Dopo i video delle esecuzioni si inizia a parlare della guerra in Sudan
Negli ultimi giorni c’è sempre più interesse sul conflitto in Sudan, che in meno di tre anni ha causato 150.000 morti stimati. Il motivo? Una svolta militare importante e le drammatiche immagini che la testimoniano.
Pochi giorni fa hanno iniziato a circolare in rete alcuni video e footage realizzati dagli stessi miliziani che, il fucile in una mano e il cellulare nell’altra, hanno ripreso esecuzioni sommarie ai danni di civili sudanesi. Come le decine di altri conflitti attivi nel mondo, anche quello in Sudan è stato messo in secondo piano dal genocidio che Israele sta compiendo a Gaza. Sulle ragioni di questo fatto abbiamo provato a riflettere in questo approfondimento, la cui parte conclusiva offre uno spunto anche per analizzare il trend degli ultimi giorni che riguarda il Sudan.
Il contesto
In questo articolo abbiamo ricostruito la storia recente del territorio di Sudan e Darfur, una polveriera che da più di vent’anni soffre di una gravissima instabilità politica e militare. L’inizio dell’ultimo atto si verifica il 15 aprile del 2023, quando scoppia un violento scontro armato fra l’esercito regolare – SAF, Sudan Army Forces – e le Rapid Support Foces, sigla che unisce formazioni paramilitari avversarie del Governo sudanese e capeggiate da “Hemedti” Dagalo, il generale che da un paio di mesi è anche ufficialmente capo di un Governo parallelo in Darfur, la regione occidentale del paese, al confine con il Ciad.
L’Unicef ha definito la situazione in Sudan “la più vasta crisi umanitaria del pianeta“. Secondo i dati raccolti dall’organismo delle Nazioni Unite, “4,7 milioni di persone, circa due terzi della popolazione del Darfur, subiscono direttamente le conseguenze del conflitto. Metà di essi sono bambini. Circa 2,7 milioni di sfollati sopravvivono in 165 campi di accoglienza”. È praticamente impossibile effettuare valutazioni attendibili, ma si stima che dal 2023 siano state uccise più di 150.000 persone, mentre più ci 500.000 bambini sono morti a causa della malnutrizione.

Secondo Medici Senza Frontiere, più di 30 milioni di persone – su una popolazione di 47,5 milioni –, necessitano di assistenza umanitaria. Un’insicurezza alimentare acuta coinvolge più della metà della popolazione, in particolare 8 milioni di persone si trovano al livello di “emergenza” e almeno 638.000 in uno stato di carestia o catastrofe. Il caos politico interno rende inoltre difficilissimo dialogare con le istituzioni, che comunque – spiega ancora MSF – portano avanti una politica genocidaria bipartisan: “Sia SAF che RSF hanno intenzionalmente ostacolato l’ingresso e la circolazione degli aiuti umanitari nel Paese”.
Copertura mediatica della guerra in Sudan
Probabilmente per via della sua portata tragicamente enorme – i numeri su morti, feriti e sfollati lo testimoniano – il conflitto in Sudan non è piombato in quella sorta di oblio mediatico che caratterizza altre guerre, pure altrettanto devastanti, dal Congo all’Indonesia, da Haiti al Myanmar. Ciononostante – in particolare sui media mainstream occidentali, ma anche su testate meno “allineate” – la guerra in Sudan ha trovato relativamente poco spazio.
Eppure non solo i numeri, ma gli stessi metodi utilizzati dai miliziani in Darfur sono compatibili con l’ipotesi di pulizia etnica. Lo stesso ex Segretario di Stato americano Blinken – non esente da interessi nazionali, questo va detto – ha dichiarato a gennaio scorso che sono stati compiuti “crimini contro l’umanità e pulizia etnica. In base alle informazioni raccolte, la conclusione è che sia stato commesso un genocidio”. Nonostante ciò, fino a pochi giorni fa informazioni e notizie quotidiane e dettagliate erano rintracciabili con continuità solo su alcuni canali dedicati o su media dell’area, come Al Jazeera.

Una svolta importante
Intorno al 26 ottobre, le RSF hanno comunicato la presa di El Fasher, importante città del Darfur meridionale abitata da circa 250.000 persone che per circa 18 mesi è stata assediata da parte delle milizie irregolari. Sono diversi gli analisti che individuano in questo avvenimento un possibile bivio: da un lato potrebbe assestarsi un equilibrio di poteri propedeutico alla partizione del Sudan fra le forze di Hemedti e il Governo; dall’altro questa vittoria potrebbe galvanizzare le RSF e spingerle a osare un attacco alla capitale Karthoum e alle aree orientali del paese.
La forza delle immagini
Per testimoniare la presa di El Fasher, i miliziani hanno iniziato a diffondere in rete alcuni video agghiaccianti. In uno si addentrano in un ospedale sventrato e disseminato di cadaveri, uccidendo a sangue freddo i pochi pazienti ancora in vita e impossibilitati a scappare. In un altro a una trentina di persone viene ordinato di andarsene ma appena queste lo fanno vengono falciate dalle raffiche dei miliziani. E ancora, alcuni uomini vengono uccisi alle spalle mentre portano via sacchi, taniche d’acqua e altri beni di prima necessità.
Un po’ come successo per Gaza, queste immagini hanno superato in potenza la forza delle tante parole e dei numeri – pure terrificanti – con cui sinora è stato descritto il conflitto in Sudan. Questo aspetto è molto interessante e merita una riflessione per la sua capacità di smuovere le coscienze – e spesso anche gli algoritmi. “Senza essere esposti a un flusso continuo di immagini crude, 150.000 morti non li riusciamo a contemplare”, osserva Cecilia Sala in una recente puntata del suo podcast su Chora Media.
E in effetti è proprio così e il caso di Gaza lo testimonia. È vero: il coinvolgimento che settimana dopo settimana ha investito il pubblico occidentale, in particolare quello italiano, è dovuto anche a una certa familiarità con la questione palestinese, profondamente radicata nella storia culturale e politica del nostro paese. Ma l’aspetto originale del conflitto dal 7 ottobre in poi sono state le immagini, che hanno portato quotidianamente si nostri schermi contenuti inediti nella storia tanto della narrazione giornalistica quanto dei social media.
Le ormai famose anteprime oscurate di Instagram e gli avvisi “distressing content” popolano le nostre bacheche, creando una connessione emotiva profonda con i protagonisti e le protagoniste delle drammatiche vicende che quelle immagini raccontano, rubando il posto a narrazioni scritte o report numerici che non hanno questa prorompente capacità di fare breccia. Da pochi giorni lo stesso sta avvenendo in Sudan e sono proprio i protagonisti – in questo caso gli aguzzini – a realizzare e diffondere i video in questione.
E adesso?
Non è prevedibile quanto durerà questo picco di attenzione mediatica. Anzitutto sono moltissime le incertezze sul prosieguo di una guerra che, come accennato prima, neanche gli analisti più attenti riescono a pronosticare. Il fatto che – contrariamente al genocidio di Gaza – non vi siano legami diretti con il contesto italiano e occidentale allontana ulteriormente la guerra in Sudan dalla nostra attenzione. È anche difficile individuare – e questa è un’altra differenza sostanziale rispetto a Gaza – un aggredito e un aggressore, una vittima e un carnefice, e questo complica la comprensione stessa delle ragioni del conflitto.
La speranza è che questi video, concepiti probabilmente dai loro autori come strumenti di propaganda e realizzati allo scopo di celebrare le proprie vittorie e incutere timore, diventino un trigger in positivo per il pubblico occidentale, spesso troppo omologato e settato sulla narrazione mainstream che ha depennato il Sudan dagli argomenti su cui concentrare la proprio attenzione.
Informazioni chiave
Anni di guerra, centinaia di migliaia di morti
L’inizio della guerra in Sudan viene fatto risalire al 2003, ma è il 15 aprile del 2023 che il conflitto subisce un’impennata. In questi anni di guerra si stima che le persone uccise siano circa 150.000.
Se ne parla poco
Nonostante l’impatto devastante e milioni di persone morte, ferite e sfollate, l’attenzione mediatica sulla guerra in Sudan non è mai stata elevata.
La svolta
Dopo la conquista della città di El Fasher, i miliziani dell’esercito irregolare hanno iniziato a far circolare violenti video di uccisioni ed esecuzioni sommarie di civili attirando l’attenzione mediatica.
La forza delle immagini
Media e social hanno cominciato a parlare di più del Sudan, anche perché le immagini sono più dirette, comprensibili ed emotivamente stimolanti di racconti e report statistici.









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