“Dead Zone”: come gli allevamenti intensivi mettono a rischio la biodiversità
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Che cos’hanno in comune un elefante asiatico, un falco pellegrino e un giaguaro? Che sono tutte specie animali messe a rischio dalla produzione intensiva degli allevamenti. È questo il tema del nuovo libro inchiesta di Philip Lymbery intitolato “Dead Zone” e edito dalla “Nutrimenti”.
Con “Farmaggedon”, bestseller pubblicato nel 2015, l’autore aveva già iniziato ad esplorare le contraddizioni economiche e le conseguenze negative sulla salute arrecate da un sistema agricolo industrializzato. Ora l’indagine prosegue con questo nuovo testo, con l’obiettivo di dimostrare attraverso un avvincente viaggio intorno al mondo come molte specie animali – anche molto diverse tra di loro – e l’intera biodiversità siano minacciate dalle coltivazioni di cereali sempre più estese, utilizzate per nutrire le decine di miliardi di animali allevati ogni anno nel mondo.
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Secondo l’autore per fare questo ogni anno viene disboscata una superficie grande quanto metà dell’Italia. E proprio la distruzione degli habitat naturali sta mettendo a rischio la sopravvivenza di molte specie animali nel mondo, Italia compresa. Un intero capitolo è dedicato infatti ad alcune problematiche riguardanti proprio la biodiversità nel nostro Paese.
Non bisogna però pensare a “Dead Zone” come ad un libro catastrofista, anzi. L’autore scrive al pubblico anche per raccontare cosa è possibile fare per invertire la rotta e salvare il pianeta. Philip Lybery è il direttore generale di Compassion in World Farming (CIWF), la maggiore organizzazione internazionale non governativa per la protezione e il benessere degli animali d’allevamento e ha guidato il lavoro dell’organizzazione con oltre settecento aziende alimentari a livello mondiale, migliorando in questo modo le condizioni di vita di milioni di animali d’allevamento.
Un primo appuntamento italiano per conoscere l’autore è stato organizzato per il 24 aprile a Bologna in occasione del Gusto Nudo Festival dove presenterà il suo libro in un dialogo con Giulia Innocenzi.
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