20 Apr 2022

Come funziona in pratica una comunità energetica? Ce lo spiega Chiara Brogi di ènostra

Scritto da: Daniel Tarozzi

Nelle scorse settimane vi abbiamo presentato le CER - Comunità Energetiche Rinnovabili e abbiamo affrontato diversi aspetti che le caratterizzano. Ma come funzionano in pratica? Si tratta di una innovazione tecnologica, amministrativa o altro? Quali effetti possono avere sui nostri stili di consumo, sulle nostre bollette e sul nostro impatto ambientale? Scopriamolo con l’aiuto di Chiara Brogi di ènostra.

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Torniamo a parlare di Comunità Energetiche Rinnovabili e lo facciamo con il supporto di uno dei nostri partner storici: ènostra e in particolare di Chiara Brogi. Chiara si occupa dell’attivazione territoriale delle comunità energetiche e in particolare del coinvolgimento dei cittadini, delle relazioni con la pubblica amministrazione o con quelli che si rivolgono a ènostra per cominciare questo percorso di attivazione di una comunità. Per capire bene di cosa stiamo parlando occorre una premessa un po’ tecnica. Se non vi interessa saltatela pure e correte al paragrafo successivo.

COME FUNZIONA LA RETE ELETTRICA (FOR DUMMIES), TRA CABINE PRIMARIE E SECONDARIE

Tutto ebbe inizio in una cabina. Quando ne ho sentito parlare la prima volta, ho immaginato una simpatica scatola che conteneva cavi e smistava corrente. In realtà esistono due tipi di cabine, la primaria e la secondaria. La primaria è un grande impianto con una distesa di pali in cui corrono cavi strani con strani accessori, una sorta di enorme “trasformatore”: in un certo punto geografico arrivano i cavi dell’alta tensione ( tra i 60 e i 150 mila Volt) e – attraverso una serie di trasformatori – l’energia scende ad una tensione molto più bassa, circa 15mila Volt.

Questa corre sempre sui cavi sospesi nel cielo finché non incontra i classici manufatti di calcestruzzo grigio: sono le famose “cabine secondarie”. Da qui la corrente “scende” fino a 400 Volt (quella che è conosciuta come la cosiddetta 380). È così quindi che si passa dall’alta alla media tensione e poi alla bassa.  Ogni volta che c’è un passaggio di tensione c’è un trasformatore: un dispositivo che – pur essendo ad alta efficienza – non è immune a perdite di energia. Unitamente alle dispersioni che avvengono lungo i cavi, queste rappresentano le “perdite di rete” che in Italia sono circa il 6% dell’energia utilizzata dagli utenti finali.

LE COMUNITÀ ENERGETICHE RINNOVABILI

Qui entrano in gioco le CER: se infatti producessi e consumassi in loco tutta l’energia che serve a una determinata comunità, avrei meno perdite energetiche, meno sprechi, meno inquinamento e genererei un sistema molto più sostenibile ed economico di quello attuale. Il modello “vecchio” è ancora decisamente predominante e prevede che poche grandi centrali – di solito a carbone, gas, nucleare o simili – producano il grosso dell’energia, che poi viene distribuita attraverso il sistema precedente un po’ ovunque.

chiara brogi enostra
Chiara Brogi

Con la diffusione del fotovoltaico però, si è cominciato ad avere tanti piccoli produttori di energia. Quando l’energia prodotta da una abitazione – o un’azienda o una amministrazione – non è consumata interamente da chi la produce, questa “finisce in rete”. Se qualcuno in loco ne ha bisogno la utilizza e questa non risale le varie cabine disperdendosi.

Ma cosa accadrebbe se in tanti producessero energia rinnovabile in un determinato momento? A mezzogiorno, d’estate, in un piccolo Paese, potremmo avere il paradosso di una grande produzione di energia “solare” che non viene utilizzata perché “sono tutti fuori casa”. La notte invece, quando il fotovoltaico non produce, le persone consumeranno molta energia. Occorre quindi spostare e concentrare i consumi nei momenti di massimo picco di produzione energetica.

Ecco che le comunità energetiche entrano in gioco. Di fatto non sono una innovazione tecnologica, ma una serie di incentivi economici che rendono conveniente produrre energia rinnovabile e “venderla in loco”. Se mi conviene vendere energia in loco sarò spinto a organizzare i consumi dei miei “vicini” – o dei miei cittadini se sono un amministratore o delle mie imprese se sono un imprenditore – in modo che i consumi siano efficientati in base alla produzione energetica esterna.

Se ho elettrodomestici o impianti di produzione di acqua calda o riscaldamento elettrico, li accendo in pieno di giorno anziché di notte, programmando i vari timer se non sono in casa. Se sono una amministrazione spingo i vari aderenti alla comunità a organizzare i consumi in modo che non si sovrappongano e così via. La logica quindi è incentivare domanda e offerta in loco attraverso vantaggi economici per il produttore/consumatore.

LA DIMENSIONE DELLE CER

«La dimensione della comunità energetica è stabilita dalla potenza dell’impianto e dalla cabina primaria: se tu avessi un impianto di 20 kilowatt non avrebbe senso coinvolgere cinquanta famiglie perché l’energia condivisa sarebbe molto poca», spiega Chiara. «Bisogna cercare l’equilibrio tra la dimensione dell’impianto e la dimensione della comunità energetica. Più vai ad aumentare la potenza prodotta più persone puoi accogliere. La CER comunque non si può espandere all’infinito: bisogna rispettare il limite imposto dalla legge della cabina primaria». 

La CER, per legge, non deve perseguire il profitto finanziario, ma deve fornire benefici ambientali, economici e sociali

Contrariamente a quanto pensavo, per le CER può essere più efficiente avere un grande impianto su spazi comunali, scuole o capannoni industriali anziché tanti piccoli impianti, anche se una cosa non esclude l’altra. Spiega ancora Chiara: «Di solito con ènostra cerchiamo di essere più efficienti anche dal punto di vista dell’investimento per un discorso di economia di scala: se si realizza un impianto fotovoltaico su una sola superficie più grande si abbassano tutti i costi rispetto allo scenario di realizzazione di tanti piccoli impianti fotovoltaici».

«Un paesino di pochi abitanti – prosegue Chiara – potrebbe decidere di ricoprire tutti i tetti degli edifici pubblici e dare quell’energia a quasi tutti gli abitanti, costruendo così un primo nucleo al quale tutti possono partecipare mettendo anche il proprio impianto fotovoltaico. In questi casi di solito le amministrazioni finanziano i costi di realizzazione dell’impianto, mettendo poi l’energia prodotta a disposizione della comunità, che riceve così tutto il beneficio economico che poi viene redistribuito tra i membri o reinvestito su altri progetti sul territorio. Potrebbe anche essere un’impresa locale a fare o condividere l’investimento, ci sono tanti modelli». 

IL RUOLO DEI PRIVATI

Oggi, se ho un impianto fotovoltaico, quando non consumo l’energia che produco la immetto in rete e questa mi viene pagata, anche se abbastanza poco. Se la stessa abitazione diventa parte di una CER, la produzione di energia utilizzata in loco viene pagata di più e quindi incentivata.

Inoltre si riceve una piccola componente tariffaria unitaria che segnala che producendo e autoconsumando in loco stai dando un beneficio alla rete, non stai utilizzando la rete di alta tensione, i costi del trasporto sono minori, non ci sono perdite perché l’energia non passa dall’alta alla bassa tensione e quindi stai dando un beneficio. Questo beneficio viene monetizzato. Ma soprattutto – aggiungo io – ne beneficia l’ambiente e quindi tutti noi. 

A CHI SERVE L’INCENTIVO?

«Le rinnovabili hanno dei picchi, non sono programmabili», mi spiega Chiara. «Immagina un tubo: la rete è il tubo dell’acqua e se l’acqua passa con troppa pressione il il tubo si rompe. Lo stesso principio vale per l’energia che passa dentro questo tubo. Deve essere equilibrata».

enostra comunita energetiche

Se tutti mettessero il fotovoltaico e lo Stato non desse un incentivo per rendere più efficiente l’organizzazione tra produzione e consumo – rendendo efficiente lo scambio tra le persone – la rete avrebbe un problema perché avrebbe molti picchi: «Se le persone avessero un incentivo a consumare quando c’è energia prodotta in eccesso è molto probabile che cambierebbero le loro abitudini energetiche!». 

COMBATTERE LA POVERTÀ ENERGETICA

In questo modo inoltre si combatte la povertà energetica: se una comunità riceve un beneficio economico può decidere di metterlo a disposizione di consumatori vulnerabili per aiutarli a pagare la bolletta e contestualmente può sensibilizzare gli stessi membri in merito a un uso razionale dell’energia, spiegando come si consuma un’energia che viene da fonti rinnovabili. Di fatto dobbiamo abbandonare la logica della tariffa bioraria e muoverci in senso opposto. 

In queste Comunità la relazione tra il comune e il cittadino si accorcia. Nascono associazioni tra amministratori, imprenditori e privati cittadini che cercano di capire come muoversi. La CER, per legge, non deve perseguire il profitto finanziario, ma deve fornire benefici ambientali, economici e sociali. Per questo i due soggetti prediletti sono un ente del terzo settore e una cooperativa.

LE MOTIVAZIONI DEGLI ADERENTI

Chiudo la chiacchierata con Chiara Brogi chiedendo cosa cerchino le persone che contattano ènostra per avviare il processo che porterà alla creazione di una CER: «Sicuramente la questione economica ha un peso, ma non è la prima motivazione», risponde. «Molte persone ci contattano perché sono affascinate dal modello. Spesso vengono dal mondo dell’associazionismo, dei gruppi locali di acquisto, hanno già sviluppato una certa attenzione verso l’ambiente e sanno che con la comunità si arriva più lontano». 

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