e pm e per i “laici” un elenco predisposto dal Parlamento). L’idea dichiarata è “tagliare” il peso delle cosiddette correnti e delle dinamiche elettorali dentro le toghe.
Infine, la parte disciplinare viene tolta da dentro i CSM e spostata a una nuova Alta Corte creata ex novo, esterna ai due consigli.
Quindi capite che ci sono tante ripercussioni. Ma qual è il senso più profondo della riforma? Secondo il governo, e i favorevoli in generale, che devo dire provengono non solo dal governo, il senso sarebbe quello di garantire maggiore terzietà. Cioé, si dice: se pm e giudici stanno nella stessa ‘casa’, possono passare da un ruolo all’altro, sono parte della stessa famiglia, come adesso, allora questa cultura comune può creare delle vicinanze che possono influire sull’imparzialità dei giudici. Che ragionano come un unico organismo.
Oggi, secondo i promotori della riforma, il giudice non è nelle condizioni di essere realmente terzo, fra accusa e difesa, perché è imparentato con l’accusa. Fa parte della stessa famiglia. Separando le carriere fin dall’inizio si evitano commistioni e si fa in modo che il giudice sia veramente terzo. E poi oggi la magistratura si autogiudica, attraverso il Csa – che è un po’ il tema di chi controlla i controllori -, invece la riforma crea questo Alto Consiglio, che è un ente esterno alla magistratura che può giudicare e eventualmente condannare i magistrati, senza conflitti d’interesse. e infine il tema del sorteggio serve a scardinare il ruolo delle correnti interne alla magistratura, che instaura delle logiche più politiche e meno neutrali.
Dall’altro lato però quali sono i rischi? Oggi la magistratura è un potere forte e autonomo, con i pro e i contro che derivano da queste sue caratteristiche. In passato più volte è stata in grado di controbilanciare il potere politico, o addirittura sovvertirlo in alcune circostanze, pensiamo al caso di Tangentopoli.
Ecco, secondo i detrattori della riforma, quindi tendenzialmente il centro-sinistra, il fatto di spezzare a metà la magistratura e imporre carriere separate potrebbe indebolirla nel suo complesso, nella sua autonomia, e fare in modo che il ramo dei Pm, che rappresenta lo Stato, possa essere più facilmente influenzato dalla politica e dai vari governi.
Ecco, questo è il cuore della faccenda. Che come vi dicevo sta facendo discutere non solo la politica, e vabbé quello sarebbe scontato, ma anche – e molto – la magistratura. L’ANM (l’associazione che rappresenta la grande maggioranza dei magistrati) si è schierata abbastanza apertamente in modo contrario, e parla di “profonda preoccupazione”, teme che la separazione “isoli il pm” e tolga garanzie ai cittadini.
Tuttavia anche il fronte dei favorevoli è abbastanza variegato. Fra le figure più di spicco da una parte e dall’altra vi cito solo la posizione di Nicola Gratteri, procuratore di napoli, e dell’ex magistrato Antonio di Pietro.
Secondo Gratteri – che ha parlato a 8 e mezzo, l’obiettivo della riforma non è migliorare il sistema giudiziario, ma “mettere sotto tutela il pubblico ministero, controllarlo, renderlo docile, e la prova ne è che si parla sempre di procedimenti disciplinari”. “Perché qui si sta buttando via l’acqua sporca col bambino pur di non arrivare ai colletti bianchi“. E conclude: “Se continuiamo con questa demolizione del codice di procedura penale, arriveremo al punto che potremo indagare e processare solo i ladri di polli“.
Di Pietro invece dice al Riformista: «Accusare questa riforma di voler intaccare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura è una critica costruita appositamente per indurre il cittadino a votare “no”. L’Anm sposta l’attenzione su un paventato rischio di subordinazione del potere indipendente al potere esecutivo che non esiste. La vera ragione per cui l’Associazione nazionale magistrati si oppone è una: la riforma prevede la costituzione dell’Alta Corte di Giustizia e il sorteggio. Se ne parla poco, ma è la motivazione di fondo per cui l’Anm si oppone. L’Alta Corte toglierebbe il potere all’interno del Consiglio superiore della magistratura di fare una propria giustizia disciplinare interna: oggi sul piano disciplinare e delle promozioni – quindi sul piano della carriera – decide il Csm. Con l’istituzione dell’Alta Corte, si toglie al Consiglio superiore della magistratura il potere vero: quello di giudicare per sé stessi, per gli stessi magistrati.
Ecco, questo è quanto. Vi dico: è una riforma complessa che a mio modo di vedere ha pro e contro, ho provato a spiegarvela, ditemi cosa ne pensate.
Va bene, andiamo un po’ veloci sul resto. Ieri la Corte dei conti ha bloccato temporaneamente il progetto del ponte sullo Stretto di Messina, negando il “visto di legittimità” alla delibera con cui il Cipess aveva approvato il progetto e i relativi fondi.
Il Cipess è il Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile ed è un organo del governo che ha il compito di approvare i grandi investimenti pubblici, decidere dove vanno i soldi dello Stato e dare il via libera ai progetti strategici. Ad agosto aveva approvato ufficialmente il progetto del ponte sullo Stretto di Messina, stanziando anche i fondi necessari.
Dopo l’approvazione del Cipess, però il progetto deve passare il controllo della Corte dei conti, che verifica se tutto sia legittimo dal punto di vista contabile e legale (cioè se rispetta le leggi e i vincoli di bilancio). E la Corte ha detto no: non ha concesso il visto contestando vari aspetti tecnici, dai costi alla mancata valutazione ambientale e alcuni aspetti giuridici. Quindi il provvedimento approvato dal Cipess non può essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale, e di fatto non può entrare in vigore, almeno per ora. Ergo: è tutto fermo.
Il governo può comunque decidere di forzare l’iter, assumendosene la responsabilità politica. Il parere della Corte infatti non è vincolante, ma comunque allunga i tempi del progetto e alimenta lo scontro tra governo e magistratura. Salvini ha già detto che vorrebbe forzare la mano, il resto del governo lo sta frenando, vedremo.
Intanto si è votato nei Paesi Bassi e a spoglio quasi consluso c’è un testa a testa serratissimo fra i progressisti‑socioliberali di Democraten 66 (D66), guidati dalla vera sorpresa di queste elezioni Rob Jetten, e i nazionalisti‑sovranisti di destra di Partij voor de Vrijheid (PVV), capeggiati da Geert Wilders. Con circa il 98 % dei voti scrutinati, entrambe le forze sono accreditate di 26 seggi su 150. D66 ha registrato un’impennata, quasi triplicando i propri seggi rispetto al 2023, mentre il PVV ha perso consensi e seggi rispetto all’ultima tornata. Resta però da chiarire quale coalizione riuscirà a raggiungere la maggioranza necessaria (76 seggi), e lo scenario politico appare dunque ancora molto aperto.
Intanto si è votato anche in Camerun per le elezioni presidenziali e ha vinto Paul Biya. Che ha – sì – 92 anni ed è al potere dal 1982 con il 53,6% dei voti, in un clima segnato da accuse di brogli e violente repressioni. Le proteste popolari, scaturite già prima dell’annuncio ufficiale, sono state duramente soffocate dalla polizia con un bilancio di almeno 23 morti, arresti arbitrari e violazioni dei diritti. La riconferma di Biya, contestata da gran parte dell’opposizione e da una popolazione giovane e sfiduciata, arriva in un Paese attraversato da crisi profonde: il conflitto con le minoranze anglofone, la lotta ai jihadisti nel nord, la corruzione, e una povertà dilagante. Nonostante le critiche internazionali, l’Unione Africana ha riconosciuto la validità del voto, mentre la tensione resta alta e il futuro del Camerun appare sempre più incerto.
Restando in Africa vi segnalo che oggi esce su ICC anche un articolo del nostro caporedattore Francesco Bevilacqua che riflette sul ruolo che le immagini hyanno nel creare un’immaginario collettivo attorno a un conflitto, e quindi anche nel renderci più o meno sensibili verso un certo conflitto rispetto ad un altro.
Vi leggo un passaggio: “Per testimoniare la presa di El Fasher, i miliziani hanno iniziato a diffondere in rete alcuni video agghiaccianti. In uno si addentrano in un ospedale sventrato e disseminato di cadaveri, uccidendo a sangue freddo i pochi pazienti ancora in vita e impossibilitati a scappare. In un altro a una trentina di persone viene ordinato di andarsene ma appena queste lo fanno vengono falciate dalle raffiche dei miliziani. E ancora, alcuni uomini vengono uccisi alle spalle mentre portano via sacchi, taniche d’acqua e altri beni di prima necessità.
Un po’ come successo per Gaza, queste immagini hanno superato in potenza la forza delle tante parole e dei numeri – pure terrificanti – con cui sinora è stato descritto il conflitto in Sudan. Questo aspetto è molto interessante e merita una riflessione per la sua capacità di smuovere le coscienze – e spesso anche gli algoritmi. “Senza essere esposti a un flusso continuo di immagini crude, 150.000 morti non li riusciamo a contemplare”, osserva Cecilia Sala in una recente puntata del suo podcast su Chora Media”.
In chiusura vi segnalo una cosa molto importante, o meglio una puntata davvero molto importante di Sluscions. È particolarmente importante perché dal 15 ottobre 2025 l’attuale sistema operativo di Microsoft, Windows 10, non riceve più aggiornamenti di sicurezza. E secondo le stime più recenti, tra 240 e 400 milioni di computer non potranno passare a Windows 11 a causa dei requisiti hardware imposti da Microsoft, e quindi milioni di macchine ancora perfettamente funzionanti. Il risultato? Un’ondata di obsolescenza software che si tradurrà in un aumento significativo dei rifiuti elettronici (e-waste) a livello globale. Ma ma ma, possiamo fare qualcosa, e che cosa possiamo fare ce lo racconta daniel Tarozzi in compagnia di Ugo Vallauri – co-fondatore di The Restart Project Italia.
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