Ferdinando Cotugno: “La crisi climatica è una questione di tempo… e di persone”
Giornalista esperto di ambiente e clima, Ferdinando Cotugno condivide con noi alcune riflessioni su cause ed effetti della crisi climatica e su come essa viene percepita dalle persone.
Ferdinando Cotugno è un giornalista che si occupa di ecologia, clima e politica. Per il quotidiano Domani cura la newsletter e il podcast Areale ed è autore dei libri Primavera ambientale – L’ultima rivoluzione per salvare la vita umana sulla Terra (Il Margine, 2022) e Tempo di ritorno – Una storia di clima e di fantasmi (Guanda, 2025). È un attento osservatore delle trasformazioni ambientali, con una particolare attenzione per l’impatto del cambiamento climatico sulle società.
Nei suoi reportage e nelle sue analisi, Cotugno esplora non solo i dati scientifici, ma anche le implicazioni culturali, politiche ed emotive della crisi climatica, offrendo uno sguardo attento sulle sfide che cittadini e cittadine, comunità e istituzioni devono affrontare. Il cambiamento climatico è ormai un fenomeno tangibile e in rapida evoluzione: eventi estremi come ondate di calore, piogge torrenziali e siccità colpiscono con sempre maggiore frequenza, mentre il sistema agroindustriale tradizionale – basato su monocolture e uniformità genetica – si rivela vulnerabile e incapace di rispondere efficacemente a questa crescente incertezza.
La crisi ecologica non è soltanto una questione tecnica o scientifica: è anche culturale e politica. Ferdinando Cotugno sottolinea come la percezione di ciò che sta accadendo, le abitudini quotidiane e le scelte alimentari siano intimamente legate alla nostra capacità di comprendere e affrontare questa sfida. A lui abbiamo chiesto di raccontarci come i mutamenti del clima influenzino la vita delle persone – compresa la sua –, le pratiche agricole e le politiche pubbliche, e di condividere riflessioni su cosa significhi abitare un mondo in trasformazione.

Ferdinando Cotugno, che rapporto hai, sia emotivo che pratico, con il cambiamento climatico?
Il mio rapporto è altalenante, come credo quello di tante altre persone. Ha dei picchi di sconforto, legati non tanto agli eventi estremi in sé, quanto alla loro normalizzazione e alla consapevolezza che siamo solo all’inizio. Non sappiamo quanto sarà a lungo il tempo di frenata, a quale livello di riscaldamento ci fermeremo, se a 1,5, 1,7 o 2 gradi, ma gli effetti sono già visibili. Ogni volta che assisto a una di quelle giornate terribili penso: “Non importa a nessuno e da dopodomani non importerà più. E questo è solo l’inizio”.
Ma c’è anche un lato elettrizzante: la lotta ai cambiamenti climatici ridefinirà la forma del mondo, le nostre vite, i rapporti tra i paesi. Ogni scenario fra trent’anni sarà irriconoscibile. Quindi il cambiamento climatico mi porta sconforto, curiosità, speranza. Il problema è che mancano strumenti politici per trasformare la preoccupazione diffusa in azione. Da qui nasce la frustrazione: uno spreco politico enorme, in un momento in cui diverse generazioni vorrebbero fare di più ma non sono messe nelle condizioni di agire.
In che modo incide sulla tua vita quotidiana?
Una cosa che mi capita di registrare, anche epidermicamente, sono le turbolenze sugli aerei. Sono aumentate in numero e intensità a causa del riscaldamento globale e per me che odio volare questo significa viaggi più agitati. Più in generale vivo con una vigilanza maggiore. Durante le ondate di calore penso ai miei genitori, con le piogge intense mi preoccupo per chi vive nelle zone colpite. Il cambiamento climatico mi rende più attento ai viaggi e soprattutto alle persone care.
Ha influenzato anche le tue abitudini alimentari?
Sì. Il cibo rappresenta circa un terzo delle emissioni globali di gas serra, ma resta il tema più sottovalutato della mitigazione climatica. Modificare ciò che mangiamo implica un cambiamento culturale e generazionale, perché il cibo è radicato nelle emozioni, nelle abitudini familiari e nella nostra storia personale: in Italia il cibo non è solo nutrimento, è identità, memoria, tradizione.
Idealmente mi importa poco se il mio computer è alimentato da rinnovabili o da gas, ma mi pesa moltissimo rinunciare a un piatto che mi ha insegnato mia nonna. È per questo che la transizione alimentare è più lenta della transizione energetica: richiede un passaggio generazionale. C’è poi un altro aspetto: la secessione mentale tra chi produce e chi consuma cibo. Fino a due generazioni fa tutti conoscevano dei contadini, oggi sono il 3% della popolazione. Molti lavorano in condizioni di sfruttamento nei ghetti agricoli. Non vogliamo vedere come viene prodotto il cibo: questa cecità è funzionale a un sistema che accumula profitti con pratiche devastanti, sia ecologicamente che socialmente.

Qual è il legame tra crisi climatica, agricoltura e filiera alimentare?
Ci sono settori che continueranno a esistere con o senza cambiamento climatico, a cui fondamentalmente non cambia nulla. E ci sono settori a cui cambia tutto, in cui davvero il cambiamento climatico è un’assoluta minaccia esistenziale. L’agricoltura è uno di questi. Non sono negazionisti, vedono gli effetti quotidianamente, ma hanno perso fiducia nella transizione perché schiacciati dal breve termine e da un problema di reddito strutturale. La sostenibilità non può essere scaricata sulle singole aziende: serve una riforma sistemica, a partire dalla Politica Agricola Comune. È fondamentale che l’agricoltura torni a essere un soggetto politico, capace di rappresentare le esigenze di piccole e medie realtà che costituiscono la maggioranza del settore in Italia.
Quando è iniziata la crisi climatica e a che punto siamo oggi?
Per convenzione scientifica si misura dall’era preindustriale. Ma in realtà dovremmo dire che è la crisi ecologica del capitalismo. L’aumento delle temperature non è un effetto collaterale della sola industrializzazione, ma del modello economico predatorio che la accompagna. Il nodo non è tornare indietro, ma immaginare un’era post-capitalista. Guardiamo alla Cina: quella è un’economia capitalista, ma governata non dai privati bensì dallo Stato. Sono aziende di Stato, costruite e progettate secondo logiche di Stato, ed è già un segno che il cambiamento è in atto.
Noi nell’interesse di chi agiamo? Questa è la domanda. Ed è proprio per questo che è utile distinguere: capitalismo e industrializzazione sono due cose che si sovrappongono, ma non coincidono. La vera questione è: quale ruolo vogliamo avere in questo cambiamento? Siamo dentro una crisi che è insieme climatica, politica e culturale, ma soprattutto è una crisi della temporalità. Il nostro senso del tempo è molto più ristretto rispetto alla scala del cambiamento climatico. Anche se stiamo facendo passi avanti enormi nella percezione e nella consapevolezza, fatichiamo ancora a cogliere davvero la dimensione temporale di ciò che sta accadendo. È una crisi dilatata ma inesorabile. Ecco perché per tornare a essere rilevante, deve diventare una questione personale.
Questa intervista fa parte di un ciclo di dialoghi con persone e professionisti provenienti da diversi settori, con l’obiettivo di riflettere sul cambiamento climatico e sulle sue connessioni con la società, la filiera agroalimentare e altri ambiti.
L’iniziativa è promossa da Deafal nell’ambito del progetto Participation 4 Change – Persone al centro del cambiamento, con il sostegno dell’Istituto Italiano Buddista Soka Gakkai, e rientra anche nel progetto CLAY – Creative Learning on Agroecology for Youth, finanziato dal programma Erasmus+.
Informazioni chiave
La crisi climatica è una questione di tempo
Il cambiamento climatico non segue i nostri ritmi: la sua scala temporale è molto più ampia di quella umana. Comprenderlo significa ampliare la nostra percezione del tempo e accettare che gli effetti saranno progressivi ma inesorabili.
Dalla paura alla possibilità
La crisi ecologica genera ansia e impotenza, ma anche curiosità e speranza. Cotugno invita a riconoscere entrambe le emozioni come parte del cambiamento, per trasformarle in consapevolezza e azione collettiva.
Il cibo come frontiera del cambiamento
Il sistema alimentare è tra i principali responsabili delle emissioni globali, ma anche uno dei più difficili da trasformare. Le nostre abitudini alimentari, profondamente culturali ed emotive, richiedono una transizione lenta e generazionale.
Agricoltura e giustizia climatica
L’agricoltura è il settore più esposto agli effetti del riscaldamento globale. Per essere davvero sostenibile deve tornare a essere un soggetto politico, capace di rappresentare le piccole e medie realtà e di incidere sulle politiche pubbliche.
Una crisi politica e culturale
La crisi climatica è figlia di un modello economico predatorio, non solo dell’industrializzazione. Servono nuovi paradigmi post-capitalisti, in cui il benessere collettivo e la giustizia ecologica guidino le scelte politiche e individuali.











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