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15 Maggio 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Il viaggio in Medio Oriente di Donald Trump, fra affari e politica – 15/5/2025

Trump intreccia affari e geopolitica in Medio Oriente. Addio a Mujica, simbolo di coerenza. Maschile Plurale prova a scardinare il patriarcato.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
trump arabia saudita

Questo episodio é disponibile anche su Youtube

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Allora, tralascio un po’, volutamente, la questione dell’incontro di oggi a Istanbul sull’Ucraina, perché ne parleremo approfonditamente domani. E invece torniamo a parlare di Trump sta facendo un viaggio in Medio Oriente e non si riesce a stare dietro a tutte le cose che pubblicano i giornali, e devo dire in questo caso comprensibilmente, perché stanno succedendo un sacco di cose importanti legate a questo viaggio, alcune devo dire anche decisamente inaspettate.

Innanzitutto, va detto che non è solo un viaggio diplomatico, ma è anche, forse soprattutto un viaggio d’affari, come l’ha definito senza mezze misure il NYT. Leggo sul Post che “Nella sua visita in Medio Oriente, il primo grande viaggio di stato del suo secondo mandato, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump non ha grossi obiettivi diplomatici, ma è interessato soprattutto a fare accordi economici. 

È una cosa inusuale, visto che praticamente tutti i suoi predecessori avevano dato priorità a questioni politiche nei loro viaggi nella regione, considerata da moltissimo tempo centrale per la politica estera americana. Trump è partito lunedì e visiterà in quattro giorni Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, mentre non andrà in Israele, e questo è il più importante messaggio politico del suo viaggio. Il governo israeliano l’ha preso come un segnale piuttosto sorprendente di allontanamento da parte dell’amministrazione Trump”.

Secondo il New York Times, Trump ha detto ai suoi collaboratori che intende portare a casa accordi economici e promesse di investimento per un totale di mille miliardi di dollari. Gli accordi potrebbero riguardare la costruzione di centrali nucleari, vendite di armi, investimenti nell’intelligenza artificiale, criptovalute. Poi va beh, c’è di mezzo anche la questione di un aereo presidenziale, un Air Force One che il Qatar vuole regalare a Trump personalmente e che Trump pare voglia accettare, una robina da 400 milioni di euro, che poi potrà tenersi anche dopo la fine del mandato. Non so, in salotto probabilmente. Comunque non divaghiamo.

Durante questi giorni di viaggio d’affari, Trump ha fatto comunque annunci sorprendenti e inattesi sul piano diplomatico. Innanzitutto ha annunciato la sospensione di tutte le sanzioni contro la Siria. Una decisione, ha spiegato Trump, presa dopo aver incontrato il principe ereditario Mohammed bin Salman e il presidente turco Erdogan. E che si intreccia anche con la complessa vicenda curda di cui parlavamo martedì.

Ma non è l’unica novità. Come racconta il manifesto, pochi giorni dopo i colloqui diretti con i ribelli yemeniti Houthi Washington ha annunciato un accordo diretto anche con Hamas per il rilascio dell’ostaggio israelo-americano Edan Alexander. Un fatto senza precedenti che aggira, ancora una volta, il governo israeliano e ne espone le crepe e un certo isolamento.

La liberazione di Alexander, descritta come “un gesto di buona volontà” da Hamas, è avvenuta senza condizioni e a poche ore dalla partenza di Trump per il Golfo, ma non sembra essere casuale. Secondo Repubblica arriverebbe dopo giorni di negoziati diretti, i primi, fra amministrazione Usa e hamas. E secondo il Times of Israel, gli Stati Uniti non avrebbero neanche informato il governo israeliano dell’accordo finché non era già stato raggiunto. Un ulteriore affronto a Netanyahu, che però continua a definire “eccellenti” i rapporti con Trump.

Ma in realtà ci sono anche tanti altri piccoli pezzetti che mostrano le crepe nell’alleanza fra i due paesi. Ad esempio Trump ha ringraziato Qatar ed Egitto per la mediazione, ma non ha speso una parola su Israele. L’inviato Usa Steve Witkoff ha cercato di minimizzare le tensioni, ma ha anche criticato pubblicamente la gestione israeliana della guerra su Gaza, definendola un’estensione “senza senso”. 

E ancora: il giorno successivo è arrivata un’altra notizia inaspettata sul fronte diplomatico: Trump ha aperto a un possibile accordo sul nucleare con l’Iran, in cui si chiede la rinuncia completa all’arricchimento dell’uranio. E il regime iraniano ha segnalato disponibilità a scendere a compromessi.

In parallelo il Presidente Usa ha siglato una serie di accordi commerciali, in questa strana commistione fra politica estera e affari. Ad esempio durante la visita a Riad, ha siglato un pacchetto di accordi economici con l’Arabia Saudita per un valore complessivo di 600 miliardi di dollari, definito dalla Casa Bianca come il più grande della storia. 

L’intesa include un contratto per la vendita di armi da 142 miliardi di dollari, che prevede la fornitura di sistemi militari avanzati, formazione delle truppe e altri materiali di difesa. Oltre al settore militare, gli accordi coprono investimenti in energia, intelligenza artificiale, infrastrutture e aviazione commerciale. 

E prima si era mosso sul fronte cinese, annunciando un “reset totale” delle relazioni commerciali con la Cina, raggiungendo un accordo per una tregua di 90 giorni nella cosiddetta guerra dei dazi. L’intesa prevede che gli Stati Uniti abbasseranno i dazi sui prodotti cinesi dal 145% al 30%, mentre la Cina ridurrà i suoi dal 125% al 10%. Non una roba da poco. 

Insomma, sembra iniziare a delinearsi quale fosse sia la strategia di Trump, in maniera almeno un po’ più chiara, per quanto si debba sempre stare attenti perché i ribaltoni sono dietro l’angolo. Una strategia in cui le dichiarazioni folli, le sparate, servono (spesso, non sempre ma spesso) a rompere gli schemi, a confondere le acque, per oliare accordi commerciali. Una strategia dove la geopolitica e la politica estera si fondono con gli interessi economici, dove il guadagno privato si confonde con l’interesse pubblico (vedete anche la storia del Boeing), dove tutto sembra essere in qualche modo trattabile e in vendita e niente definitivo. 

Una politica che sta ottenendo risultati notevoli ma anche piena di contraddizioni, anzi, che proprio non si cura delle contraddizioni, come ad esempio quella di dichiararsi – e anche in parte adoperarsi, forse – per la pace e i cessate il fuoco (vedi il ruolo Usa nel conflitto fra India e Pakistan), ma parallelamente di fare accordi miliardari vendendo armi in tutto il mondo. E così via.

“Il 13 maggio 2025 José “Pepe” Mujica è morto nella sua chacra, la piccola fattoria alla periferia di Montevideo dove ha sempre vissuto. Si è spento come ha vissuto: con dignità, semplicità, amore per la terra e per ciò che davvero conta. Aveva 89 anni, da tempo era malato di un tumore all’esofago che si era poi esteso al fegato. Lo sapeva, lo aveva detto a tutti con la sua schiettezza disarmante: «Il mio ciclo è finito… sinceramente, sto morendo. Il guerriero ha diritto al suo riposo».

Ma non è solo la fine di una vita. È la chiusura di un’epoca e, per chi prova ogni giorno a praticare una politica diversa, è un addio che lascia il segno. Mujica non era un politico qualsiasi. Era una coscienza. Era uno specchio. Per noi di Italia che Cambia, che ogni giorno proviamo a raccontare le storie di chi costruisce un altro mondo possibile, Mujica non era un’icona: era un fratello maggiore, un testimone, una conferma vivente che la coerenza è possibile. Che sobrietà e potere possono convivere. Che si può cambiare davvero, anche dall’interno delle istituzioni.”

Vi invito davvero a leggere tutto l’articolo scritto dal nostro Paolo Cignini. Qui però voglio condividermi un mio pensiero, una suggestione. Perché la morte di Mujica mi ha causato un forte senso di vuoto e mi ha spinto a chiedermi a cosa fosse dovuto questo senso. E mi sono accorto che, almeno in parte Mujica occupava una casella che in qualche modo dimostrava che si poteva governare un paese seguendo principi di umiltà, di felicità, potremmo dire quasi di decrescita. 

E il fatto che occupasse quella casella è una roba un po’ ambigua, a livello psicologico, perché da una parte mi diceva vedi è possibile, da l’altro un po’ mi appagava. Non so se riesco a spiegarmi, ma a volte gli esempi di successo è come se ci appagassero di per sé. Non ci portano per forza a cambiare o a pretendere politici simili anche da noi, a fare qualcosa per cambiare le cose. A volte è come se ci bastasse essere rincuorati che quella cosa è possibile, e quindi hanno un effetto quasi contrario. 

Non che sia “colpa” di Mujica ovviamente, ma credo che sia un meccanismo psicologico da indagare. È un po’ lo stesso motivo per cui, forse, molte persone si emozionano a leggere storie di chi ha cambiato vita, ma poi non lo fanno. Perché in qualche modo li rincuora pensare che è possibile e un giorno se vorranno potranno farlo, e questo è un appagamento sufficiente. 

Per dirlo in termini neurochimici, a volte immaginare di fare le cose rilascia le stesse sostanze chimiche nel cervello che ci causano quel benessere, e per noi è sufficiente. Ve la butto lì, questo non significa che noin abbia senso raccontare storie di cambiamento, anzi proprio perché lo facciamo penso sia utile interrogarsi su come farlo in maniera sempre più efficace.

Giulia Zaccardelli su Domani: “Su una strada lunga e silenziosa del quartiere romano di Testaccio c’è una porta chiusa con un lucchetto dorato, con le grate e una cassetta delle lettere in ferro battuto. È qui davanti che si danno appuntamento i partecipanti di “Maschile in gioco”, il gruppo di condivisione romano di Maschile Plurale. Un’associazione «impegnata nel promuovere una cultura che superi il patriarcato e una società liberata dal maschilismo e dal sessismo» si legge sul sito. «La vera questione oggi non è quella femminile, è quella maschile» spiega Nino, pugliese d’origine, romano d’adozione, partecipante del gruppo dal 2015, mentre apre il lucchetto.

Per due martedì al mese, una decina di uomini si incontra nella stanza di Testaccio, impegnandosi a pagare un affitto. Il fatto di non riunirsi al bar o a casa è una scelta: «Le riunioni sono una dimensione sicura dove possiamo aprirci liberamente. In casa si altera l’equilibrio di poteri; il proprietario ha delle incombenze rispetto agli altri, ma noi vogliamo essere tutti sullo stesso piano» spiega Nino.

L’esperienza è rivolta agli uomini, ma è stato possibile organizzare un incontro “misto”. Alessio ha 61 anni, ha origini calabresi, è un insegnante di scuola superiore e frequenta il gruppo da un anno, da quando si è trasferito a Roma da Milano. Spiega che «essere tra uomini è una modalità specifica del gruppo». I cerchi di parola possono essere misti, aperti sia a uomini sia a donne, o separati, riservati agli uni o alle altre.

«La cosa importante per me è che, in questi diversi set, la differenza dei nostri corpi e delle nostre soggettività modifica anche il linguaggio, gli scambi di parola. Bisogna sapere che il discorso non è mai neutro e in base a questo scegliere le modalità, vanno bene tutte pur di essere consapevoli delle loro differenze».

I cerchi degli uomini non sono una novità, esistono da tanti anni e in tante parti del mondo, ma è interessante notare che ne parli un giornale piuttosto istituzionale come Domani. Interessante.

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