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16 Dicembre 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Come si spiega la svolta a destra del Cile? – 16/12/2025

Ballottaggio in Cile: vince José Antonio Kast e il paese vira a destra; in Italia possibile vendita di Repubblica e La Stampa fra le proteste; a dieci anni dall’accordo di Parigi il Guardian fa il punto.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
antonio kast cile

Questo episodio é disponibile anche su Youtube

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Trascrizione episodio

Domenica 14 dicembre 2025 in Cile c’è stato il ballottaggio per eleggere il nuovo o la nuova presidente. Il Cile è una repubblica presidenziale e quindi la figura del presidente è quella più rilevante politicamente. Ieri mattina sono stati diffusi i risultati ufficiali e ha vinto, come dicevano anche i sondaggi, il candidato di destra radicale José Antonio Kast con circa il 58% contro quella di sinistra, anzi formalmente comunista, Jeannette Jara.

Kast ha vinto, racconta Reuters, con una campagna elettorale dominata da due temi, che sono quelli classici della destra sovranista: sicurezza (cioè contrasto alla criminalità, alle gang, ecc.) e lotta all’immigrazione, soprattutto al confine nord dove c’è una forte immigrazione irregolare soprattutto dal Venezuela, gestita dal narcotraffico. Su questi due temi Kast ha costruito buona parte della sua proposta politica, e una narrazione fatta di “ordine”, “mano dura”, “riprendiamoci le strade”. 

Vediamo però meglio chi è Antonio Kast. Reuters lo descrive così: è un politico cileno ultraconservatore, ex deputato, oggi leader della destra più dura: è il fondatore del Partido Republicano. È cattolico, padre di nove figli, e negli anni si è fatto conoscere per posizioni molto rigide su temi come aborto e diritti civili, oltre a un approccio “law & order” molto marcato. 

Il Guardian invece sottolinea una questione nostalgica non da poco: Kast non fa mistero di ammirare l’ex dittatore Augusto Pinochet, cosa che in Cile è sempre stata una linea rossa per tanti. E infatti il suo successo viene letto da molti come il segnale di una “normalizzazione” politica della destra pinochettista.

L’altra questione che secondo me è interessante indagare è la transizione Boric Pinochet. Mi interessa sempre capire come è possibile per un paese fare un passaggio così drastico, tipo Bolsonaro Lula, ma in questo caso al contrario. Venivamo da un Presidente simbolo del lotte studentesche, socialista, molto di sinistra, e 4 anni dopo vince il suo esatto opposto. Come succede questa roba qua?

Reuters racconta che, pur restando uno dei paesi più sicuri della regione, il Cile ha visto un aumento della criminalità violenta legata anche a criminalità organizzata e rotte di traffico, e questa cosa ha spostato l’asse della politica. Questa informazione è coerente con un osservazione più generale che quasi sempre quando prevale la paura, prevalgono politici conservatori.

Un altro aspetto è probabilmente da cercarsi nella figura della sua opponente. La politologa Claudia Heiss dell’Università del Cile, citata sempre da Reuters, sostiene che la vittoria netta di Kast sarebbe stata alimentata anche dal rifiuto di Jara, percepita da una parte dell’elettorato come “troppo estrema” (anche per la sua appartenenza comunista, sebbene anche Jara abbia cercato in campagna elettorale di proporsi come una moderata), oltre all’effetto logoramento dell’esperienza Boric, che aveva consumato il suo capitale politico nei confronti degli elettori.

A pesare sul risultato è stato anche il fatto che per la prima volta dopo diversi anni il Cile prevedeva il voto obbligatorio, con multe per chi non votava. L’affluenza è stata quindi molto alta e secondo l’analisi deò giornale cileno La Tercera, Kast avrebbe intercettato più di altri proprio quella massa di persone che prima non votava, e in più avrebbe drenato voti da bacini “non ideologici”. 

Poi appunto c’è il tema, in questo caso credo importantissimo, del voto obbligatorio. La Tercera fa notare numeri abbastanza impressionanti: affluenza molto più alta, e Kast che praticamente raddoppia i voti rispetto al ballottaggio del 2021, andando a prendersi pezzi di elettorato che prima non partecipavano o che non si riconoscevano nei blocchi classici.

Il magazine CIPER parla di un elettorato “underground”, stanco, poco rappresentato e spesso fuori dai radar delle élite e dei sondaggi.

Ultimo tassello: Kast adesso avrà comunque un problema “fisico”, che è il Parlamento. Sempre Reuters sottolinea che il Congresso è diviso, e questo vuol dire che molte promesse “muscolari” di Kast, comunque realisticamente non si potranno fare, perlomeno non per come le ha messe giù il nuovo presidente. O meglio il prossimo presidente, visto che entrerà formalmente in carica a marzo. Vedremo.

Si sta parlando molto di giornali, sui giornali, in questi giorni. Il motivo è che due fra i principali quotidiani italiani, La Repubblica e La Stampa, sono al centro di una grande crisi e andranno probabilmente incontro a una vendita, o a detta di alcuni una svendita

Il gruppo editoriale Gedi che li edita, controllato dalla holding Exor, che a sua volta è di proprietà della famiglia Agnelli‑Elkann, ha avviato trattative esclusive con il gruppo greco Antenna per vendere la maggior parte degli asset editoriali, comprese le due testate, le radio e attività digitali, con l’obiettivo di chiudere l’operazione entro gennaio. 

La situazione ha provocato forti proteste nelle redazioni: giornalisti in stato di agitazione permanente, scioperi e blocchi delle pubblicazioni per chiedere garanzie su posti di lavoro, indipendenza editoriale e pluralismo

In tutto questo caos, ho trovato molto centrato il commento di Alessandro Gilioli, ex vicedirettore dell’Espresso, voce storica di quel mondo, che ripercorre un po’ la vicenda e da una sua lettura che ho trovato interessante. Ve la leggo, così come compare sul suo profilo FB:

“C’ero, quando nel 2017 i figli di De Benedetti presero come soci gli Agnelli-Elkann e il Gruppo editoriale L’Espresso divenne Gedi. Prima si chiamava “Gruppo editoriale L’Espresso” perché da quel settimanale era nato tutto: Repubblica, la rete di quotidiani locali, le radio. Dell’Espresso, nel nuovo marchio Gedi, rimase solo la E rossa nel marchio.

C’ero anche quando nel 2020 i figli di De Benedetti si vendettero tutto agli Agnelli-Elkann, che avevano bisogno di Repubblica per coprire la fuga della Fiat dall’Italia. 

Arrivarono i dirigenti di Torino, l’aria in via Cristoforo Colombo cambiò parecchio, subito fecero fuori il direttore di Rep, quello dell’Espresso cercò di resistere fino a quando il nuovo editore diede via il settimanale – quello che aveva dato vita al tutto – al proprietario della Salernitana, che poi a sua volta lo passò a un altro imprenditore campano, settore stoccaggio carburanti fossili.

Dell’Espresso quindi non rimase nulla, in Gedi, tranne quella E rossa ormai fuori luogo e fuori tempo. 

Intanto Elkann distruggeva tutta la rete dei quotidiani locali, vendendoli o svendendoli, cambiava un paio di direttori di Rep. continuando a crollare nelle copie, riduceva ogni giorno gli spazi in affitto in via Colombo rendendo la redazione una ristretta piccionaia – vent’anni fa erano dieci piani più un altro palazzo per l’amministrazione dall’altra parte del vialone, e l’amministratore delegato prometteva di creare un ponte pedonale tra i due edifici per andare dall’uno all’altro senza attraversare la strada. Ora i sopravvissuti di Gedi sono tutti congestionati in due o tre piani, mi dicono.

Per me il downsizing, del resto, aveva già avuto una spia facile: quando sono arrivato all’Espresso nel 2002 in redazione eravamo in 75; quando sono scappato dai nuovi arrivati Fiat nel dicembre del 2020 – dimezzandomi lo stipendio per andare a Rp – i miei vecchi colleghi del settimanale erano rimasti in 19.

Quindi non c’ero più, nella deriva successiva: per fortuna, per intuito, o per cattivo carattere.

Eppure ora mi fa malinconia che, dopo lungo meretricio e altrettanto lunga malattia, tutta la baracca residua venga di nuovo venduta, questa volta a un armatore ed editore greco socio del fondo sovrano saudita. 

Mi dicono che il magnate ellenico sia in realtà interessato alle radio, che fanno utili, ma deve prendersi tutto il pacchetto e di Repubblica non gli importa granché, forse a sua volta la venderà di nuovo – o la ridurrà a poca cosa.

Ogni tanto, egoisticamente, penso al mio percorso professionale e su tutto – soddisfazioni, ambizioni, delusioni, reportage, chiusure in tipografia, scazzi di scrivania o amicizie di redazione – prevale la tristezza di aver visto il declino e l’agonia di quello che sognavo da ragazzo.

Ma transeat, dai”.

“Dieci anni dopo lo storico vertice sul clima di Parigi, che si concluse con il primo e unico accordo globale per limitare le emissioni di gas serra, è facile concentrarsi su ciò che non ha funzionato. Ma i successi, meno evidenti, sono stati altrettanto importanti.

Le energie rinnovabili hanno battuto ogni record lo scorso anno, crescendo del 15% e rappresentando oltre il 90% di tutta la nuova capacità di generazione elettrica. Gli investimenti nell’energia pulita hanno superato i 2mila miliardi di dollari, doppiando quelli nei combustibili fossili.

Le auto elettriche costituiscono ormai circa un quinto delle nuove auto vendute nel mondo. L’energia a basse emissioni di carbonio copre più della metà della capacità di generazione in Cina e India; le emissioni cinesi si stanno stabilizzando, mentre la maggior parte dei Paesi sviluppati è in una fase di decrescita”.

A scrivere queste parole è Fiona Harvey, che è una caporedattrice ambientale del Guardian e che in questo articolo pubblicato in occasione dei 10 anni esatti dalla firma dell’accordo finale di Cop21, racconta come il Paris Agreement abbia attivato una transizione energetica che, secondo molti esperti, non sarebbe avvenuta senza quell’accordo. La soglia degli 1,5 °C e l’obiettivo della neutralità climatica hanno ridefinito politiche, investimenti, regole settoriali. 

Ed Miliband, il ministro dell’energia del Regno Unito, ha detto al Guardian: guardate dove stavano andando le temperature prima dell’accordo di Parigi, se volete giudicare l’impatto di quel vertice. Il pianeta era sulla traiettoria di un riscaldamento superiore ai 4 °C, un aumento catastrofico.

Dopo Parigi, quella stima è scesa a 3 °C. Poi, dopo la Cop26 di Glasgow nel 2021, i nuovi impegni di riduzione delle emissioni hanno portato la previsione a circa 2,8 °C. Oggi, la stima si attesta attorno ai 2,5 °C, se tutte le promesse attuali verranno mantenute.

L’articolo poi racconta anche tutte le vicissitudini climatiche globali, la risposta disomogenea da parte dei diversi paesi, l’elezione di Trump nel 2016 che ha indebolito il processo – ma senza creare quella battuta di arresto che tanti temevano – il ruolo ambivalente della Cina, che sembrava dovesse raggiungere il picco delle emissioni subito dopo il vertice di Parigi, poi ha aumentato le proprie emissioni, tornando fortemente al carbone, forse anche in risposta alle politiche tariffarie di Trump, e che oggi è responsabile del 90% dell’aumento delle emissioni globali post-Parigi, ma è anche leader mondiale nel solare e ha raggiunto numeri impressionanti sulle rinnovabili, che oggi rappresentano il 10% del suo PIL e sembra forse aver raggiunto finalmente il suo picco delle emissioni.

E anche l’India che sta seguendo il suo percorso, con metà della sua capacità di generazione che è ora low-carbon e che ha centrato in anticipo i target – pur non troppo ambiziosi – sulle rinnovabili. E dove tuttavia, anche lì il carbone continua a crescere.

Insomma, anche se possiamo dirci tranquillamente che il Paris agreement è ampiamente insufficiente e che la strada è ancora lunga, non possiamo bollare quell’esperienza come un insuccesso, se osserviamo senza pregiudizi tutto ciò che ha prodotto. 

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