1 Ott 2018

Decrescita e migrazione: "Non sfruttiamoli a casa loro"

Scritto da: Jean Louis Aillon

Cosa ha a che fare la migrazione con la decrescita? Di chi è la colpa della migrazione forzata e come si potrebbe prevenire? A qualche giorno dall'approvazione del decreto su sicurezza e migrazione, pubblichiamo un'interessante analisi di Jean Louis Aillon, medico e psicoterapeuta, ex presidente del Movimento per la Decrescita Felice.

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Il decreto del governo su sicurezza e immigrazione è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Credo ora più che mai sia urgente, in quanto decrescenti, attivarci su questo tema: è ora di unirci, mobilitare ‘il fronte del no’ e scendere in piazza! Contestualmente, credo sia necessario promuovere la nascita di una moltitudine di progetti che concretamente dimostrino che esiste un’altra Italia, capace di lavorare dal basso insieme all’Altro per creare un mondo più sostenibile, equo e felice.

 

Il legame fra la tematica della migrazione e la decrescita non è tuttavia ampiamente dibattuto e consolidato e vorrei cercare in questo articolo di delineare brevemente il perché credo sia cruciale agire ora in quest’ambito.


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1) La paranoia di fronte all’insicurezza derivante dalla crisi ecologica, economica ed esistenziale

Ci troviamo in un momento storico in cui avvertiamo sempre più la catastrofe imminente in quanto è chiaro che questo sistema di sviluppo basato sulla crescita illimitata è insostenibile. All’orizzonte si prefigura il fantasma di un mondo con sempre minori risorse, sempre più inquinato, diseguale ed infelice… uno scenario di guerra di tutti contro tutti (individui e nazioni) e senza più speranza. Al contempo viviamo in una società liquida e nichilista, dove i valori assoluti di un tempo hanno perso il loro peso, in cui la religione non fa più davvero presa sulle nostre coscienze e dove ci confrontiamo con la mancanza di senso e direzione della nostra esistenza. Finché il culto del consumo ci spingeva tutti a correre e lavorare come matti per accaparrarci una fetta quanto più grossa possibile della torta, abbiamo resistito. Con la crisi economica questo miraggio si è però infranto e, in un contesto dove molti faticano a trovare lavoro o a mantenersi dignitosamente, cresce l’angoscia e la rabbia per lo stato di insicurezza generale ed impotenza in cui versiamo.

 

Di fronte a questa crisi ecologica, economica ed esistenziale, in un contesto in cui manca la direzione (il futuro è sempre più minaccioso ed incerto), i cartelli (valori) che danno luce sul come e dove camminare, dove manca il senso stesso del marciare e in molti non hanno più neppure le scarpe e il pane (lavoro e reddito) per farlo, non c’è da stupirsi che si tenda sempre più a prendersela con l’Altro da Sé, lo straniero: il migrante. E’ un processo molto simile a ciò che è avvenuto nell’Europa dopo la grande crisi economica del ’29 con il nazi-fascismo, dove però era presente solo la componente economica della crisi e non quella ecologica ed esistenziale.

 

Da un punto di vista psicologico vi sono, infatti, due modalità fondamentali per affrontare l’insicurezza: una viene definita proiettiva (schizo-paranoide), mentre l’altra introiettiva (depressiva).

 

La prima è una variante più patologica, un meccanismo di difesa tipico di alcune gravi patologie psichiatriche come per esempio la schizofrenia: il nostro disagio (la parte negativa del sé) viene scisso dalla parte positiva del sé e proiettato su qualcun altro che diventa “il cattivo” e verso cui possiamo arrabbiarci, sfogandoci, per tutti i nostri mali. Acquistiamo in tal mondo un controllo su ciò che avviene e di conseguenza sicurezza. Così facendo però il disagio, essendo espulso, non può venire davvero affrontato e risolto.

 

L’introiezione è, invece, un meccanismo di difesa più sano e comporta un movimento verso noi stessi, un guardarsi dentro. Ci rendiamo conto della nostra impotenza, della nostra ansia (la parte negativa del sé), ci interroghiamo sulla sua origine e sul modo in cui siamo responsabili di ciò che sta succedendo. Ci possiamo sentire in colpa, in qualche caso depressi, ma cerchiamo poi di cambiare qualcosa dentro di noi per risolvere il problema in questione.

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La decrescita promuove questo secondo tipo di consapevolezza. Il cambiamento auspicato parte dalla “decolonizzazione del nostro immaginario collettivo” e del nostro essere dall’ideologia della crescita. E’ un radicale cambiamento in primis dei nostri stili di vita (del nostro di dentro), del nostro sguardo sul mondo e poi in un secondo luogo anche un progetto politico di cambiamento del mondo fuori. Si interessa non solo a protestare e a dire no (No inceneritori, No Triv, No Muos, etc.), ma anche a fare delle proposte costruttive che già nel qui ed ora rendano possibile praticare “il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo”. Non sono solo “i cattivi”, infatti, coloro che stanno rovinando il pianeta (le multinazionali, i politici corrotti, etc.), ma siamo tutti noi cittadini che più o meno consapevolmente con le nostre scelte di tutti i giorni compriamo i cibi di quelle multinazionali, scegliamo di mettere i nostri soldi in una banca non etica, andiamo al lavoro in auto, quando potremmo farlo in bicicletta, consumando quel petrolio per cui le nazioni si fanno le guerre.

 

Fatta questa premessa, se i migranti diventano il nemico numero uno, se la proiezione e la paranoia hanno la meglio, allora noi abbiamo perso! A livello emotivo questa posizione risulta molto più vantaggiosa rispetto alla difficoltà del mettersi in discussione e guardare la rovina nostra e del mondo. A nulla, quindi, servono argomenti che si appellino alla ragione. Molti lo avranno sperimentato cercando di discutere con qualche conoscente che assume una posizione di questo tipo.

 

Per questo la decrescita, a mio avviso, deve battersi fortemente sul tema della migrazione! Vedere l’Altro come un alleato, come anch’egli “un profugo dello sviluppo” oltre mare e cercare di smascherare insieme l’ideologia paranoica che sostiene la paura e la rabbia, per promuovere una maggiore consapevolezza su come tutti noi stiamo contribuendo ai problemi attuali del mondo e su cosa possiamo fare per risolverli.

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2) “O sei parte della soluzione o sei parte del problema”

Viviamo in un mondo estremamente diseguale in cui il 20% più “ricco” dell’umanità governa circa l’80% delle risorse mondiali. Il sistema in cui viviamo, il capitalismo, nasce con alla base una storia di violenza: la cosiddetta “accumulazione primitiva”, ovvero quel “surplus” derivante dalle ricchezze depredate dalle colonie. Questa violenza nel tempo si è trasferita dal campo militare a quello economico ed è divenuta indiretta. Di fatto, attraverso le politiche del fondo monetario internazionale così come con l’avvento della globalizzazione e del neoliberismo, i disequilibri di potere sono rimasti perlopiù immutati e la forbice che separa ricchi e poveri si è sempre più acuita.

 

Alla colonizzazione reale si è sostituito un neocolonialismo (ed una dipendenza) di tipo economico e culturale che non ha contribuito a risolvere le diseguaglianze, bensì a perpetuarle, sotto l’egida del sacro sviluppo economico, sostituendo spesso la povertà con la miseria, sebbene per un piccolo numero di persone conniventi con il sistema e con l’occidente sia cresciuta anche la “ricchezza”. Per esempio, in Africa la maggior parte dei paesi continua semplicemente ad esportare materie prime che possono venire lavorate solo in occidente, così come in Cina molte delle aziende che sfruttano le persone e non rispettano i diritti umani, sono di fatto aziende che fanno, direttamente o indirettamente, interessi occidentali. Vi sono poi paesi in guerra per motivi geopolitici legati alle fonti fossili che noi occidentali utilizziamo in eccesso e scempi/catastrofi ambientali che obbligano i “rifugiati climatici” a lasciare il loro paese e che si acuiranno sempre più in relazione ai cambiamenti climatici, generati perlopiù dall’Occidente.

 

Di chi è quindi la colpa della migrazione “forzata”? Di queste guerre, della miseria, delle catastrofi ambientali che spingono la gente a lasciare il loro paese e le loro famiglie?

 

La colpa è nostra. Noi abbiamo il privilegio di vivere questo stile di vita perché c’è qualcuno dietro le quinte che lavora per noi, o che soffre in vario modo per le conseguenze delle nostre scelte, tanto quanto i faraoni godevano della loro vita eterna nelle piramidi sulla base del lavoro dei loro schiavi. Ma i nostri schiavi sono invisibili e quando riescono a scappare dal loro paese per approdare al nostro, e così facendo ci rimandano l’immagine della grande ipocrisia su cui il nostro mondo è costruito, preferiamo scacciarli, non ascoltarli, forse perché ci riportano un rimosso, il rimosso del nostro sviluppo, della “civiltà”: il costo segreto del “progresso”.

 

Finché il mondo sarà sempre più diseguale (e se non facciamo nulla lo sarà sempre più) non c’è quindi da stupirsi che sempre più persone, sedotte dal miraggio morente dell’occidente o in preda alla disperazione, provino a raggiungere il nostro paese. Per il debito (economico-ecologico) contratto nel corso della storia credo che il minimo che possiamo fare è accogliere questi profughi. Dall’altra parte accogliere qualcuno che scappa da un incendio che noi continuiamo a mantenere è di fondo un’ipocrisia che non mette in discussione il nostro essere piromani.

 

Ciò che dovremmo fare per prevenire un certo tipo di migrazione alla radice è il costruire un mondo meno diseguale dove esseri umani e natura non vengano sfruttati sull’altare della crescita economica. Per farlo però dobbiamo metterci in discussione, a partire da noi stessi. Perché se tutti avessero il nostro stile di vita ci vorrebbero 4 pianeti per assorbire le rispettive emissioni! Dobbiamo quindi cambiare il nostro stile di vita. Non si tratta di “aiutarli a casa loro”, ma di adoperarci a casa nostra per “non sfruttarli a casa loro”. Se si aprono i vasi interstiziali e si riequilibra il livello di benessere e di possibilità fra le varie nazioni, come è ora attualmente all’interno dei paesi Occidentali, la migrazione sarà una possibilità e non più una necessità. Lo sguardo dell’altro, come accade sempre nelle nostre vite ed in particolare nell’intimità, non sarà allora più invasione ma uno specchio nel quale scoprirsi con occhi differenti, per immaginarsi altri mondi e modi di esistere su questa terra.

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3) Il ruolo della politica

Se il problema principale è l’insicurezza e l’impotenza con cui i cittadini guardano al futuro in relazione alle crisi economica, ecologica ed esistenziale, una politica degna di tale nome dovrebbe agire davvero su tali problematiche, invece di distogliere lo sguardo, creando il mito del nemico invasore. Dovrebbe lavorare per portare ad una vera sicurezza in un’ottica non paranoica. Questa non può essere conseguita con politiche xenofobe, con le ronde, il taser o tramite la revisione della legittima difesa, ma riequilibrando anche nel nostro paese le diseguaglianze.

 

In un tempo di crisi generalizzata non ha senso abbassare le tasse ai più ricchi (flat tax), ma bisognerebbe alzarle – così come eventualmente tassare il patrimonio e le rendite finanziarie, pensare ad un reddito massimo – ed affiancare a un reddito di base delle politiche di redistribuzione del lavoro come la riduzione dell’orario lavorativo e il “job guarantee” (un lavoro di pubblica utilità garantito dallo stato per tutti). Se pensiamo, infatti, ai molti giovani disoccupati il problema non è solo quello di non avere un reddito per sopravvivere, ma soprattutto di non trovare un lavoro e sentirsi pienamente partecipi nella società. Lavoro e risorse ci sono. Dobbiamo però guardare al lavoro come ad un bene comune. E’ sufficiente, per entrambi, che chi ne ha in abbondanza ne condivida un poco con chi è più in difficoltà, senza togliere nulla al fatto che chi in linea generale lavora di più o ha più responsabilità, abbia comunque un reddito maggiore di chi lavora meno o ha meno responsabilità, fino ad una soglia stabilita collettivamente (il reddito massimo).

 

Secondo il rapporto Oxfam “nel nostro paese il 20% degli italiani più ricchi oggi detiene il 66,4% della ricchezza nazionale netta, mentre il 20% degli italiani più poveri ne detiene appena lo 0,09%”[1]. Con buona probabilità la maggior parte degli immigrati, ed in particolare coloro che sono appena arrivati in Italia, vanno ad ingrossare le fila del quinto più povero della popolazione.

 

Sono allora davvero i migranti che ci rubano il lavoro? Non è forse più il ricco uomo d’affari con il Ferrari o l’Hammer (costoso e inquinante), parcheggiato in doppia fila, a rubarci il futuro? O uno di quei 14 miliardari italiani che possiedono una ricchezza pari al 30% della popolazione?[2] Ma, per qualche strano tarlo mentale, ce la prendiamo con chi è ancora più povero e piccolo di noi e, se vediamo un Ferrari per strada, ci fermiamo tutti quanti a sbavare, invece di arrabbiarci…

 

Bibliografia di Riferimento

Aillon, Jean-Louis. La decrescita, i giovani e l’utopia. Comprendere l’origine del disagio per riappropriarsi del futuro. Edizioni per la Decrescita Felice- – Gruppo Editoriale Italiano, 2013
D’Alisa, Giacomo, Federico Demaria, and Giorgos Kallis, eds. Degrowth: a vocabulary for a new era. Routledge, 2014.
Latouche, Serge. Il pianeta dei naufraghi. Bollati Boringhieri, Torino, 1993.
Latouche, Serge, and Alfredo Salsano. L’altra Africa: tra dono e mercato. Bollati Boringhieri, 1997.
Latouche, Serge. La scommessa della decrescita. Feltrinelli Editore, 2014.
Marx, Karl. Il capitale. Newton Compton Editori, 2013.
Pallante, Maurizio. La decrescita felice. Roma, Editori Riunti, 2005.
Rahnema, Majid. Quando la povertà diventa miseria. Einaudi, 2005.
Samuel, Alexander. Basic and maximum income. In: D’Alisa, Giacomo, Federico Demaria, and Giorgos Kallis, eds. Degrowth: a vocabulary for a new era. Routledge, 2014.
Unti, J. Job guarantee. In: In D’Alisa, Giacomo, Federico Demaria, and Giorgos Kallis, eds. Degrowth: a vocabulary for a new era. Routledge, 2014.
Zoja, Luigi. Paranoia. Bollati Boringhieri, 2011.
Zoja, Luigi. Utopie minimaliste: Un mondo più desiderabile anche senza eroi. Chiarelettere, 2013.
[1] Disuguitalia: i dati sulla disuguaglianza economica in Italia. Rapporto Oxfam 2017.

 

 

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