17 Apr 2024

Treat It Queer Foundation: l’arte per combattere l’invisibilità sanitaria

Arriva dall'Olanda un'interessante iniziativa che attraverso l'arte, in particolare la fotografia, vuole generare inclusione e giustizia sociale in particolare nel mondo della sanità, superando la logica del binarismo. Lanciata da Treat It Queer Foundation, è recentemente sbarcata anche in Italia in occasione dello Youth Exchange sulla salute queer.

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Si può usare l’arte per parlare di giustizia sociale in ambito sanitario? Una serie di progetti sviluppati tra Olanda e Italia ci dicono di sì. La discriminazione delle persone che vivono con disabilità, malattie croniche e/o che si identificano come queer segue una regola comune: sono percepite come opposte all’idea normativa di essere umano, secondo una logica binaria che contrappone rigidamente disabilità e abilità, eterosessualità e omosessualità, persone cis – il cui genere e sesso di nascita coincidono – e persone transgender o “non-binarie” e potremmo aggiungerne molte altre.

Questa cultura delle antitesi ha conseguenze concrete nella vita di chi vive al di là di queste costruzioni di normatività. Nel mondo medico pregiudizi, scarse risorse e un personale medico poco o non formato sulle dinamiche della discriminazione si traducono in un accesso alle cure carente e traumatico per una percentuale consistente di popolazione

Treat It Queer Foundation è una no profit internazionale che si occupa di diritto alla salute per le persone queer e altri gruppi minoritari. Ha sviluppato un progetto dal titolo The Queer Picture con l’obiettivo di mettere a fuoco le disuguaglianze del sistema sanitario olandese e invitare il personale sanitario a una riflessione sulla relazione paziente-medico, caratterizzata da uno squilibrio di potere e da una condizione di profonda vulnerabilità per la persona che ha bisogno di cure.

Treat It Queer Foundation
Ritratto di Elia Zeno Covolan a mezzo busto. L’artista indossa una maglietta nera e un paio di occhiali dalle lenti colorate. Lo sguardo è rivolto alla camera mentre l’artista abbozza un sorriso. Una luce rosa gli illumina il viso e fa contrasto con uno sfondo scuro.

Ne ho parlato con Elia Zeno Covolan, artista visivo italiano e consulente per l’accessibilità in ambito performativo che si identifica come persona queer, neurodivergente e con malattia cronica, e che ha realizzato il design grafico del progetto. «L’idea centrale alla base del Photovoice The Queer Picture è stata dare voce a chi fruisce del sistema socio-sanitario», mi ha spiegato.

«In genere, il metodo del photovoice prevede l’uso di una macchina fotografica da parte di chi normalmente starebbe dall’altra parte dell’obiettivo. In questo caso invece, i ritratti sono stati realizzati dalla fotografa Carla Curado Gloria, ma sono stati discussi e costruiti insieme alle persone partecipanti. Penso sia una bellissima pratica di empowerment per chi vive quotidianamente discriminazioni, perché può decidere come farsi ritrarre, con il supporto di una professionista».

Ogni immagine è stata poi corredata da un testo scritto in autonomia dal soggetto ritratto. Il photovoice è una tecnica fotografica di auto-narrazione che assegna al soggetto rappresentato il potere di raccontare se stesso/a, di essere visto e di vedersi secondo definizioni proprie. All’interno di The Queer Picture, questa metodologia è stata utilizzata per mettere in discussione la totalità dello sguardo medicalizzante che riduce la persona alla sola condizione di “paziente” che sopporta sofferenze e sfortune. Una partecipante, Devika, nel suo ritratto domanda al personale medico-sanitario se è possibile immaginare uno sguardo che vada oltre la diagnosi e che riconosca la relazione paziente-medico “innanzitutto e soprattutto come una tra due esseri umani.

La pratica di immortalare l’inaccessibilità di un luogo è potente e simbolica, perché resta nella memoria attraverso una forma tangibile e immediata

Lieke racconta i ritardi della sua diagnosi di spettro autistico, mentre Sharona denuncia la sua storia di invisibilità medica in quanto madre queer, razializzata e con autismo e condivide la speranza che tra il personale medico ci siano più persone in grado di comprendere le sue difficoltà e conquiste. Micha invece, giovane donna transgender, rivendica la libertà di non essere considerata malata solo perché ha scelto un percorso di affermazione di genere – il percorso che porta la persona a vivere il genere in cui si identifica, il quale può includere un sostegno psicologico, interventi ormonali e/o chirurgici. 

I ritratti sono stati raccolti in una rivista digitale – scaricabile e divulgabile gratuitamente dal sito web di Treat it Queer – e cartacea, distribuita presso ospedali, luoghi di cura e e spazi LGBTQI+. Un aspetto importante è stato lo sviluppo di un prodotto che fosse anche accessibile a lettori e lettrici con disabilità: «Il mio incontro con Treat it Queer ha permesso alla fondazione di sviluppare per la prima volta un progetto visivo in chiave accessibile per persone ipovedenti, che spesso vengono dimenticate da chi realizza contenuti visivi culturali sia digitali che cartacei», spiega ancora Elia Zeno.

«Abbiamo scelto un formato più grande rispetto ai formati usuali – prosegue –, in colori e con una dimensione del testo adatta a persone con ipovisione e neuro-divergenti. Questa non era la finalità originaria del progetto, ma Treat it Queer ha accolto positivamente la mia proposta e abbiamo quindi cominciato a lavorare su più fronti a prodotti che fossero accessibili dal punto di vista del visual design». Affidare un lavoro culturale a un o una professionista che parte da un’esperienza vissuta di disabilità o con altre esperienze di discriminazione consente alle organizzazioni di ampliare e innovare le proprie proposte, attirando nuovi pubblici.

Treat It Queer Foundation
Devika, una delle partecipanti del progetto The Queer Picture, è ritratta a mezzo busto, con i capelli scuri legati dietro la nuca e gli occhi socchiusi. Devika tira delicatamente un pezzo di nastro adesivo via dalle sue labbra, sporche di colore a tempera giallo, rosso e blu che cola sul suo mento.

Sempre in Olanda, Treat It Queer ha portato un progetto simile in un ospedale universitario, il Radbound University Medical Center di Nijmegen, con l’obiettivo di formare il futuro personale medico sui bisogni di cura delle persone transgender e non binarie. Anche il progetto Transcending Barriers utilizza le potenzialità narrative del photovoice, questa volta come strumento di relazione per indagare l’accessibilità degli spazi ospedalieri da una prospettiva queer. 

Agli studenti e alle studentesse è stata consegnata una macchina fotografica istantanea ed è stato chiesto loro di immortalare oggetti o luoghi non accessibili a una persona queer, con il supporto di un medico facilitatore, la Dr Maddalena Giacomozzi. Le fotografie sono state selezionate collettivamente e corredate da disascalie: le porte di ingresso dell’ospedale offrono una riflessione sulle lunghe liste d’attesa, in media di due anni e mezzo in Olanda, per accedere al percorso di affermazione in ambito medico; l’assenza di bagni gender neutral racconta l’invisibilità delle persone queer per il sistema sanitario; una sedia ginecologica, strumento tradizionalmente riferito alla cura della donna, manifesta il profondo disagio degli uomini transgender e persone non binarie costrette a utilizzarla.

Chiedo a Elia che potere ha una macchina fotografica usata in questo modo. «La macchina fotografica consente di avviare una riflessione sugli spazi che attraversi quotidianamente», mi risponde. «La pratica di immortalare l’inaccessibilità di un luogo è potente e simbolica, perché resta nella memoria attraverso una forma tangibile e immediata. E poi è un’operazione che non si fa da soli, ma insieme. Questo fa sì che le persone si arricchiscano reciprocamente portando il proprio punto di vista».

Treat It Queer Foundation
Un gruppo di partecipanti al progetto Youth Exchange Queer Health è ritratto in un ampio spazio aperto, circondato da un bosco e montagne sullo sfondo. Le persone appaiono di spalle, strette in un abbraccio collettivo.

Ci sono molti elementi di valore in questa esperienza, come il fatto che la committenza è la comunità medica – la quale inizia a riconoscere la necessità di ampliare le proprie competenze relazionali – e che tale innovazione sociale sia stata portata da chi lavora con i linguaggi artistici al di fuori dei contesti tipici dell’arte. Un’ottima notizia, che ha il potenziale di produrre un impatto a lungo termine, è poi l’inserimento del laboratorio come prassi permanente nel curriculum del corso universitario.

Tanta innovazione non resta solo in Olanda: Treat it Queerha presentato The Queer Picture in Italia durante lo Youth Exchange sulla salute queer che è stato organizzato in Val di Sella, in Trentino, invitando quaranta giovani sotto i trent’anni a confrontarsi sulla salute LGBTQI+. Elia ha coordinato il processo di narrazione fotografica collettiva dell’esperienza, dalla quale è nato un photovoice corale. 

Nel frattempo l’artista sta preparando il suo prossimo progetto: un viaggio a due in giro per il mondo per raccontare le difficoltà di viaggiare per le persone queer e con disabilità. L’accesso alle cure è un diritto, ma profonde disuguaglianze restano invisibili. L’arte può essere uno strumento di contestazione delle gerarchie che assegnano valori e significati a corpi e identità, insegnando a chi dirige o esegue le prassi sanitarie a osservare con nuove consapevolezze i luoghi che attraversa ogni giorno. 

Questo articolo fa parte di una serie di approfondimenti frutto della collaborazione fra Hangar Piemonte e Italia Che Cambia che ha lo scopo di raccontare la trasformazione culturale che stanno mettendo in atto persone, organizzazioni e intere comunità intorno a noi.

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