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20 Ottobre 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Venezuela: il piano segreto di Trump per rovesciare Maduro – 20/10/2025

Dalla taglia di Trump su Maduro alla bomba carta contro Ranucci, passando per la crisi delle foreste tropicali in Australia e il rallentamento del bostrico nei boschi italiani.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Trascrizione episodio

Venerdì Donald Trump ha autorizzato la CIA a condurre operazioni segrete in Venezuela. Secondo il New York Times, che ha diffuso la notizia citando fonti interne all’amministrazione USA, il governo Trump avrebbe anche messo una taglia da 50 milioni di dollari su Maduro, per chiunque fornisca informazioni utili alla sua cattura con l’accusa di narcotraffico. Quando un giornalista ha chiesto al Presidente se la CIA è autorizzata a uccidere Maduro. Trump ha risposto con un “no comment”.

Fra l’altro questa notizia arriva in un clima di tensione già altissima fra i due Paesi, tensione fomentata soprattutto dagli Usa che da inizio settembre hanno assaltato diverse imbarcazioni partite dal Venezuela, uccidendo 27 persone, accusate senza prove di narcotraffico.

Ma perché improvvisamente fare la guerra al Venezuela e al regime di Maduro sembra essere diventata una priorità per Trump? Ecco, questa domanda è interessante, e la risposta tira in ballo sì il narcotraffico, ma probabilmente anche il petrolio, la premio nobel per la Pace, l’Ucraina, la Russia, i missili Tomahawk e tante altre cose. Cerchiamo di vederci più chiaro.

Come dicevamo Trump da un mese e mezzo ha iniziato a dare ordini di assaltare navi venezuelane. Leggo dal Post:

Dall’inizio di settembre almeno 27 persone sono state uccise in sei operazioni militari statunitensi contro imbarcazioni accusate di trasportare droghe illegali nel mar dei Caraibi, vicino al Venezuela. Durante l’ultimo di questi attacchi, avvenuto venerdì 17 ottobre, gli Stati Uniti hanno ucciso un numero imprecisato di persone: fonti del governo hanno anche detto al Washington Post che due persone sopravvissute sono state arrestate. 

Gli attacchi fanno parte di un’estesa operazione militare voluta dall’amministrazione di Donald Trump, che ha lo scopo dichiarato di contrastare il traffico di droga dal Venezuela agli Stati Uniti. Fin da subito però sono stati molto contestati, e sono ritenuti illegali da molti esperti di diritto.

L’operazione era cominciata a fine agosto, quando gli Stati Uniti iniziarono a inviare navi militari al largo del Venezuela, impiegando quasi 5mila militari. Da tempo Trump accusa il presidente venezuelano Nicolàs Maduro (che governa in modo autoritario) di far parte insieme ad altri membri del governo di un’organizzazione di narcotrafficanti chiamata Cártel de los Soles, la cui esistenza ed eventuale struttura gerarchica sono dibattute.

L’amministrazione Trump sostiene di aver colpito navi che stavano trasportando droga verso gli Stati Uniti. Tutto però si è svolto in modo molto inusuale. Invece di sequestrare l’eventuale carico e arrestare le persone a bordo, i militari hanno attaccato le imbarcazioni in acque internazionali, uccidendo persone contro cui non era stata avviata alcuna indagine né tantomeno un processo. Delle persone uccise si sa poco o nulla: è stata l’amministrazione a dire di averne uccise 27, senza fornire prove né sul loro numero né sul fatto che trasportassero sostanze illegali. Anche delle due persone che sarebbero state arrestate venerdì non si sa nulla.

Insomma, tutto molto nebuloso. Non è un segreto però, che oltre alla guerra contro i cartelli della droga, Trump ambisca ad altro. Il Venezuela infatti è il paese al mondo con maggiori risorse di petrolio. Secondo i dati recenti, il Venezuela vanta circa 303 miliardi di barili di petrolio cosiddetto provat, cioé petrolio di cui siamo piuttosto certi e che è estraibile con le tecnologie attuali.

C’è un altra inchiesta del NYT che afferma che Maduro avrebbe proposto di aprire tutti i progetti attuali e futuri di petrolio e oro alle compagnie statunitensi, di riaprire le esportazioni energetiche verso Washington — attualmente dominate dalla Cina — e di rescindere i contratti di cooperazione con aziende cinesi, iraniane e russe. A patto che Washington fermasse l’escalation militare.

Ma nonostante le ampie concessioni, la Casa Bianca avrebbe rifiutato l’offerta e interrotto i contatti diplomatici con Caracas, secondo il New York Times. Quindi da un lato abbiamo Maduro che, mentre pubblicamente difende la rivoluzione socialista, sottobanco sarebbe disposto a offrire a Washington un pacchetto di concessioni che avrebbero smantellato il modello nazionalista su cui si fondò il chavismo.

Dall’altro abbiamo Trump che rifiuta preferendo la linea dura, usando la retorica – in parte anche in maniera convinta – di Maduro visto come un “fuggitivo dalla giustizia statunitense”, leader del cosiddetto Cartello dei Sole, la cui presenza nel territorio e nelle istituzioni trasforma il Venezuela in un “narco-stato”.

Ma perché Trump rifiuta? L’inchiesta suggerisce che lo abbia, oltre all’antipatia personale verso Maduro, che comunque essendo Trump non è un fattore da sottovalutare, perché avrebbe ricevuto un’offerta ancora più vantaggiosa. Da chi? Proprio dalla leader dell’oppositore, neo premio nobel per la Pace María Corina Machado (che aveva prontamente dedicato il Premio proprio a Trump).

Che avrebbe proposto maggiori benefici economici per gli Stati Uniti se si fosse realizzata una “transizione democratica”. Secondo il New York Times, Machado ha affermato che le compagnie statunitensi potrebbero guadagnare fino a 1,7 trilioni di dollari in 15 anni se il Venezuela ritornasse allo stato di diritto. 

Questo è quello che è più o meno appurato. Il prossimo passaggio è decisamente pià incerto e ipotetico, quindi prendetelo con tutta l’incertezza del caso, però è una lettura che ho trovato interessante. Ma ovviamente non provata. La lettura la prendo dal giornalista Giorgio Cattaneo, che ipotizza che il Venezuela possa diventare una merce di scambio nella trattativa con Russia e Ucraina.

Avete presente quello strano valzer degli ultimi giorni di Trump sui missili Tomahawk da fornire all’Ucraina? Si tratta di giganteschi missili da crociera che permetterebbero all’esercito ucraino di colpire la Russia molto in profondità nel suo territorio. E Trump ha cambiato posizione varie volte negli ultimi giorni sulla possibilità di inviarli a Zelensky. Prima no, poi forse, poi forse sì, poi magari no. 

Tutto questo non suscita particolari clamori perché Trump ha abituato il mondo e la stampa al suo carattere umorale, però dietro a questo valzer potrebbe esserci una strategia ben precisa. Che ha a che fare proprio con il Venezuela.

Dovete sapere che il Venezuela è, diciamo, un alleato? Un protettorato? Uno stato amico? della Russia di Putin. Nel maggio 2025 i due paesi hanno firmato un accordo di «partenariato strategico», alla presenza di Putin e Maduro, che includeva cooperazione in energia, difesa, diplomazia e opposizione alle sanzioni occidentali. E la Russia è uno dei pochi paesi che hanno riconosciuto la vittoria di Maduro nelle elezioni ampiamente contestate e considerate ampiamente truccate dello scorso anno.

E allora è possibile che Trump stia usando la minaccia dei Tomahawk con Putin per strappare il permesso di rovesciare il regime di Maduro, prendersi il petrolio del Venezuela e in cambio non inviare i missili all’Ucraina e lasciare che Putin si prenda un bel pezzo di Ucraina. Proprio in questi giorni Trump ha prima chiamato Zelensky, e secondo il Financial Times gli avrebbe detto, o cedi il Donbass a Putin o sarai distrutto, e ha in programma un nuovo incontro con Putin a Budapest, dopo che a quanto pare il primo incontro del mese scorso fra i due era andato malissimo, nonostante quello che era apparso inizialmente. 

Tutto questo accade fra l’altro mentre, come abbiamo visto giorni fa, ci sono diversi segnali che una grossa bolla finanziaria stia per esplodere. E quindi è possibile che Trump voglia essere sicuro di assicurarsi anche a patto di usare la violenza le uniche cose che quando la finanza crolla continuano ad avere valore: le materie prime. Quindi il petrolio del Venezuela (e magari del Canada), le risorse della Groenlandia, il Canale di Panama come snodo commerciale. E così via.

Giovedì sera c’è stato qualcuno ha fatto esplodere una bomba carta davanti all’abitazione del giornalista Sigfrido Ranucci, conduttore di Report. Una bomba definita dallo stesso conduttore rudimentale – probabilmente una bomba carta – che ha distrutto l’auto della figlia e danneggiato un altro veicolo della famiglia. Per fortuna non c’è stato nessun ferito, e l’intenzione a quanto pare non era quella di colpire direttamente il giornalista ma appunto di compiere quello che viene chiamato un “atto intimidatorio”. 

Questo perché la bomba non aveva un controllo a distanza né un timer, ma è probabile che qualcuno abbia proprio acceso la miccia personalmente, attendendo che per strada non ci fosse nessuno.

Ranucci negli anni ha ricevuto molte minacce, per i suoi lavori di inchiesta in cui ha toccato tanti interessi. Ed è probabile che chi ha piazzato l’ordigno fosse collegato a qualcuna di queste inchieste. Come scrive il Post, Le ipotesi sui responsabili sono per ora legate alle inchieste fatte dalla trasmissione, per esempio sulla criminalità albanese, il rapporto tra alcuni gruppi di ultrà e l’estrema destra o ancora gli interessi economici legati ad alcune grandi iniziative, come la costruzione di un nuovo porto privato per navi da crociera a Fiumicino.

Ranucci attualmente è sotto protezione, proprio per le minacce ricevute, ma è quel livello di protezione in cui la scorta lo accompagna sotto casa, ma non vigila giorno e notte davanti al suo appartamento. Secondo il giornalista, “Il messaggio è che conoscono le mie abitudini”. 

L’attentato comunque ha suscitato tanta solidarietà, molta della quale sincera, qualcuna forse un po’ meno arrivando da ad esempio esponenti politici che fino a qualche giorno fa gli auguravano il peggio, dopo essere finiti nel suo mirino investigativo. Martedì è prevista una manifestazione in sostegno di Ranucci e dell’informazione libera in Piazza Santi apostoli a roma in sostegno del giornalista. E questo è importante. In questo caso oltre a riportare la notizia ci tengo a esprimere tutta la nostra solidarietà a Sigfrido  Ranucci da parte di tutta la redazione di Italia che Cambia.

Chiudiamo con due notizie che riguardano le foreste. Una brutta e una bella. Quella brutta è che è uscito uno studio pubblicato su Nature secondo cui le foreste pluviali tropicali del Queensland, in Australia, che per decenni hanno funzionato come “spugne” di CO₂, ora stanno facendo l’esatto opposto. Rami e tronchi degli alberi hanno smesso di assorbire carbonio e sono diventati fonti di emissione. 

Sebbene sia un fenomeno conosciuto e temuto, è la prima volta che un ecosistema tropicale mostra in modo netto questo passaggio da sink a source — da pozzo a sorgente di carbonio. In pratica secondo lo studio, attorno al 2000 per via dell’aumento delle temperature, dello stress idrico dovuto alla siccità, dell’impoverimento degli ecosistemi, il metabolismo degli alberi di quelle foreste sarebbe stato alterato e questi non sarebbero stati più in grado di svolgere correttamente la fotosintesi, e avrebbero iniziato ad emettere CO2 invece di assorbirla.

È un fenomeno molto preoccupante, soprattutto se venisse riscontrato anche altrove, in altre foreste tropicali, come l’Amazzonia o il bacino del Congo: perché i modelli climatici attuali danno quasi per scontato che le foreste continueranno ad assorbire parte della CO₂ che emettiamo. Se non è così abbiamo un problema. Questo ovviamente non vuol dire che allora le foreste sono un problema, meglio deforetstare, anche perché le foreste svolgpono una miriade di servizi ecosistemici, vuol dire ce dobbiamo rafforzarle, renderle nuovamente sane e rigogliose e in grado di svolgere le loro funzioni.

La bella notizia invece è che nelle foreste del Nord Italia l’epidemia di bostrico sembra essere molto rallentata e sotto controllo. Il bostrico è quel minuscolo insetto che negli ultimi anni ha messo in ginocchio i boschi del Nord Italia. Dal 2019 in poi ha causato la morte di milioni di alberi, lasciando intere vallate con chiazze grigie e rosse, i colori degli abeti colpiti e poi seccati.

Il bostrico, come racconta il Post, è un coleottero endemico – quindi non è stato importato – e che in condizioni normali ha un ruolo utile, perché avvia la decomposizione degli alberi vecchi e deboli. Ma dopo la tempesta Vaia del 2018, che in una sola notte ha abbattuto 16 milioni di alberi, l’insetto ha trovato condizioni ideali per riprodursi a dismisura: tanto legno morto a disposizione, piante indebolite, e negli anni successivi anche estati calde e secche. Un cocktail perfetto per scatenare una vera e propria epidemia. E quindi si è riprodotto così tanto che ha iniziato ad attaccare anche piante sane.

Per fortuna gli ecosistemi hanno i loro meccanismi di regolazione e quindi l’abbondanza doi bostrico ha significato più cibo per gli antagonisti naturali del bostrico: predatori, uccelli e funghi che sono cresciuti a loro volta e quindi ne hanno tenuto a bada la popolazione. Complice anche il meteo favorevole del 2024, con piogge abbondanti in primavera e temperature meno estreme che hanno reso più difficile la riproduzione dell’insetto e rafforzato gli alberi, l’epidemia ha molto rallentato e adesso appare sotto controllo.

I numeri dicono che nel 2020 l’85% delle trappole messe per misurare la diffusione del parassita superava la soglia di allarme europea. Oggi siamo scesi al 18%. E anche la superficie colpita è crollata da 220 a circa 9 km². In molte valli, le macchie rosse non si allargano più, e in alcuni casi stanno scomparendo.

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