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27 Maggio 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Elezioni amministrative: Silvia Salis conquista Genova e a Taranto… silenzio sull’Ilva – 27/5/2025

Amministrative tra ballottaggi e ritorni alla sinistra, violenze a Gerusalemme e nuove operazioni israeliane su Gaza, mentre World Network continua a raccogliere iridi nel mondo.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Domenica e ieri si è votato in 116 comuni italiani per eleggere le amministrazioni comunali. Quindi sindaci e giunta. Di questo 3 erano capoluoghi di provincia, Ravenna, Taranto e Matera e uno capoluogo di regione, Genova. Vediamo un po’ come è andata.

A Genova, dopo dieci anni di amministrazione di centrodestra, è arrivata una sorpresa, o meglio una novità. Silvia Salis, ex atleta olimpica campionessa di lancio del martello, dirigente del Coni, è la nuova sindaca. Ha vinto con un margine più netto del previsto, da candidata civica, ma appoggiata da una coalizione larghissima che ha messo insieme tutto il fronte progressista – Pd, M5s, Azione, Avs, Italia Viva, persino Possibile. Una roba che sembrava impossibile e raramente si è vista in Italia. 

Fra l’altro ha vinto alla fine di una campagna elettorale caratterizzata, come ci raccontava qualche settimana fa Emanuela Sabidussi nella rassegna stampa ligure, da svariati attacchi sessisti, commenti paternalisti, battute da bar. Un senatore di Forza Italia l’aveva definita “Caruccia ma inesperta”. Salis però ha saputo trasformare queste offese svilenti in un’arma a suo favore nella contesa elettorale contro Pietro Piciocchi, figura molto più navigata ma anche immersa da sempre nei meccanismi politici. Quei meccanismi che sappiamo essere non sempre limpidi e che sempre più generano scetticismo più che sicurezza nelle persone. Fra l’altro anche l’Affluenza è stata in crescita, quasi al 55% rispetto al 47,17% della tornata precedente.

A Ravenna invece cambia poco: il candidato di centrosinistra Barattoni ha vinto senza bisogno del ballottaggio, con un margine molto ampio, pur con un’affluenza però in calo rispetto a 4 anni fa. È stata del 49% rispetto al 54 del 2021. A Matera invece si andrà al ballottaggio con un testa a testa molto serrato fra centrosinistra e centrodestra, e qui l’affluenza è stata sempre in calo rispetto alla precedente tornata, ma considerate che allora aveva votato oltre il 70% delle persone e comunque stavolta ha votato il 65%. Percentuali indiane.

Ma forse l’elezione più interessante da analizzare è quella a Taranto, dove le elezioni si sono svolte in un clima di incertezza e frammentazione politica generale. Con sullo sfondo lo spettro della questione irrisolta dell’ex Ilva. Il sindaco uscente, Rinaldo Melucci, che era da sempre noto per le sue posizioni critiche nei confronti dell’ex Ilva, non si è ricandidato. La sua amministrazione è caduta nel novembre 2023, quando 17 consiglieri comunali si sono dimessi, portando allo scioglimento anticipato del consiglio comunale e al commissariamento del Comune.

Ben sei candidati si sono contesi la carica di sindaco. Tra questi, Piero Bitetti, sostenuto da una coalizione di centrosinistra composta a sua volta da otto liste, è in vantaggio ma si avvia al ballottaggio contro Francesco Tacente, supportato da una serie di liste civiche. In tutta la campagna elettorale, come spiega Avvenire, la questione dell’ex Ilva ha rappresentato un tema centrale, ma quasi tutti i candidati hanno evitato di prendere posizioni nette. Bitetti ha dichiarato che “la salute non è negoziabile”, ma ha cercato di evitare scontri istituzionali. Tacente si è detto favorevole a una transizione ecologica dell’industria, “attraverso un percorso che coniughi sviluppo economico, salvaguardia ambientale e benessere della popolazione”. Però nessun candidato ha espresso posizioni chiare e nette. 

Anche a Taranto come a Genova l’affluenza è stata in crescita, a quasi il 57%. Che se ci pensate è un risultato sorprendente, in un luogo in cui la politica locale ha mostrato una incapacità, anzi una impossibilità di intervenire e decidere sulla questione in assoluto più importante per gli abitanti della zona.

C’erano i negozi chiusi, le serrande abbassate per precauzione, le strade semi-deserte, ma non è bastato. A Gerusalemme, nel cuore della Città Vecchia, ieri mattina il mercato si è trasformato in un teatro di violenza. In occasione della “Giornata di Gerusalemme”, decine di giovani israeliani di estrema destra hanno marciato tra le viuzze del suq, insultando, aggredendo, sputando sui passanti arabi. “Possa il tuo villaggio bruciare”, urlavano. “Morte agli arabi”. 

Hanno preso a calci le porte dei negozi, terrorizzato i pochi bottegai che avevano deciso di restare aperti. E mentre tutto questo accadeva, la polizia presente sul posto, secondo diversi testimoni, tra i quali alcuni membri dell’organizzazione pacifista israelo-palestinese “Standing Together”, è rimasta a guardare, numericamente troppo esigua per intervenire, o forse semplicemente disinteressata. Solo più tardi, quando ormai la violenza si era consumata, alcuni degli aggressori sono stati arrestati.

Vi do qualche elemento di contesto per aiutarvi a capire, perché Gerusalemme Est, dove sono avvenuti questi fatti, rappresenta uno dei nodi più controversi e simbolici del conflitto israelo-palestinese. 

Fino al 1967, Gerusalemme era divisa: la parte Ovest era sotto controllo israeliano, quella Est – compresa la Città Vecchia con i luoghi sacri di ebrei, musulmani e cristiani – era amministrata dalla Giordania. Dopo la Guerra dei Sei Giorni nel 1967, Israele ha occupato e successivamente annesso Gerusalemme Est, dichiarando l’intera città come sua capitale “eterna e indivisibile”. Ma questa annessione non è riconosciuta dalla comunità internazionale, che considera Gerusalemme Est territorio occupato.

A Gerusalemme Est vivono oggi circa 350.000 palestinesi e circa 200.000 coloni israeliani. I palestinesi che vi risiedono non hanno la cittadinanza israeliana, ma uno status di “residenti permanenti”, che può essere revocato in qualsiasi momento se non riescono a dimostrare che vivono lì stabilmente. Non votano alle elezioni nazionali israeliane e non hanno accesso paritario ai servizi pubblici.

Negli anni Israele ha portato avanti politiche per ridurre la presenza palestinese nella zona e cambiare l’equilibrio demografico. Tipo: demolizioni di case palestinesi, espansione degli insediamenti ebraici, restrizioni urbanistiche, arresti arbitrari. Anche perché sempre a Gerusalemme Est ci sono alcuni luoghi sacri a varie religioni monoteiste, come la Spianata delle Moschee (per i musulmani) o il Monte del Tempio (per gli ebrei), che è spesso sono epicentro di scontri.

Quindi ieri, in questo territorio delicatissimo, dove è da anni in atto un’occupazione illegale, e dove sulla carta non c’è un conflitto, centinaia di estremisti israeliani hanno preso d’assalto la popolazione musulmana. 

Mentre nel frattempo anche gli altri fronti del conflitto arrivano notizie drammatiche. Sempre ieri a Gaza City, capitale della Striscia di Gaza, almeno 36 persone sono rimaste uccise in un attacco israeliano che ha colpito una scuola usata come rifugio da civili sfollati. Le tende che ospitavano le famiglie hanno preso fuoco e molte delle vittime sono morte nel sonno. Al solito l’esercito israeliano sostiene che nella struttura fossero presenti miliziani di Hamas. Nel sud della Striscia, a Khan Younis, l’esercito ha lanciato una nuova offensiva “senza precedenti”, ordinando l’evacuazione di tre quartieri. 

Sul fronte umanitario, Israele ha ufficialmente avviato un piano alternativo di distribuzione degli aiuti a Gaza, affidando la cosa a una fondazione privata, la Gaza Humanitarian Foundation che a breve nei piani di Israele sarà l’unica a poter operare nella Striscia, sotto la protezione di contractors statunitensi, ovvero militari di aziende private Usa. Una roba che secondo tutte le organizzazioni internazionali viola i principi del diritto umanitario. In un articolo di ieri il Post si chiede se Israele può ancora essere definito una democrazia. E la risposta è: non esattamente, o perlomeno non del tutto.

Ieri abbiamo pubblicato su ICC l’intervista alla portavoce italiana della Global march to Gaza, Antonietta Chiodo, che ha raccontato alla nostra Elisa Cutuli tutti i dettagli di questa iniziativa che vuole sbloccare il valico di Rafah e permettere l’ingresso degli aiuti umanitari. Una gigantesca marcia globale che parte dall’Egitto il 13 giugno, nell’intervista diamo tutti i dettagli anche su come fare a partecipare. Noi fra l’altro ve la racconteremo giorno per giorno, tramite le nostre news e qui in rassegna, attraverso le voci dei partecipanti.

Non è una cosa da prendere sottogamba, è un’iniziativa in cui si rischia, in cui bisogna partire consapevoli di ciò a cui si va incontro sia dal punto di vista psicologico che fisico. Però ecco, è sicuramente un modo per attivarsi, per non restare a guardare, per non accontentarsi delle mezze dichiarazioni o delle prese di distanza solo a parole dei nostri governi. 

In tutto ciò, l’aria comunque sta cambiando davvero. Come nota Lavinia Marchetti su Contropiano, “Israele sta perdendo la guerra. Non quella militare, quella morale. E chi aveva tenuto la bocca chiusa per diciannove mesi, chi aveva finto di non vedere, chi aveva giustificato l’ingiustificabile, adesso comincia a cambiare registro.

Editoriali che fino a ieri tacevano si mettono il lutto al braccio. Il Financial Times parla di vergogna (maggio 2025). The Economist evoca l’uscita da una guerra che non ha più giustificazioni (maggio 2025). The Independent pubblica un editoriale che accusa Starmer di silenzio complice (11 maggio 2025). The Guardian si chiede senza remore: “Cos’è questo, se non un genocidio?” (12 maggio 2025). Persino The Times, storicamente conservatore, si sbilancia. Sono comitati editoriali, non giornalisti individuali. Sono istituzioni della stampa che fino ad ora hanno gestito la cornice narrativa e che solo adesso cambiano posizione.

Segnali interessanti da cogliere. Poi possiamo riflettere sull’ipocrisia dei media, ma lo faremo un altro giorno. Intanto, cogliamo i segnali.

A San Francisco, un paio di settimane fa, alcune persone si sono sedute davanti a una sfera cromata che sembrava uscita da un film di fantascienza. Si chiama “Orb” ed è lo scanner oculare di World Network – ex Worldcoin – che in pochi secondi rileva tutti i dettagli unici dell’iride, creando una sorta di impronta digitale dell’occhio. In cambio, chi ha accettato di farsi scansionare ha ricevuto una manciata di criptovalute e un certificato digitale: la prova che è un essere umano, e non un’intelligenza artificiale.

Ne parla un articolo del Post. L’evento in California è solo l’ultimo di una lunga serie. World Network afferma di aver già raccolto le iridi di 12 milioni di persone, in particolare in Africa, Asia e America Latina. Dietro il progetto, però, c’è molto più di un esperimento tecnologico: c’è una visione distopica del futuro e c’è – inevitabilmente – un business gigantesco che intreccia criptovalute, intelligenza artificiale e dati biometrici.

L’idea di fondo è semplice quanto controversa: secondo Sam Altman, fondatore sia di World che di OpenAI (la società dietro a ChatGPT), in futuro sarà impossibile distinguere, perlomeno nelle nostre esistenze digitali, tra esseri umani e AI online. Serve quindi un “bollino di umanità”, che certifichi chi siamo davvero. E questo bollino può arrivare solo da un dato unico e inimitabile: la nostra iride.

World ha quindi creato una “World ID”, un’identità digitale globale, ancorata alla biometria. Ma non solo: la scansione garantisce anche l’accesso a Worldcoin, una criptovaluta pensata per diventare un giorno lo strumento del reddito universale. L’idea è che, in un futuro dominato dalle macchine, un sussidio mensile diventi necessario per compensare i posti di lavoro persi. E World vuole essere il sistema che distribuisce quel reddito – ma solo a chi può dimostrare di essere umano, tramite la propria iride.

Il problema, però, è che questo futuro ipertecnologico sta già creando nuove disuguaglianze e minacce. L’azienda è stata accusata di aver sperimentato i suoi sistemi biometrici soprattutto nei paesi poveri, creando un “database dei corpi dei poveri” senza garanzie reali. Le critiche arrivano anche sulla gestione della sicurezza dei dati: secondo Edward Snowden, World conserva comunque un hash crittografico delle iridi raccolte, un tipo di dato che – in caso di furto – potrebbe comunque compromettere la privacy degli utenti.

A questo si aggiungono altri problemi: le iridi vengono scansionate da dispositivi gestiti da operatori precari, reclutati in fretta e malpagati, spesso in paesi dove la protezione della privacy è più blanda. E in almeno tre paesi – Kenya, Indonesia, Brasile – le autorità hanno già bloccato o limitato le attività dell’azienda. Anche l’Unione europea è intervenuta, obbligando World a permettere la cancellazione dei dati su richiesta.

Eppure l’azienda continua a espandersi, spinta da una narrazione tanto potente quanto inquietante: quella di un mondo in cui per essere umani dovremo dimostrarlo continuamente, consegnando pezzi sempre più intimi della nostra identità – magari in cambio di qualche criptovaluta.

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