Fine vita: l’addio di Laura Santi nel silenzio della politica – 23/7/2025
Laura Santi ottiene il suicidio assistito in Umbria e riapre il dibattito sul fine vita. Intanto in Giappone l’estrema destra avanza, e in Europa si sfidano pesticidi, tribunali e clima.

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Fonti
#fine vita
il Post – Laura Santi è morta dopo aver avuto accesso al suicidio assistito, infine
Associazione Luca Coscioni – Lettera di saluto di Laura Santi
#Giappone
Corriere della Sera – Elezioni in Giappone, il governo ha perso la maggioranza. Ishiba vuole restare premier. Boom dell’ultradestra
#giustizia climatica
Italia che Cambia – Giustizia climatica: gli ambientalisti sconfiggono ENI in tribunale
#società
il Post – Su internet una minoranza piccola fa la voce più grossa
“Quando leggerete queste righe io non ci sarò più, perché avrò deciso di smettere di soffrire.
Nonostante la mia scelta fosse ormai nota a tutti, questo mio gesto finale arriva nel silenzio e darà disappunto e dolore. Molti saranno dispiaciuti, altri soffriranno per non avermi potuto dare un ultimo saluto, un ultimo abbraccio. Vi chiedo di comprendere il perché di questo silenzio”.
Inizia così la lettera con cui
Cercate di immaginare quale strazio di dolore mi ha portato a questo gesto, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto. Fate lo sforzo di capire che dietro una foto carina sui social, dietro il bel sorriso che potevate vedere giusto un’ora strappato alla routine e ai sintomi in una occasione pubblica, sempre più rara, dietro c’era lo sfondo di una quotidianità dolorosa, spoglia, feroce e in peggioramento continuo. Una sofferenza in crescita giorno dopo giorno. La situazione è stata in evoluzione per anni, poi in tempo reale gli ultimi mesi e settimane. Mio marito Stefano e le mie assistenti l’hanno vista, loro e solo loro e anzi, neppure loro, per forza di cose, potevano essere grado di capire cosa sentissi nel mio corpo, quanto male sentissi, quanta fatica sempre più totalizzante. Non riuscire più a compiere il minimo gesto. Non più godere della vita, non più godere delle relazioni sociali. Che è quello che fa per me una vita dignitosa.
[…]
Ho potuto vincere la mia battaglia solo grazie agli amici dell’Associazione Luca Coscioni, seguiteli e seguite i diritti e le libertà individuali, mai così messi a dura prova come oggi. Sul fine vita sento uno sproloquio senza fine, l’ingerenza cronica del Vaticano, l’incompetenza della politica. Il disegno di legge che sta portando avanti la maggioranza è un colpo di mano che annullerebbe tutti i diritti. Pretendete invece una buona legge, che rispetti i malati e i loro bisogni. Esercitate il vostro spirito critico, fate pressione, organizzatevi e non restate a guardare, ma attivatevi, perché potrebbe un giorno riguardare anche voi o i vostri cari.
Ricordatemi come una donna che ha amato la vita”.
Lunedì 21 luglio è morta a Perugia Laura Santi, affetta da una forma avanzata di sclerosi multipla. Aveva 49 anni e da oltre 25 conviveva con una malattia progressiva e invalidante. È la prima persona in Umbria, e la nona in Italia, ad aver ottenuto l’autorizzazione al suicidio medicalmente assistito. Un diritto che le è stato riconosciuto solo dopo anni di ostacoli, ricorsi, silenzi e una dura battaglia legale contro l’inerzia della sanità umbra.
Laura aveva presentato la sua prima richiesta nel novembre 2022. Le fu respinta: secondo l’ASL di Perugia non rientrava nei criteri definiti dalla Corte costituzionale nel 2019. Poi, con una sentenza del 2024 che ha ampliato la definizione di sostegno vitale, le cose sono cambiate. Ma non troppo. Nonostante un secondo via libera dell’ASL, arrivato solo nel novembre 2024, per mesi non le fu comunicato nulla su tempi e modalità della procedura.
Il 29 aprile, con una lettera pubblica, Laura aveva annunciato l’intenzione di andare in Svizzera per accedere al suicidio assistito. Scriveva di sentirsi vittima di un «calvario», aggravato dalla «inerzia» della Regione Umbria. Poi, a giugno, l’ASL ha finalmente comunicato le modalità di somministrazione del farmaco. Laura è morta lunedì nella sua casa, assistita da personale medico volontario. Il farmaco e la strumentazione le sono stati forniti dall’ASL.
La questione torna a riaprire il dibattito in Italia su come e quando si può decidere di morire. E poi c’è un altro tema, parallelo, che è importante notare: che in Italia, sui diritti civili, ormai da anni le politiche le fanno i tribunali, più che i governi. Cioè: i partiti hanno evidentemente paura di mettersi in gioco su temi che gli appaiono come spinosi e potenzialmente impopolari o comunque divisivi, e quindi nel vuoto della politica spesso è la magistratura, a suon di sentenze, a creare precedenti giuridici e aprire il varco. Lo stesso si può dire sulle unioni omosessuali: proprio ieri la Corte Costituzionale si è espressa con una sentenza storica in cui riconosce anche alla madre intenzionale in una coppia di donne che hanno avuto accesso alla procreazione assistita, quindi alla madre non biologica, l’accesso al congedo di paternità.
Insomma, in assenza di una volontà politica di legiferare su temi centrali, la magistratura si prende uno spazio che qualcuno deve occupare.
“Per tre voti, il Partito Liberaldemocratico (Ldp) che da sette anni ha la maggioranza in Giappone l’ha persa, alle elezioni di domenica 20 luglio, anche nella Camera Alta, dove erano in palio la metà dei 248 seggi totali. Ne ha presi 47, insieme al junior partner Komeito, contro i 50 necessari, mentre l’opposizione se ne è aggiudicata 78. Resta aperta, per la coalizione di governo, la possibilità di legiferare con il sostegno di almeno un partito di opposizione, come già nella Camera Bassa dopo la disfatta dello scorso ottobre.
È la prima volta dal 1955 che un governo guidato dall’Ldp non ha la maggioranza in nessuna delle due Camere”.
Siamo sul Corriere, articolo a firma di Costanza Rizzacasa D’Orsogna, che racconta queste elezioni anomale in Giappone.
Fatemivi riassumere come funziona il sistema politico in Giappone. In pratica vabbé c’è l’Imperatore, che fa il suo, un po’ come il re nel regno unito. Poi c’è un parlamento bicamerale. la camera bassa viene rinnovata ogni 4 anni e in quella occasione si forma anche il nuovo governo.
La camera Alta invece, quella per cui si è votato domenica, si rinnova per metà ogni 3 anni, e non elegge direttamente il premier, che però ha comunque bisogno di una qualche forma di maggioranza anche lì. Quindi ecco le cose si complicano per il premier Shigeru Ishiba, espressione del partito liberaldemocratico, il partito di destra che ha dominato la politica giapponese degli ultimi anni, e che anche alla camera bassa non ha esattamente la maggioranza dei seggi.
Ishiba ha detto che comunque non intende dimettersi, rivendicando la necessità di portare a termine i negoziati con gli Stati Uniti sui dazi, ma il malcontento interno cresce, sia nel suo partito, sia nel Paese. E già si fanno ipotesi su un suo successore.
L’articolo del Corriere racconta anche che a rubare voti al partito di governo non è stato tanto il centrosinistra, che è rimasto stabile, anzi ha perso un seggio, quanto un exploit importante dell’estrema destra, stile trumpiano, tant’è che un articolo sul manifesto parla esplicitamente di “effetto Trump”. Il partito Sanseito, noto per le sue posizioni anti-immigrati e complottiste, ha ottenuto 15 seggi.
Si tratta di un partito con una storia davvero sui generis, nato dal canale YT privato di Sohei Kamiya, che faceva analisi politiche molto conservatrici e un po’ complottiste. Da questa comunità digitale si è formata un’organizzazione politica con il canale YouTube che è stata la base per radunare migliaia di simpatizzanti, molti dei quali sono diventati quelli che oggi chiamano “la rete” del partito.
Kamiya ha promesso di limitare la popolazione straniera al 5% per municipalità, una misura che comporterebbe vere e proprie espulsioni, soprattutto in aree come Shinjuku, dove gli stranieri superano il 13%. Un dato interessante, che va in controtendenza rispetto all’avanzata delle destre nella maggior parte dei paesi, è che Sanseito è andato molto bene soprattutto a Tokyo, dove è stato addirittura il secondo partito.
Qualche altro dato. Cresce l’astensione, in un paese con affluenza in genere molto alte stsvolta ha votato il 58,5% degli aventi diritto. E cresce anche la rappresentanza femminile: 42 donne elette, pari al 33% dei seggi, un record, nonostante il calo delle candidature, ferme a circa il 29% del totale dei candidati. Il fatto che in percentuale le donne elette siano di più delle candidate significa che mediamente gli elettori ed elettrici hanno premiato le candidate donne più dei corrispettivi uomini. E fra l’altro, dato interessante da analizzare, a questo traguardo ha contribuito soprattutto proprio il partito Sanseito, che era quello con più candidate donne e quello con più elette donne, in percentuale.
Da due giorni, da lunedì 21 luglio, in Italia è ufficialmente possibile portare in tribunale i responsabili della crisi climatica. A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione, con una sentenza definita storica da Greenpeace e Re-Common, che insieme ad altre 12 persone avevano citato in giudizio ENI, la Cassa Depositi e Prestiti e il Ministero delle Finanze per i danni causati e futuri derivanti dai cambiamenti climatici.
Le controparti avevano tentato di far cadere tutto sostenendo che in Italia non esistesse la possibilità di intentare una causa civile su questi temi, per “difetto assoluto di giurisdizione”. Ma la Cassazione ha detto chiaramente che no, la giustizia climatica è materia legittima per i tribunali italiani, e anzi ha esteso la possibilità di giudizio anche sulle emissioni delle controllate estere di ENI, perché le decisioni vengono prese in Italia e i danni si sentono anche qui.
È la prima volta che in Italia si afferma in modo così netto che chi contribuisce in modo significativo alla crisi climatica può e deve risponderne in sede giudiziaria. Significa che il contenzioso proseguirà nel merito, e che non ci si potrà più nascondere dietro l’argomento che “sono scelte politiche”, o che “non è competenza dei giudici”.
Il segnale è potente: non solo è legittimo fare causa alle grandi aziende fossili, ma è anche doveroso farlo se ci sono evidenze di responsabilità. Si apre una nuova stagione per il diritto ambientale in Italia, in linea con quanto già accade in altri paesi come Paesi Bassi, Francia e Germania, dove i tribunali hanno già condannato aziende e Stati per inazione climatica.
Una notizia che segna un precedente importante, perché il cambiamento climatico non è più solo una questione politica o scientifica, ma diventa anche una questione giuridica. E in tribunale, ora, si può finalmente chiedere giustizia.
In Francia, una legge sull’uso dei pesticidi sta creando un caso politico nazionale e ha portato oltre 1 milione di persone a firmare una perizione per fermarla. La cos interessante, una delle cose interessanti di questa storia, è che a innescare tutto è stata Eleonore Pattery, studentessa che lo scorso 10 luglio ha lanciato una petizione contro il disegno di legge presentato dal senatore repubblicano Laurent Duplomb, definendolo «un’aberrazione scientifica, etica, ambientale e sanitaria». La petizione, appunto, ha superato un milione di firme, un risultato clamoroso e senza precedenti che ha imposto il tema all’agenda politica.
Ma di che parliamo? Il disegno di legge – già approvato – riammette in Francia l’acetamipride, un pesticida della famiglia dei neonicotinoidi vietato finora nel paese ma autorizzato nel resto d’Europa. La misura è stata pensata per sostenere produttori di barbabietole e nocciole, semplificando anche autorizzazioni per allevamenti e irrigazione. Ma ha sollevato un’ondata di critiche: apicoltori e ambientalisti temono per la salute delle api, mentre medici e ricercatori sottolineano i possibili effetti cancerogeni sull’uomo.
Il principale sindacato agricolo sostiene la legge, avvertendo che senza un allentamento delle regole l’agricoltura francese rischia di scomparire. Ma il fronte contrario è ampio: la petizione ha superato la soglia simbolica del mezzo milione di firme, che permette un dibattito parlamentare, anche se non vincola a una nuova votazione. La presidente dell’Assemblea, Yaël Braun-Pivet, e l’ex premier Gabriel Attal si sono detti favorevoli a discutere la questione.
E ora? Il presidente Macron si trova stretto tra legge e opinione pubblica. Secondo il costituzionalista Benjamin Morel, la promulgazione è un obbligo costituzionale, ma Macron potrebbe decidere di bloccarne l’applicazione pratica, non pubblicando i decreti attuativi, oppure modificarli per limitarne l’impatto.
Insomma, quella che era partita come una battaglia da parte di una studentessa è diventata una questione di democrazia ambientale, che mette in discussione i confini tra legge, consenso popolare e lobby agroindustriali.
Se il mondo fosse come i social media, vivremmo tutti dentro un ristorante in cui, per riuscire a sentirsi, bisogna urlare sempre più forte. È la metafora utilizzata dallo psicologo Jay Van Bavel in un recente articolo sul Guardian per spiegare una dinamica che conosciamo bene: quella delle opinioni estreme che dominano lo spazio pubblico online.
Secondo una sua ricerca pubblicata nel 2024, l’iperattività di una minoranza di utenti molto rumorosa, incentivata dai meccanismi delle piattaforme, crea un’illusione collettiva: quella di vivere in una società molto più polarizzata, arrabbiata e divisa di quanto non sia in realtà.
Il dato più eclatante? Il 97% dei post politici su X proviene dal 10% degli utenti, e appena lo 0,1% condivide l’80% delle fake news. Questo non solo altera la nostra percezione della realtà, ma può spingerci – per conformismo o paura di sentirci isolati – ad adattarci a opinioni che in realtà non condividiamo. Un fenomeno noto come “ignoranza pluralistica”.
La buona notizia? Alcuni studi suggeriscono che possiamo invertire la rotta: educazione all’uso critico dei social, più consapevolezza del funzionamento degli algoritmi, e un uso più intenzionale dei nostri feed. In fondo, come dice Van Bavel, «dietro ogni thread provocatorio si nasconde una maggioranza silenziosa».
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