10 Novembre 2025 | Tempo lettura: 9 minuti

“Dobbiamo scalare le alternative”: intervista a Michele Giuli, l’attivista climatico portato in tribunale da Eni

L’attivista di Ultima Generazione è sotto processo per aver criticato Eni. La sua storia diventa l’occasione per riflettere sul significato e sul futuro dell’attivismo climatico.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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In breve

Il processo contro Michele Giuli, attivista di Ultima Generazione, riaccende il dibattito sulle cause SLAPP e sul futuro dell’attivismo climatico in Italia.

  • Michele Giuli, professore e attivista di Ultima Generazione, è sotto processo per diffamazione e istigazione a delinquere dopo aver definito Eni una “società criminale”.
  • Il caso è stato segnalato da Greenpeace Italia come causa SLAPP – azione legale strategica per zittire chi denuncia abusi di potere.
  • Nonostante la pressione giudiziaria, il movimento continua a riorganizzarsi: “Non c’è paura, ma voglia di costruire alternative concrete”.
  • Giuli invita a passare dalla protesta alla costruzione, unendo associazioni, imprese etiche e finanza solidale per un nuovo modello di società.
  • L’attivista sottolinea che la crisi climatica è anche una questione di potere e di giustizia sociale, non solo ambientale.
  • Il caso solleva interrogativi sul ruolo dei media e sulla libertà di parola nel raccontare i conflitti ambientali.
  • Chi vuole può contribuire alla raccolta fondi legale e sostenere una discussione pubblica più ampia sul diritto di manifestare.

Non sono tempi semplici per chi fa attivismo climatico. Il 5 novembre il TAR del Lazio ha archiviato ben 107 denunce contro gli attivisti di Extinction Rebellion che nel novembre 2024 avevano scaricato 5 tonnellate di letame davanti al Viminale per protestare contro le politiche climatiche del Governo e il decreto Sicurezza. Ma restano attivi 33 fogli di via, uno dei quali imposto anche a una persona residente e lavoratrice a Roma.

Pochi giorni prima, il 30 ottobre, c’è stata la terza udienza del processo che vede contrapposti Eni e Michele Giuli, attivista di Ultima Generazione. Eni è la principale multinazionale italiana nel campo della produzione di petrolio: secondo un report di Carbon Majors, sarebbe responsabile, da sola, dello 0,45% delle emissioni mondiali di CO₂ dall’inizio dell’era industriale ad oggi. Michele Giuli invece è un ventinovenne professore di storia e filosofia e attivista di Ultima Generazione, il movimento italiano di disobbedienza civile nonviolenta che denuncia l’inazione politica di fronte alla crisi climatica.

Se vi sembra che ci sia una leggera sproporzione delle forze in gioco, non è una vostra percezione. Greenpeace Italia ha inserito questo caso nell’elenco dei cosiddetti SLAPP, acronimo inglese che sta per Strategic Lawsuit Against Public Participation ovvero causa strategica contro la partecipazione pubblica: azioni legali in cui le grandi aziende usano la sproporzione di potere e disponibilità economiche per intimidire e zittire attivisti, giornalisti o ONG. Una coalizione di ONG, tra cui Reporter Senza Frontiere e Transparency International, ha persino assegnato a Eni il titolo di “Slapp addict of the year” ovvero azienda campione di Slapp dell’anno. 

Michele Giuli
Michele Giuli

In questo caso specifico, Eni accusa Michele Giuli di diffamazione e istigazione a delinquere. Il motivo è un video diffuso sui social in cui l’attivista definiva il colosso una “società criminale” per il suo ruolo nella crisi climatica e per le modalità con cui opera sui territori. Lo abbiamo contattato per farci raccontare la sua situazione legale, ma abbiamo finito per parlare soprattutto di attivismo climatico, politica e persino giornalismo.

Michele, partiamo dall’inizio: puoi raccontarci come è nata la tua vicenda giudiziaria e che cosa è successo esattamente?

La vicenda nasce da un processo per diffamazione che ho avuto in seguito a un video pubblicato qualche anno fa, in cui criticavo in maniera diretta Eni definendola una “società criminale”. Si trattava di una riflessione sui suoi investimenti e sull’impatto delle sue operazioni nei territori in cui opera. Non c’era nulla di inventato: citavo dati, studi e questioni già note, ma evidentemente la cosa è stata ritenuta lesiva dell’immagine dell’azienda. 

Intanto la raccolta fondi che hai lanciato per sostenere le spese legali ha abbondantemente superato i 15.000 euro richiesti, quindi direi che c’è stata una bella mobilitazione.

Sì, la raccolta fondi è andata molto bene. È stata una grande dimostrazione di solidarietà da parte di tante persone e questo mi ha fatto molto piacere.

Casi come il tuo vengono spesso definiti SLAPP, cioè cause legali strategiche intentate per zittire l’attivismo e scoraggiare la libertà di parola. Ti riconosci in questa definizione?

Assolutamente sì. È un caso emblematico di questo tipo. L’obiettivo non è tanto vincere una causa, ma spaventare chi parla, rallentare l’attivismo, creare un effetto dissuasivo. Nel mio caso però non credo che ci sia riuscito: nel movimento non ha avuto un impatto negativo, anzi, in certi casi può persino rafforzare la determinazione delle persone.

Michele Giuli
Il testo della denuncia a Michele Giuli. Credits: Ultima Generazione

Quindi pensi che azioni legali come questa non stiano davvero scoraggiando l’attivismo ambientale?

No, non credo. È vero che oggi il movimento climatico in Italia è meno energico rispetto a un paio d’anni fa, ma questo non dipende da Eni o da altre cause simili. È più una fase di riorganizzazione: c’è stanchezza tra gli attivisti, molti si sono spesi tantissimo e adesso sentono il bisogno di ridefinire strategie e obiettivi. Ma non ci sono paura o scoraggiamento. Anzi, se avessimo più risorse e tempo potremmo perfino trasformare questo caso in un’occasione di mobilitazione.

Come mai pensi che i movimenti climatici siano in flessione?

Le ragioni sono molte. Prima di tutto, poche persone riescono a portare avanti un impegno così intenso e prolungato: è un tipo di attivismo che richiede tempo, energie e spesso anche disponibilità economica. E non è facile, perché non ci sono veri incentivi materiali o politici, come invece accade in altri tipi di lotte, più immediate, dove si percepisce subito il beneficio personale.

Poi c’è una questione economica: la transizione ecologica, per sua natura, non genera vantaggi diretti per chi ha capitali e quindi arrivano pochi finanziamenti e poca possibilità di sostenere le persone che ci lavorano a tempo pieno. Infine c’è anche una sfida interna ai movimenti: dobbiamo imparare a costruire di più, non solo a protestare. Servono progetti, reti, alleanze concrete, esperimenti che mettano in pratica un modello diverso di società.

Quindi, secondo te, la sfida adesso è quella di passare dalla protesta alla costruzione?

Non proprio. Resistere resta fondamentale, diciamo che dovremmo affiancargli la costruzione di alternative, anzi portare su scala più ampia le alternative che esistono, dialogando con attori diversi, come associazioni, imprese etiche, finanza solidale, reti locali, per costruire un sistema nuovo, capace di autoalimentarsi. In questa visione delle grandi azioni che creano disturbo potrebbero diventare dei megafoni per permettere alle alternative al sistema attuale, che già esistono, di crescere, di uscire dal localismo o dalle nicchie e diventare sistemiche. Non abbiamo più tempo per permetterci che le alternative restino piccole e locali.

Michele Giuli

Puoi fare un esempio?

Immagina un gruppo di attivisti che va a bloccare le banche con azioni di disobbedienza civile di massa e nel mentre lavora anche in sinergia con una banca etica o con un fondo mutualistico per spostare investimenti verso le comunità energetiche rinnovabili e queste, a loro volta, reinvestono i proventi in progetti di economia locale, di solidarietà e di autosufficienza.

Allora crei un circuito virtuoso, le persone che vengono a conoscenza del problema attraverso le azioni di resistenza civile vedono subito anche le alternative e possono osservarne i risultati tangibili: l’energia prodotta resta sul territorio, le risorse economiche vengono redistribuite e la transizione ecologica smette di essere un discorso astratto per diventare qualcosa che migliora concretamente la vita di una comunità. Ecco, questo per me è il punto: non basta più dire “no” a qualcosa, non basta la denuncia. Bisogna iniziare a costruire e mettere in pratica su ampia scala i nuovi modelli. Solo così possiamo mostrare che un altro modo di organizzare l’economia e la società è davvero possibile e farlo vedere è molto più potente che spiegarlo.

E la politica? Cosa dovrebbe fare?

La sinistra, in gran parte, non ha ancora capito che la questione ecologica è una questione di potere. Cambiare il sistema energetico e alimentare significa ridistribuire potere e quindi creare nuove forme di giustizia sociale. Eppure, spesso l’ecologia viene vista come un tema laterale, un “di più”, e non come un pilastro centrale della trasformazione politica. Questo ritardo culturale pesa molto, anche sul dialogo con i movimenti climatici, che si trovano a operare in modo isolato, senza un reale sostegno politico.

Secondo te, ha senso oggi parlare di crisi climatica, un tema che riguarda chiunque, in termini di “destra” e “sinistra”?

È una domanda complessa. Io credo che il problema climatico sia universale, ma le soluzioni non sono neutre. La vera transizione ecologica richiede una redistribuzione del potere e della ricchezza, quindi inevitabilmente tocca temi che storicamente appartengono alla sinistra. Però non dobbiamo chiuderci in schemi ideologici: dobbiamo creare spazi di partecipazione aperti, dove anche persone con idee diverse possano collaborare, a partire da bisogni concreti e comuni, come il costo del cibo, l’accesso all’energia, la giustizia sociale. La sfida è costruire luoghi dove questi mondi possano incontrarsi, senza paura delle differenze.

L’obiettivo non è tanto vincere una causa, ma spaventare chi parla, rallentare l’attivismo, creare un effetto dissuasivo

E invece il mondo dei media e i giornalisti cosa possono fare di utile, dal tuo punto di vista?

Penso che i giornalisti dovrebbero andare più a fondo nell’analisi della dimensione organizzativa dei movimenti. In Italia si parla molto di attivismo in termini emotivi o simbolici, ma pochissimo di come ci si organizza davvero: come si costruiscono le campagne, come si raccolgono risorse, come si reggono nel tempo le mobilitazioni. In altri paesi c’è più attenzione a questo aspetto tecnico e credo che sia fondamentale anche da noi: servirebbe a rendere più consapevole l’opinione pubblica e a rafforzare la cultura dell’organizzazione. E poi servirebbero più spazio, più continuità, più linguaggio aggiornato. Il racconto della crisi climatica in Italia – parlo delle testate mainstream – è ancora troppo superficiale, troppo scollegato dalla vita quotidiana delle persone.

Torniamo a te: come si può concretamente aiutarti in questa fase?

Prima di tutto, continuando a sostenere la raccolta fondi, perché le spese legali sono pesanti e il processo non è ancora chiuso. Ma più in generale, quello che mi interessa davvero è che questa storia apra uno spazio di discussione più ampio.

Informazioni chiave

Le SLAPP

Causano un effetto dissuasivo su chi denuncia abusi di potere. Sono azioni legali che le grandi aziende usano per intimidire attivisti, Ong e giornalisti. Ma possono anche avere l’effetto opposto.

Costruire alternative

Giuli invita a un salto di qualità dell’attivismo: dalle proteste alla creazione di sistemi economici e sociali nuovi, collaborativi e replicabili.

Ecologia e politica

La transizione ecologica non è neutra: redistribuisce potere e ricchezza, e richiede quindi scelte politiche coraggiose.

Il ruolo dei media

Il giornalismo italiano, secondo Giuli, deve imparare a raccontare l’attivismo in modo più tecnico e continuativo, mostrando come si organizza e si sostiene nel tempo.