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12 Maggio 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Ucraina-Russia e India-Pakistan, spiragli di pace? – 12/5/2025

Tregua India-Pakistan, apertura Russia-Ucraina, nuovo Papa e voto storico in Albania: il mondo si muove su molti fronti.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Questo episodio é disponibile anche su Youtube

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È stato un weekend segnato da segnali di distensione: tra tregue, proposte di cessate il fuoco e riaperture diplomatiche, il mondo ha visto muoversi qualcosa sul fronte dei conflitti. Dall’Asia all’Europa orientale, si è tornati a parlare — seppur timidamente — di dialogo.

Dopo giorni di tensione, droni, artiglieria e bombardamenti, è arrivata una notizia importante dall’Asia: India e Pakistan hanno raggiunto un accordo per un cessate il fuoco immediato

Cosa curiosa, a dare l’annuncio non sono stati i Governi dei due paesi coinvolti ma — in modo piuttosto teatrale — il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Leggo su Domani, articolo firmato da Luca Sebastiani, “«Dopo una lunga notte di colloqui mediati dagli Stati Uniti, sono felice di annunciare che India e Pakistan hanno raggiunto un accordo per un pieno e immediato cessate il fuoco. Congratulazioni a entrambi i paesi per il loro buon senso e grande intelligenza», ha scritto Trump.

Eppure, soltanto poche ore prima, era stato il vicepresidente JD Vance a dire che quella tra Nuova Delhi e Islamabad fosse «una guerra che fondamentalmente non ci riguarda». Non è stato così.

È il potere delle dichiarazioni fuorvianti o confusionarie dell’amministrazione Trump che in questi mesi si sono continuamente susseguite. Ad ogni modo, sia il Pakistan che l’India hanno confermato il cessate il fuoco valido nei cieli, in mare e in terra, malgrado in serata Nuova Delhi abbia accusato la controparte di violare la tregua, denunciando esplosioni a Srinagar, nel Kashmir indiano.”

La notizia, se il cessate il fuoco reggerà, è una delle prime vere azioni diplomatiche significative del nuovo corso trumpiano, e sembra che in effetti lo zampino del governo Usa ci sia. In particolare del segretario di Stato Marco Rubio, che ha parlato tutta la notte con i leader di India e Pakistan. Il tutto ciò in un contesto in cui venerdì il Pakistan ha ottenuto il via libera a un maxi prestito del Fondo Monetario Internazionale, e la Casa Bianca è in trattative con l’India per un nuovo accordo commerciale.

Rimane da capire quanto durerà la tregua. Perché la situazione resta complessa. Vi faccio un riassunto delle puntate precedenti, che penso possa essere utile.

Al centro del conflitto fra i due paesi c’è soprattutto il Kashmir, regione a cavallo fra India, Pakistan e Cina, è un territorio montuoso e spettacolare, almeno a cercarlo su Google, attraversato da fiumi impetuosi, ricchissimo d’acqua e di storia, ricoperto di foreste, con villaggi abbarbicati sui pendii e città adagiate lungo le valli. Un luogo che sembra idilliaco e paradisiaco e che invece, da quasi 80 anni, è uno dei punti più caldi conflittualmente parlando del pianeta.

Qui, a oltre duemila metri di altitudine, in questi giorni si torna ad ascoltare il fischio dei missili. Martedì sera, l’India ha lanciato un attacco aereo contro diversi obiettivi in Pakistan e nel Kashmir pakistano. Missili, esplosioni, almeno 20 morti. Una ritorsione – ha detto il governo indiano – per l’attentato terroristico del 22 aprile a Pahalgam, località turistica nella parte indiana del Kashmir, dove sono state uccise 26 persone.

Poi, mercoledì, la risposta: il Pakistan ha annunciato di aver abbattuto cinque aerei militari indiani. Tra questi ci sarebbero anche dei Rafale, i jet francesi considerati tra i più avanzati al mondo. L’India non conferma né smentisce, ma la tensione fra i due paesi cresce. 

Perché il Kashmir è una terra contesa da tanto tempo. Appartiene per il 55% all’India, per il 35% al Pakistan e per il 10% alla Cina. Ma soprattutto India e pakistan portano avanti da 80 anni una contesa territoriale irrisolta, tant’è che questa regione è uno dei luoghi più militarizzati del mondo. Decine di migliaia di soldati indiani e pakistani pattugliano le frontiere, si osservano a distanza, a volte si sparano. E le persone vivere tra checkpoint, coprifuoco e blackout di internet.

La storia del conflitto parte da lontano, dal 1947, quando il Regno Unito – che qualcosa c’entra sempre – lasciò l’India, lo fece in fretta e male, così come male c’era rimasto per decenni, dividendo il territorio in due nuovi Stati sulla base della religione: da una parte l’India, a maggioranza indù, dall’altra il Pakistan, a maggioranza musulmana. In mezzo, appunto, il Kashmir. Popolazione prevalentemente musulmana, ma governata da un re indù. Il risultato? Caos, scontri, migliaia di morti. E una decisione che cambiò tutto: il re scelse di aderire all’India. Da lì, la prima guerra.

Da allora, India e Pakistan si sono scontrati almeno cinque volte, più tante schermaglie al confine che nessuno più conta. Il nodo resta sempre quello: chi deve controllare il Kashmir?

In tutto questo, dettaglio tutt’altro che indifferente e devo dire principale motivo per cui il mondo si preoccupa molto di questa guerra, sennò probabilmente non ne avrebbe parlato nessuno, che continuino pure a scannarsi, c’è il fatto che sia l’India che il pakistan sono due potenze nucleari. 

Circa 170 testate ciascuno. In più, c’è tutto un contesto che non aiuta.

L’India è guidata da Narendra Modi, leader nazionalista e promotore di una visione molto identitaria e induista del Paese. Il Pakistan è attraversato da una grave crisi economica, instabilità politica e un esercito che conta più del governo stesso. Da anni, le relazioni sono tese, alimentate anche da retoriche aggressive e propaganda martellante su entrambi i fronti.

Comunque, al momento la situazione sembra essersi almeno parzialmente distesa grazie al cessate il fuoco anche se nella serata di sabato, l’India ha denunciato nuove esplosioni nel Kashmir, a Srinagar, accusando il Pakistan di aver già violato l’intesa. 

E mentre il vicepresidente americano JD Vance si era appena smarcato dicendo che “non ci riguarda”, la diplomazia a stelle e strisce lavorava su più fronti, confermando ancora una volta che le uscite pubbliche e le reali strategie di Washington non sempre coincidono.

Nel frattempo, a Ginevra si è tenuto anche il primo round dei nuovi negoziati commerciali tra Stati Uniti e Cina, segno che l’amministrazione Trump, fra ambiguità e pressioni, sta tornando a usare la diplomazia per tenere insieme un mondo sempre più fragile.

Negoziati potrebbero esserci a breve anche fra il governo russo e quello ucraino si parla persino per la prima volta di negoziati diretti. Che vuol dire, vuol dire che fino ad ora ogni tentativo, se si esclude quei primi colloqui a pochi mesi dall’invasione russa, che naufragarono per colpa, si dice, di Boris Johnsonn, era stato mediato da qualche paese terzo che aveva parlato separatamente con le due delegazioni, adesso è stato lo stesso Putin a proporre dei colloqui diretti fra i due paesi per giungere a un accordo di pace,  ha annunciato la disponibilità della Russia a riprendere i negoziati diretti con l’Ucraina, proponendo un incontro a Istanbul il prossimo 15 maggio. 

Ma come siamo arrivati fin qui? Diciamo che è stata una girandola di messaggi, dichiarazioni, cose. Una catena di eventi iniziata in occasione dell’80° anniversario del cosiddetto giorno della Vittoria, un giorno molto sentito in Russia, il 9 maggio, che è il giorno della vittoria dell’esercito russo sulla Germania nazista. In vista di quelle celebrazioni Putin ha dichiarato un cessate il fuoco unilaterale di 3 giorni. 

A quel punto sono intervenuti i volenterosi. Ricordate la coalizione dei volenterosi? Quel gruppo di paesi trainato principalmente dal presidente francese Macron e dal premier britannico Starmer, nato con l’obiettivo di sostenere l’Ucraina nella sua difesa contro l’aggressione russa e di promuovere un cessate il fuoco duraturo? Nel weekend i leader di Francia, Germania, Regno Unito e Polonia hanno fatto visita a Kiev e hanno lanciato un ultimatum a Mosca: accettare entro 24 ore un cessate il fuoco completo e incondizionato di 30 giorni, o affrontare nuove sanzioni economiche e un aumento del supporto militare all’Ucraina.

E arriviamo a ieri, quando in risposta, Putin ha di fatto rifiutato il cessate il fuoco richiesto ma ha rilanciato proponendo di riprendere i negoziati diretti con l’Ucraina il 15 maggio a Istanbul, “senza condizioni preliminari”. Il presidente turco Erdoğan ha confermato la disponibilità della Turchia a ospitare i colloqui, sottolineando l’importanza di riprendere le trattative da dove si erano interrotte nel 2022. Anche Trump ha espresso cauto ottimismo, definendo l’annuncio di Putin “potenzialmente un grande giorno per la Russia e per l’Ucraina”.

A quel punto il presidente ucraino Zelensky ha dichiarato che l’Ucraina è pronta a partecipare ai colloqui a Istanbul, ma solo se la Russia confermerà un cessate il fuoco completo e duraturo a partire da oggi. Insomma è un po’ il giochino dell’io non faccio il primo passo se prima non lo fa l’altro, che può essere molto rischioso, però ecco, forse non siamo mai stati così vicini all’avvio di colloqui diretti come adesso.

Resta da vedere se la proposta russa rappresenti una reale apertura verso la pace o un tentativo di guadagnare tempo di fronte alle crescenti pressioni internazionali. Lo scopriremo nei prossimi giorni.

Si continua a parlare molto del nuovo Papa Leone XIV, delle sue prime azioni, delle sue prime scelte. Ad esempio è curioso che nel suo primo incontro formale con i cardinali, come racconta FanPage, il nuovo Pontefice ha parlato soprattutto di intelligenza artificiale, definendola “Una delle questioni più critiche che l’umanità deve affrontare”. Tanto da aver influito anche sulla scelta del suo nome pontificale.

“Ai nostri giorni, la Chiesa offre a tutti il tesoro del suo insegnamento sociale in risposta a un’altra rivoluzione industriale e agli sviluppi nel campo dell’intelligenza artificiale che pongono nuove sfide per la difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro”, ha detto il nuovo Papa ai membri del clero.

“Ho scelto di prendere il nome di Leone XIV per diverse ragioni, ma soprattutto perché Papa Leone XIII nella sua storica Enciclica Rerum Novarum ha affrontato la questione sociale durante la prima grande rivoluzione industriale.” Oggi a circa 130 anni di distanza ci troviamo di fronte a una nuova rivoluzione: quella digitale. 

Interessante. Tuttavia c’è anche un’altra interpretazione del nome di Leone XIV, che vi accenno, e che prendo da un articolo molto interessante sul magazine Le Grand Continent. Nell’intervista, Pasquale Annicino, docente di diritto e religione, interpreta l’elezione di Robert Francis Prevost come una svolta geopolitica storica: per la prima volta un Papa viene dagli Stati Uniti, nazione che oggi rappresenta anche un polo ideologico e culturale fortemente influenzato dal trumpismo, e Prevost nello scegliere il nome di leone XIV potrebbe aver voluto mandare anche un messaggio chiaro di indipendenza della Chiesa dal fanatismo trumpiano.

Annicino tira fuori infatti l’enciclica Testem Benevolentiae di Leone XIII, in cui si criticava l’“americanismo”, ossia l’adattamento del cattolicesimo ai valori della modernità americana (individualismo, attivismo sociale, subordinazione del religioso al secolare).

La scelta di Prevost, in questo senso, rappresenterebbe una difesa attiva della Libertas Ecclesiae, con un Papa americano chiamato non a piegarsi al nazionalismo statunitense, ma a contrastarlo dal suo stesso interno. Annicino conclude che questa elezione segna un possibile cambiamento d’epoca e una nuova fase in cui la Chiesa riafferma il proprio ruolo indipendente nel mondo, in un contesto in cui religione e politica tornano a essere strumenti di potere e identità in competizione. Vedremo.

Ultima notizia del giorno, di questa rassegna dominata dalle hard news dell’attualità e poco da altri temi a noi cari come le tematiche ecologiche, mi rendo conto, si è votato in Albania nel weekend. E per la prima volta hanno potuto votare a distanza anche gli albanesi emigrati all’estero, il che ha reso queste elezioni molto più imprevedibili.

In pratica Una decisione della Corte costituzionale albanese, che ha raccolto le sollecitazioni provenienti dalle rappresentanze degli albanesi all’estero, ha concesso il diritto di votare a distanza agli albanesi non residenti e costretto il parlamento a rivedere la legge elettorale, a luglio 2024.

Si tratta di 1,7 milioni di aventi diritto, circa il 36 per cento del corpo elettorale che quindi ha avuto il diritto di votare. E questo ha reso davvero difficile da pronosticare l’esito delle elezioni scatenando la fibrillazione dei partiti. Proprio il voto a distanza ha reso anche piu lento lo spoglio, tant’è che secondo i pronostici ci vorranno fino a 48 ore dalla chiusura dei seggi, avvenuta ieri sera alle 19, per avere i risultati definitivi. Nel momento in cui registro gli exit poll danno in ampio vantaggio Edi Rama, di centrosinistra, che se dovesse vincere, diventerebbe il politico che è rimasto al potere per più tempo nella storia dell’Albania dopo il dittatore comunista Enver Hoxha. Rama è anche una figura piuttosto controversa accusato di aver accentrato il potere, limitato la libertà di stampa e anche di corruzione e favoritismi. 

Gli exit poll però vanno presi con cautela perché sono sondaggi fatti direttamente sui seggi, ma comunque sondaggi. Ne riparliamo domani.

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