2 Settembre 2025 | Tempo lettura: 5 minuti

Governance partecipata e sociocrazia 3.0: a che punto siamo nelle istituzioni?

Sociocrazia e modelli di governance in grado di prendere decisioni complesse si stanno dimostrando sempre più efficaci della democrazia rappresentativa, ma a che punto è la loro diffusione, soprattutto nel contesto istituzionale?

Autore: Fulvio Mesolella
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In breve

La sociocrazia nelle istituzioni, fra esperienze di successo e modelli da decostruire.

  • La sociocrazia è un modello di governance, che serve cioè a prendere le decisioni.
  • Oggi, soprattutto nel contesto politico-istituzionale, il processo decisionale è dominato dalle logiche di potere e la democrazia rappresentativa si dimostra inadeguata.
  • Alcune istituzioni, insieme alla società civile, hanno provato ad affidarsi alla sociocrazia. A volte i risultati sono stati incoraggianti, altre volte meno.
  • In generale il modo migliore per prendere dimestichezza con nuovi modelli di governance è sperimentarli, provarli, viverli sulla propria pelle.

Una parte consistente del motivo per cui continuiamo a inciampare di fronte a crisi complesse – ambientali, sociali, culturali – sta nei modi che ci siamo dati per prendere decisioni: i cosiddetti modelli di governance. Questi sistemi, spesso rigidi e dominati da logiche competitive a breve termine o da interessi particolari, non sono strutturati per affrontare la complessità, l’interdipendenza e l’urgenza che caratterizzano i problemi globali di oggi. 

La democrazia rappresentativa – con i suoi silos istituzionali, dominata dai partiti e dalla necessità di tenere sempre presente il consenso elettorale – fatica a tenere il passo con le dinamiche rapide del degrado ambientale o dell’erosione del tessuto sociale o a ragionare sul lungo termine. È come se cercassimo di risolvere equazioni non lineari usando righelli e calcolatrici a manovella. E intanto i problemi avanzano spediti.

Da anni il Movimento della Transizione si interroga e sperimenta modelli di governance alternativi, più capaci di maneggiare la complessità delle società umane. Questo movimento – noto anche come Movimento delle Transition Towns – è nato nel Regno Unito e studia e mette in pratica sistemi per facilitare la transizione verso società umane più sostenibili, resilienti e felici di fronte a crisi globali come il cambiamento climatico, il picco del petrolio e l’instabilità economica. 

Ho incontrato Cristiano Bottone, co-fondatore di Transition Italia, in occasione di un incontro di formazione sulla Sociocrazia 3.0, un efficace modello di governance collaborativa, organizzata dalla Fondazione Ivano Barberini. Ne ho approfittato per fargli qualche domanda per capire se e quanto questi modelli stanno “penetrando” all’interno delle istituzioni.

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Cristiano Bottone durante il corso di governance partecipata e sociocrazia 3.0
Partiamo proprio da uno sguardo sulle amministrazioni e sui loro modelli di governance.

Qui in Italia, in questa forma, si vede poco. In alcune associazioni e nel volontariato è più facile incontrare la sociocrazia. Ma ci sono alcuni casi sperimentali: l’abbiamo utilizzata per circa quattro anni nel Comune dove vivo io, Valsamoggia, o la stanno usando a Ferrara, dove si sta facendo un percorso per la creazione di una lista civica che condivide questa pratica. È poi stata usata parzialmente a Roma in una sperimentazione nel V Municipio o ancora nel Comune di Cento. Quest’ultimo esempio è interessante: quando è stato il momento di fare un reale trasferimento di potere anche verso l’associazionismo, con un coinvolgimento attivo, quest’ultimo si è dimostrato inconsistente e si è defilato.

Quindi è un problema di “addestramento” alla partecipazione da parte della società civile?

Non è un problema di addestramento, direi che è una questione di “sollevamento dei veli”: molte realtà si presentano in un certo modo, poi quando provi a guardare dentro non sono quello che sembrano e la tensione verso gli obiettivi che dovrebbero perseguire appare molto debole. Quindi può succedere che a un soggetto istituzionale arrivi una proposta, che esso risponda “bene, facciamola” per poi scoprire però che il proponente non ha davvero l’energia per sostenere l’impegno. Gli amministratori rimangono perplessi quando, dopo aver ricevuto lettere, proteste e suggerimenti, al momento di realizzare i progetti si ritrovano soli.

Allora è un problema di scoramento?

Sicuramente tra i cittadini c’è scoramento sulla possibilità di fare qualcosa e disillusione verso le istituzioni, in cui non crede più nessuno. Purtroppo questo accade ormai anche in regioni in cui la partecipazione ha una vera tradizione. Ma la maggior parte delle persone oggi esaurisce le proprie “energie sociali” esprimendo il proprio pensiero con un like su Instagram. Sentono che così hanno già fatto la loro parte: delle istituzioni non si fidano, si sono sentiti traditi già abbastanza.

Dobbiamo sperimentare, provare, sbagliare

Hai qualche caso da raccontare in cui l’amministrazione non ha raccolto gli stimoli della cittadinanza?

Sì esiste ovviamente anche la situazione opposta. Ad esempio anni fa in un Comune della provincia di Bologna, centoventi persone lavorarono per mesi al PAES, il Piano di Azione per l’Energia Sostenibile, ed era lavoro vero, impegno, idee, gruppi, incontri, ma quasi tutto questo lavoro rimase poi lettera morta. Dopo esperienze di questo tipo chi ha partecipato difficilmente sarà disponibile a una ulteriore partecipazione.

Ci puoi raccontare cosa è emerso dal seminario organizzato da Fondazione Barberini?

In questi giorni di seminario abbiamo parlato di Testa, di un modello organizzativo molto razionale, ma anche di Cuore. Quanta razionalità e quanta irrazionalità entrano in gioco quando proviamo a cambiare i sistemi in cui prendiamo le decisioni? Abbiamo parlato anche di quanto sia importante gestire bene questi due aspetti prima di far lavorare le Mani, ovvero prima di passare al fare, di cominciare a costruire, creare leggi, impostare investimenti, ecc.

La nostra idea dietro a corsi come questo è quella di formare dei “facilitatori” che sappiano far giocare gli altri esseri umani a un gioco diverso. Per come funzionano i nostri cervelli infatti servono tanto allenamento e accompagnamento per imparare a pensare e decidere in modo differente da come siamo abituati. Non ci basta vedere immagini, dei video o un grafico per cambiare le nostre abitudini.

Dobbiamo sperimentare, provare, sbagliare. Perciò il modo migliore per diffondere questi nuovi modelli è farli provare, fare dei “giochi” come quelli che abbiamo proposto anche in questa formazione. La maggior parte delle persone rimane colpita dall’esperienza in sé. Poi ci sono anche le persone che riescono a trascendere l’esperienza e capiscono il modello molto rapidamente, ma nella maggior parte dei casi servono persone preparate a facilitare il percorso di apprendimento.