La scuola e il margine. Appunti da un paese che resiste
A Siliqua, così come nel resto dei paesi sardi, vivere al margine non è solo una condizione geografica o demografica, ma un atto quotidiano di resistenza. Al centro c’è la scuola.

«La marginalità è un luogo radicale di possibilità, uno spazio di resistenza». Lo scriveva bell hooks – all’anagrafe Gloria Jean Watkins, scrittrice, attivista e femminista americana. E qui, in un paese come Siliqua, questa frase non suona come una teoria astratta: è un’esperienza vissuta. Perché vivere in un margine geografico, sociale, demografico — vivere in un paese che si svuota — è diventato oggi un atto di resistenza. E se c’è un luogo dove questa resistenza prende forma ogni mattina, è la scuola.
La scuola è il primo margine che abitiamo. Un margine pieno di voci, di zaini più grandi dei corpi, di domande enormi dentro mani piccole. Nel mio paese la scuola ha perso l’autonomia. Dallo scorso anno dipendiamo da Decimoputzu. I nostri bambini sono pochi. I nati del 2015 sono appena 21, mia figlia è la prima di quell’anno ed è nata a marzo, per capire le proporzioni. Il rischio, silenzioso ma concreto, è che a forza di comprimere, razionalizzare, efficientare, si cancelli il margine, che si elimini ciò che non è considerato produttivo, centrale, rilevante.

Scuola, non solo un’istituzione
Eppure è proprio dal margine che si immaginano mondi alternativi. In un paese piccolo la scuola non è solo un’istituzione, è la spina dorsale della comunità. È la prima palestra di cittadinanza. È il luogo in cui i bambini imparano a nominare il mondo e a prendersene cura. È lo spazio dove le differenze si avvicinano, dove si fa educazione non solo all’apprendimento ma alla convivenza. E quando la scuola viene trattata come un “ramo secco”, quando si dice che non ha abbastanza iscritti, che è “inefficiente”, si dimentica che la scuola non produce numeri: costruisce i cittadini del futuro.
Nel margine di un paese, la scuola insegna una cosa che nessun centro potrà mai insegnare: la vicinanza. Una maestra conosce le famiglie sa chi ha la mamma malata, chi ieri ha perso il nonno, chi sogna di fare l’astronauta, chi ama leggere e chi ha paura dei numeri. Le relazioni sono più lente, più dense. C’è tempo per ascoltare, spazio per sbagliare, fiducia per crescere. Tutto questo non è un limite: è un privilegio educativo.
La scuola è il punto da cui si parte e l’orizzonte da cui si immagina
Il margine non è assenza. È un’altra forma di presenza, è educazione come relazione, è scuola come presidio, non come succursale. È comunità educante, non solo organigramma. È ciò che resiste all’omologazione del pensiero, alla disumanizzazione della burocrazia. Chi vuole chiudere o depotenziare le scuole dei paesi, chi le considera “residuali”, non capisce — o finge di non capire — che senza scuola un paese smette di esistere. Perché la scuola è il punto da cui si parte e l’orizzonte da cui si immagina. È il seme da cui può germogliare un futuro diverso.
E noi, dal margine, non chiediamo elemosine. Non vogliamo “concessioni”, ma affermiamo che questa marginalità è radicale luogo di possibilità, come diceva la già citata bell hooks. Non perché è romantica. Ma perché è reale. Perché in una scuola di paese, con pochi bambini, con maestre che sanno a memoria la storia di ogni famiglia, si educano cittadine e cittadini interi. Persone capaci di amare la propria terra e di aprirsi al mondo. Persone che sanno che vivere al margine non è una sfortuna, ma una prospettiva da cui guardare più lontano.

Per questo dobbiamo difendere ogni scuola: non per nostalgia, ma per giustizia. Non per orgoglio di appartenenza, ma per una pedagogia della resistenza. Perché un paese con una scuola è un paese che si racconta. Che si trasmette. Che sa ancora pensarsi.
E ogni bambino che entra in aula è la promessa che quel pensiero continuerà.
Chi resta in un paese oggi lo fa controvento. Ma restare non è una sconfitta: è fiducia. E questa fiducia ha bisogno di spazi che la custodiscano. Ogni mattina, nelle scuole piccole, prende corpo un mondo possibile, fatto di ascolto, di lentezza, di relazione. Non è un’eccezione da tollerare, è un modello da difendere. Perché finché ci sarà una bambina con uno zaino sulle spalle e gli occhi pieni di mondo, il paese resisterà. E il margine continuerà a essere spazio d’immaginazione e di giustizia.
Questo articolo fa parte della rubrica “Tutto il mondo è paese” a cura di Michela Calledda della Libreria La Giraffa di Siliqua.
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