Il racconto della Val Susa della vita in montagna: “La fatica non fa rumore”, ma tiene in piedi una valle
Sedici storie di lavoro, relazioni e cura in Val Susa. Con la pellicola e un metodo lento, Gabriele Scapola racconta la “fatica che non fa rumore” e la politica silenziosa che tiene insieme un territorio.
In breve
La Val Susa raccontata attraverso sedici storie di lavoro quotidiano e cura silenziosa, nel libro fotografico “La fatica non fa rumore” di Gabriele Scapola.
- Sedici storie in pellicola, tra agricoltura, artigianato, alpeggi e piccole attività di valle.
- Un ritorno in Val Susa: dopo anni all’estero, l’autore sceglie di mettere radici e raccontare chi “tiene in piedi” il territorio.
- La “fatica che non fa rumore” come politica della cura: scelte quotidiane che contrastano spopolamento e abbandono.
- Un metodo lento e relazionale, vicino a quello dei video di Italia che Cambia: prima le persone, poi le immagini.
Abbracciare la complessità, non fuggirla. Il sottotitolo de La fatica non fa rumore è già una dichiarazione di metodo. Invece di scegliere una sola immagine della Val Susa – quella turistica da cartolina o quella delle narrazioni più battagliere – il libro di Gabriele Scapola va a cercare tutto quello che sta in mezzo: i gesti ripetuti, le giornate di lavoro, la cura ostinata che tiene insieme un territorio quando i riflettori si spengono. Sedici storie seguono il ritmo delle stagioni e disegnano una valle fatta di mani, attrezzi, linee di pendii, volti. Il paesaggio c’è, ma non è mai uno sfondo neutro: è l’ambiente vivo in cui queste vite stanno in equilibrio.
Val Susa: un ritorno che mette radici
Gabriele Scapola in Val Susa ci è nato, ma per anni ha vissuto altrove. Ha studiato, lavorato, si è spostato tra Italia, Inghilterra e Danimarca, finché ha capito che non gli bastava più passare rapidamente da un posto all’altro: aveva bisogno di appartenenza. «Sono tornato in Val Susa quando ho capito che non mi bastava più “passare” nei luoghi: sentivo la necessità di appartenenza a un luogo, con relazioni che non fossero provvisorie», racconta. Qui ha deciso di mettere radici.
All’inizio non c’era l’idea di un libro. C’era il desiderio di capire chi “tiene in piedi” la valle: chi coltiva, chi trasforma, chi continua a lavorare in condizioni spesso difficili. Anni di incontri, di chiacchiere, di frequentazioni ripetute. Solo dopo è arrivata la consapevolezza che quelle tracce non erano episodi isolati ma un racconto corale che meritava una casa. “La fatica non fa rumore” è quella casa.
Le tre lingue del libro – italiano, inglese e danese – sono il modo che Gabriele ha trovato per tenere insieme la radice e lo sguardo maturato altrove: l’italiano come voce diretta della valle; l’inglese per aprire queste storie a chi vive fuori; il danese come gesto di gratitudine verso un certo modo di pensare la narrazione incontrato negli anni in Nord Europa.

La fatica come politica della cura
Nel libro, la “fatica che non fa rumore” non è un’etichetta suggestiva: è il modo più onesto che Gabriele trova per descrivere ciò che ha visto stando accanto alle persone che tiene dentro il progetto. «La valle è spesso raccontata per il suo lato più battagliero. Stare a lungo qui mi ha però permesso di vedere un’altra dimensione; più quotidiana ma non meno determinata», scrive. È la dimensione delle giornate che si assomigliano, fatte di orari, stagioni, ripetizioni necessarie, senza clamore ma con molta determinazione.
Guardata da lì, la valle smette di essere solo il simbolo di una grande controversia e diventa un insieme di decisioni prese giorno dopo giorno: continuare a lavorare terreni ripidi invece di abbandonarli; rimettere mano a un laboratorio invece di chiuderlo; restare in un mestiere faticoso quando sarebbe più semplice cambiare strada. Ogni scelta tiene in vita un pezzo di territorio, un’economia, una rete di relazioni.
In questo senso la fatica diventa politica, senza bisogno di slogan. È politica perché contrasta lo svuotamento fisico dei luoghi, perché mantiene competenze, presìdi, infrastrutture minime, perché impedisce che certe zone scivolino nell’abbandono, con conseguenze sociali ed ecologiche. La Val Susa è un caso concreto da cui partire per parlare di qualcosa che riguarda molte altre aree considerate periferiche.
Stare con le persone, prima di scattare
Il modo in cui queste immagini nascono è uno degli aspetti più interessanti del lavoro di Gabriele e quello che sento più vicino al nostro modo di fare giornalismo e video. «Tutto parte dalle persone», racconta. «Arrivo come una presenza curiosa, con domande aperte sulle loro scelte di vita e su come si svolgono le giornate tra campi, laboratori e boschi. In questi dieci anni la macchina fotografica non è sempre stata con me: spesso è rimasta in macchina o direttamente a casa».
Prima di scattare costruisce un clima di fiducia. Aspetta quel momento in cui «l’altra persona si sente compresa senza dover spiegare troppo» e la presenza del fotografo smette di essere intrusiva. Allora la macchina entra in scena come un prolungamento naturale dello sguardo. «Questo tempo condiviso non è un passaggio formale: è il cuore del mio agire, una forma di reportage lento in cui il rispetto del ritmo altrui genera immagini che restituiscono dignità e profondità».

La scelta della pellicola va nella stessa direzione: Gabriele scatta con macchine analogiche a rullino, con un numero limitato di fotogrammi che vedrà solo dopo lo sviluppo. «La pellicola è il modo più semplice che ho trovato per costringermi a rispettare il tempo delle cose», scrive. Sapere che ogni fotogramma è limitato lo obbliga a decidere quando vale davvero la pena scattare, ad accettare immagini non perfette, a non riempire schede di memoria sperando che poi qualcosa funzioni. La grana, la materia, l’imperfezione diventano parte del racconto.
Quando con Italia che Cambia entriamo in un luogo per girare un video, proviamo a fare qualcosa di molto simile: non accendere subito la telecamera, non arrivare con la scaletta già chiusa, ma prenderci un tempo per ascoltare e osservare. Solo dopo arriva il “rec”. Per questo, sfogliando “La fatica non fa rumore”, ho avuto spesso la sensazione di riconoscere un metodo condiviso: la relazione prima del contenuto.
Montagna, spopolamento e nuove traiettorie
Molte valli alpine e appenniniche hanno perso abitanti e servizi negli ultimi decenni, mentre altrove si concentrano lavoro e opportunità. Al tempo stesso, negli ultimi anni si stanno muovendo nuovi flussi verso la montagna: persone che decidono di trasferirsi, di aprire attività legate al cibo, all’ospitalità, ai servizi di prossimità. Dentro questa tensione tra svuotamento e ritorni, il libro di Gabriele racconta una traiettoria possibile: non l’idealizzazione del «mollo tutto e vado in montagna», ma l’assunzione concreta di una responsabilità quotidiana.
Nelle risposte non nega le criticità – spopolamento, terreni lasciati andare, economie che faticano –, ma insiste su un punto: conta quante persone si riconoscono, si parlano, iniziano a guardare nella stessa direzione. Non a caso, quando guarda oltre la sua valle, cita esperienze come il Birrificio Antagonisti o la cucina di montagna di Yuri Chiotti in Val Varaita: luoghi dove la stessa fatica discreta ha generato trasformazioni reali, che anche noi abbiamo incontrato e raccontato. Non vengono proposti come modelli da copiare, ma come conferme che certe pratiche possono funzionare in valli diverse se trovano un ecosistema favorevole.

E noi, cosa ce ne facciamo?
“La fatica non fa rumore” può diventare uno strumento per spostare lo sguardo. Per chi vive in Val Susa è uno specchio: riconoscere volti, mestieri, luoghi e prendere atto che tengono insieme molto più di quanto sembri. Per chi guarda da fuori è un allenamento a vedere oltre le immagini scontate, chiedendosi chi, nei territori che attraversiamo, sta facendo il lavoro di cura senza che nessuno lo racconti. Per chi comunica, infine, è un promemoria: ricordarsi che narrare significa esporsi alla complessità dei luoghi e delle persone, non ridurli a slogan.
È qui che sento l’incontro più forte fra il lavoro di Gabriele e quello che proviamo a fare come Italia che Cambia: riconoscere la fatica silenziosa, starle accanto, metterla in circolo senza usarla. La fatica continuerà a non fare rumore, ma se iniziamo a darle parole e immagini all’altezza può diventare, lentamente, una voce collettiva.










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