Caso PFAS: come si è arrivati alla maxi sentenza sugli inquinamenti eterni – 30/6/2025
Condanne record per i vertici Miteni grazie alla mobilitazione popolare; a Budapest un Pride vietato diventa protesta democratica; a New York emerge Zohran Mamdani, il politico che parla alla pancia senza rinunciare alla testa.

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Fonti
#PFAS
Italia che Cambia – Processo Pfas, condanne a pioggia: a Vincenza vince il diritto alla salute e la tutela all’ambiente
#pride #democrazia
Domani – Orbán e i discriminati, a che cosa si è ridotta la vecchia democrazia
#Mamdani
il manifesto – Un socialista per New York. Le primarie dem a Mamdani
Trascrizione puntata
Dopo anni di attesa – e di battaglie da parte di cittadine, cittadini, comitati – è arrivata una sentenza molto importante, che segna un prima e un dopo in uno dei peggiori disastri ambientali mai successi in Italia. Parliamo del caso PFAS in Veneto. I giudici della Corte d’assise di Vicenza hanno condannato 11 ex dirigenti della Miteni – che era l’azienda chimica responsabile dello stabilimento di Trissino – a un totale di 141 anni di carcere. Le condanne vanno da poco meno di 3 anni fino a un massimo di 17. I reati sono pesanti: disastro ambientale, avvelenamento delle acque e bancarotta fraudolenta. Altri quattro imputati sono stati assolti.
Oltre alle condanne penali, ci sono anche i risarcimenti civili: più di 300 le parti civili, e parliamo di decine di milioni di euro di danni da pagare. Solo il Ministero dell’Ambiente – oggi MASE – riceverà 58 milioni.
Ma facciamo un attimo un passo indietro per capire meglio. I PFAS sono una famiglia di sostanze chimiche usate dagli anni Quaranta per rendere impermeabili i materiali, resistenti al calore, ai grassi… insomma, molto versatili. Si trovano in un sacco di prodotti di uso quotidiano: padelle antiaderenti, giacche impermeabili, cosmetici, schiume antincendio. Il problema è che col tempo ci si è accorti che sono anche estremamente persistenti nell’ambiente – per questo vengono chiamati “inquinanti eterni” – e soprattutto tossici, in alcuni casi potenzialmente cancerogeni. Alcuni, come il PFOA e il PFOS, interferiscono con il sistema ormonale e possono causare problemi nello sviluppo di feti e bambini.
In Veneto la questione esplode nel 2013, quando uno studio del CNR insieme al Ministero dell’Ambiente rileva concentrazioni altissime di PFAS in falde, fiumi e acque potabili in un’area enorme, che coinvolge oltre 300 comuni tra Vicenza, Padova e Verona. A quel punto si capisce che la fonte è quasi certamente lo stabilimento Miteni, attivo dal 1968 a Trissino.
Miteni nasce in realtà come centro di ricerca del gruppo Marzotto, poi passa a EniChem e Mitsubishi, e infine viene comprata dal gruppo lussemburghese Icig. Dopo l’emergere dello scandalo ambientale, l’azienda entra in crisi e nel 2018 fallisce.
Nel frattempo la giustizia, con i suoi tempi, fa il suo corso e si arriva alla maxi sentenza di giovedì sera. Ma come si arriva a questa sentenza? Perché non era scontata e parliamo di una sentenza complessiva a 141 anni di carcere, che è persino più alta della richiesta dell’accusa, che chiedeva un totale di 121 anni e 6 mesi. Non è una cosa da poco perché solitamente le condanne si allineano o addirittura si fermano un po’ sotto quanto chiede l’accusa. Qui invece la Corte ha ritenuto i fatti ancora più gravi di quanto già denunciato.
Considerate che è stato un processo durato quattro anni, con più di 130 udienze e un’enorme mole di documentazione tecnica e testimonianze. È stato definito il più grande processo ambientale mai celebrato in Italia. E in effetti lo è: la zona contaminata è vastissima, riguarda oltre 300 comuni e più di 350mila persone potenzialmente esposte. C’è una falda acquifera – la seconda più grande d’Europa – compromessa in modo profondo e duraturo. I giudici hanno riconosciuto che i dirigenti di Miteni erano perfettamente consapevoli della pericolosità dei PFAS, ma hanno scelto di continuare a scaricarli deliberatamente, truccando i sistemi di controllo per risparmiare sui costi. Insomma, non si è trattato di una svista, ma di una scelta consapevole.
E a tutto questo si aggiunge il tentativo finale di sfuggire alle responsabilità economiche con il fallimento della società, che è stato giudicato in parte strumentale: ecco perché tra i reati c’è anche la bancarotta fraudolenta.
Ma – e questa è una parte fondamentale della storia – se oggi possiamo parlare di sentenza storica è anche e soprattutto grazie all’impegno della società civile. Non è stata solo una questione di aule di tribunale: dietro a questo processo c’è un movimento di persone che per anni ha fatto pressione, ha studiato, ha fatto campagne di informazione e denuncia.
Le Mamme No PFAS, Greenpeace, Legambiente, i comitati locali, i medici, i cittadini che hanno fatto analizzare le proprie acque e i propri corpi. Greenpeace in particolare ha condotto diverse indagini indipendenti, ha diffuso i risultati, ha fatto pressione sulle istituzioni. Senza tutto questo lavoro, probabilmente la questione sarebbe rimasta sotto traccia o si sarebbe conclusa in modo molto diverso.
Insomma, è un esempio chiaro di come la giustizia ambientale passi anche – e forse soprattutto – dalla partecipazione attiva e dal coraggio delle persone comuni. Che soprattutto su questioni puntuali e specifiche come questa possono avere un impatto enorme.
Sabato si è tenuto a Budapest il Pride, la più grande manifestazione per i diritti LGBTQ+. Una roba che in molti Paesi europei è un evento ormai tradizionale e partecipato, ma che in Ungheria assume un significato del tutto particolare.
Perché parliamo di un Paese in cui, negli ultimi anni, i diritti delle persone LGBTQ+ sono stati fortemente ridotti da una serie di leggi approvate dal governo di Viktor Orbán. E che il suo governo aveva esplicitamente vietato. A marzo il Parlamento, a maggioranza Fidesz, ha approvato una legge che proibisce eventi che “promuovono o mostrano l’omosessualità o il cambiamento di genere ai minori”. In pratica, un ban su tutti i Pride.
Tant’è che chi partecipava poteva incorrere in multe salate e per gli organizzatori era prevista persino la minaccia di un anno di carcere. Ciononostante hanno partecipato molte migliaia di persone. Circa 100.000 persone, secondo le stime riportate da diverse testate internazionali. Alcune fonti parlano addirittura di oltre 200.000 partecipanti, rendendola una delle manifestazioni più grandi mai viste in Ungheria.
Voglio però leggervi un articolo che parte da questo evento e allarga molto lo sguardo all’intera democrazia. Molto interessante devo dire. Lo scrive Marco Aime, un sociologo che ha sempre dei pareri interessanti, quando scrive. E scrive su Domani: “Ci siamo adagiati su una certezza che si è rivelata fasulla, e ora tutto ci sta scappando di mano. Abitudine, pigrizia, scarsa conoscenza ci hanno portato ad associare quasi inconsciamente la parola “democrazia” al riconoscimento dei diritti umani, al loro riconoscimento e alla pace. Non è così, o meglio non sempre è così. A volte la democrazia si riduce a un semplice e puro meccanismo elettorale, neppure troppo democratico. Basti pensare alle sempre più ridotte percentuali di votanti, per dedurne che non governa chi ha una reale maggioranza di voti, ma chi ha la percentuale maggiore tra i votanti, che a volte sono meno della metà.
Il paradosso democratico è che può arrivare a governare chi democratico non è affatto: Trump, Netanyahu, Putin, Orbán, Modi, Milei sono tutti stati “eletti”, come lo fu Adolf Hitler nel 1933. A questo punto dovremmo chiederci se è democratico un governo in cui i cittadini sono discriminati sulla base del colore della pelle, della religione, dell’etnia o delle idee politiche. È una democrazia quella in cui la libertà di espressione è repressa e l’informazione nelle mani di pochi, che per interesse personale supportano il governo? È democratico un paese che non riconosce i diritti umani e che espelle, rinchiude, deporta donne, uomini, bambini che cercano un rifugio dalla miseria, solo per sopravvivere?
L’illusione postbellica (forse questo termine andrebbe rivisto, in effetti) della metà del Novecento, dopo la sbornia dittatoriale e feroce, sta svanendo. L’equivalenza democrazia uguale giustizia non è più scontata. Se in precedenza poteva accadere che una maggioranza reale poteva ignorare le istanze di una minoranza, dando vita a quella che Gabriel García Márquez chiamava la «dittatura della maggioranza», oggi assistiamo a una dittatura di una percentuale neppure maggioritaria. Spesso le minoranze, cioè quelle il cui rispetto dovrebbe essere l’elemento fondante di una vera democrazia, vengono totalmente escluse da ogni percorso decisionale. Basta notare come tanto a livello europeo quanto a quello italiano il parlamento venga ridotto a mero organo di ratifica delle decisioni della Commissione o del governo.
Nessuna discussione, tempi ridotti, cavilli organizzativi, strategie opportunistiche impediscono ogni confronto. Le decisioni sono state già prese a monte. Vediamo sempre più spesso rappresentanti delle opposizioni parlare, mentre gli esponenti del governo nel migliore dei casi li ignorano, in altri li deridono, li sbeffeggiano.
La vittoria elettorale garantisce l’annullamento dell’altro, questo è il risultato di uno slittamento democratico i cui colpevoli siamo noi cittadini. La nostra indifferenza, l’aver creduto che una cosa conquistata sia garantita per sempre, la scomparsa della memoria che ha ormai perso tutti i testimoni delle tragedie passate, ci ha ridotti a meri osservatori. Le passioni politiche si sono spente nel momento in cui nessuno più guarda al futuro. Inutile stupirsi, se i giovani dimostrano scarsa attenzione verso la politica: primo, nessuno parla di loro e dei loro problemi; secondo, hanno come riferimento genitori che a loro volta si disinteressano sempre di più alla vita pubblica. Inutile rimpiangere le belle bandiere del passato, se le abbiamo ripiegate nel cassetto o appese al muro dei ricordi.
La politica è slancio, è immaginare il cambiamento, lavorare per una società diversa, migliore, seguire un principio in cui si crede, non l’umore giornaliero, condizionato dall’informazione. Non è facile, soprattutto per i giovani, entusiasmarsi per passioni deboli come quelle espresse dalla politica attuale. Servono giganti, non nani per smuovere coscienze in subbuglio e in cerca di punti di riferimento solidi. Così la delusione e l’apatia degli adulti, lo sconforto e il vuoto attorno ai giovani, ci hanno allontanato dalla politica. «La libertà è partecipazione», cantava il mai troppo compianto Giorgio Gaber, e anche la democrazia, quella vera, lo è. È faticosa, forse, sì, ma ne vale la pena.
La sinistra mondiale ha un nuovo idolo, di cui stanno parlando tutti. Si chiama Zohran Mamdani, e il fatto che sia diventato la nuova speranza della sinistra mondiale non ci dice molto su di lui, ma ci dice qualcosa sullo stato di salute della sinistra Mondiale. Perché Mamdani non è stato eletto Presidente o premier di un paese. Anzi, non è nemmeno stato eletto. No. Ha appena vinto le primarie del Partito Democratico per diventare il candidato sindaco di New York.
Ora, non voglio sminuire la cosa. Zohran ha effettivamente alcune caratteristiche interessanti ed è abbastanza paraculo da capire come si vince una elezione. Ed è anche vero che New York non è una città qualunque e che probabilmente diventerà sindaco e poi chissà. Però, ecco, ci dice molto questa cosa sullo stato di spaesamento della sinistra mondiale.
Vabbè, chiusa parentesi, vediamo chi è. È molto giovane, classe 1991, deputato statale, è di provenienza socialista, figlio di un intellettuale e di una regista famosa, Mamdani ha origini ugandesi, ha vissuto in Sudafrica e si è fatto strada nel cuore della politica Usa a modo suo.
Come racconta Francesco Costa, è un tizio di idee socialiste che però ha capito che per vincere un’elezione si deve parlare sul pratico. Non di capitale e redistribuzione, ma di costo delle case, inflazione, costo del cibo. Ha un linguaggio da videomaker, è ironico, goffo, piace alle persone. È populista, anche se con uno stile molto diverso da Trump, ma nel senso che parla delle cose che interessano alla gente. Che è una caratteristica indispensabile per vincere un’elezione, anche se magari quella cosa è solo un sintomo o non è la cosa che riteniamo più importante.
Un suo video che ha fatto il giro del mondo – o almeno del mondo progressista – è quello in cui parla con i venditori di cibo halal nei carrettini di strada. Parte da una constatazione semplice: a New York anche lo street food è diventato inaccessibile. E ci spiega perché: licenze che costano 20mila dollari l’anno, un mercato bloccato da speculazioni vecchie di decenni. E lui cosa propone? Di rimettere mano al sistema delle licenze, in modo che i venditori possano abbassare i prezzi. Cose semplici, concrete, difficili ma comprensibili.
E poi c’è lui: Costa lo descrive come brillante, sorridente, ironico, sempre a suo agio, che corre buffo, parla con la bocca piena, scherza e si prende in giro. È populista, ma senza urlare o cercare lo scontro. Non usa gergo da attivista, ma si rivolge con naturalezza tanto a un giovane quanto a una signora di ottant’anni. Insomma, Mamdani ha fatto una campagna elettorale centrata su un solo tema: il costo della vita. Senza ideologismi, senza slogan astratti, senza lezioni di economia marxista. Ha parlato di affitti, di asili nido, di trasporti, di quanto sia diventato insostenibile vivere a New York. E questo approccio, pratico e martellante, ha pagato.
Ora c’è da vedere come reggerà alla pressione di essere la nuova promessa di sinistra, una aspettativa non facile da reggere.
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