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19 Settembre 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Per superare lo stallo sul clima serve una nuova governance planetaria – 19/9/2025

Un articolo di David Van Reybrouck propone un nuovo modello di governance planetaria basato sulla partecipazione diretta dei cittadini e sulla centralità del sistema Terra.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Trascrizione episodio

Un saggio di David Van Reybrouck ricostruisce la storia della diplomazia moderna e ne analizza i limiti di fronte alla crisi climatica, proponendo un nuovo modello di governance planetaria basato sulla partecipazione diretta dei cittadini e sulla centralità del sistema Terra.

La diplomazia è morta. Viva la diplomazia planetaria!

C’è un articolo uscito sulla rivista australiana Aeon, tradotto in italiano su Internazionale, fra l’altro come articolo di copertina, che è di quegli articoli che meritano una trattazione approfondita. Perché parla di sistemi di governance applicati alle politiche climatiche. Quindi, ecco, chi segue abitualmente questo format potrà immaginare la sensazione orgasmica che ho provato nel leggerlo. 

Io oggi provo a raccontarvelo, e dedicherò tutta la puntata a quest’unico argomento, perché ne vale la pena, ma se avete modo leggetevi l’articolo per intero. Ah – ringrazio Daniele, un nostro abbonato, per la segnalazione -.

L’autore dell’articolo è David Van Reybrouck, storico, giornalista e autore del celebre saggio “Contro le elezioni”, che voi consiglio altrettanto di leggere, in cui mette in discussione la democrazia rappresentativa così come la conosciamo oggi e propone un ritorno al sorteggio dei cittadini come forma di partecipazione politica. 

Ecco, in questo nuovo pezzo Van Reybrouck fa un ulteriore passo in avanti e immagina, a partire dal fallimento della diplomazia climatica, cioé dal constatare che come umanità non stiamo prendendo le decisioni che servono con la velocità e la risolutezza necessaria, immagina come potrebbe funzionare una assemblea che possa prendere le decisioni che servono per affrontare il cambiamento climatico. 

Tutta la prima parte dell’articolo, che vi riassumo molto sommariamente, è una storia della diplomazia, dalla nascita ad oggi. In pratica l’autore spiega che la diplomazia moderna nasce nel Seicento. Prima esistevano già trattative tra imperi, ovvio — i maya, gli egizi, i cinesi, gli indiani avevano sistemi diplomatici anche molto sofisticati — ma si trattava di una diplomazia che coinvolgeva sempre la figura del sovrano in quanto persona. 

Quello che cambia nell’Europa del Seicento è il soggetto della diplomazia: non è più il sovrano, ma lo Stato in quanto entità astratta. È la famosa ragion di stato, l’idea che in nome dello stato sovrano si debbano perseguire determinate strategie politiche e perseguire certi interessi nazionali.

Nasce così un corpo diplomatico permanente, con ambasciatori stabili, con l’idea che parlare e trattare sia preferibile al fare la guerra. Questa diplomazia, fatta di rapporti bilaterali tra stati sovrani, trova la sua consacrazione con la pace di Vestfalia nel 1648, dopo la devastante guerra dei trent’anni.

E così va avanti per circa un secolo e mezzo. Poi, spiega l’autore, arriva il secondo atto, la versione 2.0, quella del multilateralismo. L’anno simbolico che sancisce il passaggio stavolta è il 1814, con il Congresso di Vienna. Dopo le guerre napoleoniche, l’Europa è in pezzi e serve un nuovo equilibrio. 

Metternich, il ministro degli Esteri austriaco, capisce che la diplomazia deve diventare qualcosa di più: non solo negoziati uno a uno tra due Stati, ma concertazione tra molti. Da lì in poi, questa logica multilaterale prende piede: dalla conferenza di Berlino che spartisce l’Africa (1884) alle convenzioni dell’Aja, al trattato di Versailles del 1919, fino alla creazione dell’ONU nel 1945.

Adesso però siamo di nuovo in un momento di crisi e di passaggio. Perché nel frattempo sono emersi problemi nuovi da gestire, di una portata diversa. Qui Reybrouck tira in ballo il cambiamento climatico, e spiega come fin da subito si sia applicata la logica del multilateralismo a un problema che però aveva una scala e una complessità diversa. Leggo:

Non fu un caso se il classico modello di negoziazione multilaterale fu scelto quando, a partire dagli anni Settanta e Ottanta, emerse una minaccia alla pace mondiale del tutto nuova: il cambiamento climatico. Come ci si poteva salvare da quell’inferno? 

Nel 1988 fu istituito l’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), seguito nel 1992 dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, firmata da 166 Paesi e oggi sottoscritta da 198. Il suo massimo organo decisionale è la conferenza annuale delle parti (COP), che ha prodotto il Protocollo di Kyoto (1997) e l’Accordo di Parigi (2015). 

La politica climatica internazionale è quindi l’erede diretta di quattro secoli di storia diplomatica. Dal Seicento e dal Settecento (primo atto) ha ereditato il concetto di Stati sovrani; dall’Ottocento e dal Novecento (secondo atto) la volontà di impegnarsi in un dialogo multilaterale. Ma così la “ragion di stato” — l’interesse illuminato della politica mondiale antropocentrica — è stata posta al centro della nascente geopolitica planetaria. E questo non poteva non avere conseguenze.

Ed è qui che nasce l’illusione: che basti mettere attorno a un tavolo dei rappresentanti degli Stati per risolvere problemi globali. L’ONU, la COP, l’IPCC: tutto si basa su questa premessa. Ma oggi quella logica si sta rivelando insufficiente”. E in effetti i risultati prodotti da questi giganteschi incontri fra stati sono spesso deludenti.

Leggo più avanti: “<È un pacchetto storico per accelerare l’azione sul clima, ha detto il presidente  Sultan Ahmed al-Jaber alla fine della Cop28 a Dubai, nel dicembre 2023. <Abbiamo un riferimento ai combustibili fossili nel nostro accordo finale. Abbiamo contribuito a ristabilire fede e fiducia nel multilateralismo. E abbiamo dimostrato che l’umanità può unirsi per aiutare l’umanità”.

L’accordo è stato salutato come «una vittoria diplomatica» dal New York Times, «un’intesa epocale» da Le Monde e «un consenso storico d’importanza decisiva» dall’agenzia cinese Xinhua. La ragione principale era una riga che esortava i Paesi a cominciare «un progressivo allontanamento dai combustibili fossili». Un linguaggio così esplicito era una novità assoluta in 28 anni di COP. C’era però qualcosa di bizzarro in quell’entusiasmo. 

Perché c’erano voluti quasi trent’anni per riconoscere qualcosa che la scienza aveva dimostrato da tempo? I negoziatori sapevano da decenni che il cambiamento climatico è dovuto alle attività umane, che i combustibili fossili causano più del 75% delle emissioni di gas serra e che perfino un riscaldamento modesto ha gravi conseguenze. Sapevano anche che il 2023 era stato l’anno più caldo mai registrato. Allora perché si sono limitati a «esortare» i Paesi ad «allontanarsi» dai combustibili fossili «entro il 2050» e in modo «ordinato», senza impegni vincolanti?”

Insomma, quello che dice Van Reybrouck è: il sistema diplomatico ottocentesco e multilaterale non è adatto ad affrontare questa roba. Abbiamo superato sei dei nove limiti planetari individuati dagli scienziati. Il clima impazzisce, la biodiversità crolla, le sostanze chimiche si accumulano, gli oceani si acidificano. Ma il sistema diplomatico è ancora quello costruito per evitare guerre tra Stati, non per affrontare il collasso del sistema Terra.

E non è solo una questione di inefficienza: è una questione strutturale. E così le COP diventano ogni anno più grandi e più costose, ma anche più inefficaci, spesso una fiera delle lobby, soprattutto fossili. 

Il problema, dice Van Reybrouck, è che il multilateralismo classico — quello fondato sulla negoziazione tra stati sovrani — non funziona più. È stato pensato per risolvere conflitti tra nazioni, non per affrontare una crisi che riguarda il sistema Terra nel suo complesso. È un problema verticale che stiamo cercando di affrontare con strumenti orizzontali. Come cercare di riparare un motore a reazione con gli attrezzi per la bicicletta.

Il risultato è che le COP crescono di dimensione ma perdono efficacia. E intanto, chi prende davvero le decisioni non sono i cittadini, ma le lobby. A Dubai, nel 2023, c’erano più di 2.400 lobbisti del fossile, più di tutte le delegazioni scientifiche, indigene e dei Paesi vulnerabili messe insieme.

Allora che fare? Perché poi arriva la pars construens. Van Reybrouck propone un cambio radicale di paradigma: passare dalla raison d’État alla raison de Terre. Non più l’interesse nazionale al centro, ma quello del pianeta. Non più una governance fondata sul principio della sovranità statale, ma una diplomazia planetaria capace di rappresentare davvero gli interessi di tutti gli esseri viventi, umani e non, presenti e futuri.

Che sembra una roba molto campata in aria, detta così. però in realtà un esperimento del genere c’è già stato, e ha funzionato. Leggo: “nell’ottobre 2021 si è tenuta la prima Assemblea globale, iniziativa informale notata dal segretario generale ONU António Guterres e dal presidente della COP26 Alok Sharma. 

Con l’aiuto di un database NASA sulla densità di popolazione, gli ideatori hanno generato un campione casuale di 100 punti nel mondo; in ciascun punto, referenti locali hanno selezionato 4–6 cittadini comuni. Da 675 candidati è stato estratto un gruppo di 100 partecipanti, riflettendo — per quanto possibile — età, genere, provenienza, reddito, istruzione e atteggiamento sul clima. […]

Con supporto informativo e traduzioni, queste persone hanno elaborato la Dichiarazione dei popoli per il futuro sostenibile del pianeta Terra: un appello per «una Terra florida per tutti gli esseri umani e le altre specie, per tutte le generazioni future». La dichiarazione sosteneva l’Accordo di Parigi (non contro il multilateralismo, ma oltre), chiedendo: equa ripartizione delle responsabilità in base a emissioni storiche e capacità; processi inclusivi per i Paesi vulnerabili; diritti ambientali nella Dichiarazione universale; protezione giuridica contro l’ecocidio; educazione climatica per tutti; una transizione equa con sostegno ai Paesi poveri e responsabilità condivisa tra cittadini, governi e imprese. 

In dodici settimane, avevano fatto più di quanto la COP abbia fatto in trent’anni. Immaginiamo che un’assemblea globale del genere diventi parte integrante delle COP: dopo una fase preparatoria online che coinvolga milioni di persone, un campione di mille individui, rappresentativo della diversità del mondo, partecipi alla conferenza nella “zona blu” decisionale, con accesso alle migliori conoscenze scientifiche e la possibilità di ascoltare attori istituzionali, società civile, imprese, comunità indigene. Avrebbe bisogno di trent’anni per affermare l’ovvio — uscire dall’incubo fossile il prima possibile? Probabilmente no. 

Porterebbe la protezione planetaria su un altro livello: diplomazia planetaria. Idee simili stanno avanzando. Laurence Tubiana (architetta dell’Accordo di Parigi) e Ana Toni (segretaria clima del ministero dell’Ambiente brasiliano e responsabile della COP30 di Belém) hanno argomentato in The case for a global climate assembly la necessità di un’assemblea globale dei cittadini. Nei Paesi del G20 il 62% la sostiene; in Brasile, India, Indonesia, Messico e Sudafrica oltre il 70%; in Kenya l’80%. Il Brasile promette una “COP del popolo” a Belém”. 

Ci sono diversi esperimenti di questo tipo in essere, l’autore ne cita alcuni e poi riflette sulla necessità di prendere spunto da culture che non siano solo quella occidentale, verso tradizioni filosofiche come il tianxia cinese, l’ubuntu africano, il vasudhaiva kutumbakam indiano, che parlano tutte — in modi diversi — di interconnessione, di bene collettivo, di unità planetaria. Idee che potrebbero ispirare una diplomazia del terzo atto, finalmente all’altezza della sfida.

Conclude Van Reybrouck: “È tempo di sviluppare un nuovo modello geocentrico — non astronomico ma filosofico: porre il sistema Terra al centro del nostro modo di pensare e agire, facendo della raison de Terre la chiave di volta della governance globale. Attingendo a tradizioni filosofiche e spirituali diverse, questa consapevolezza può guardare oltre gli interessi delle generazioni attuali e oltre le sole preoccupazioni umane, abbracciando il futuro lontano e la vita più-che-umana. 

Come ha chiesto all’unanimità l’Assemblea globale: «una Terra prospera per tutti gli esseri umani e le altre specie, per tutte le generazioni future». Più di quanto crediamo, siamo già passati dall’Illuminismo all’età dell’interconnessione. Ora va progettata una diplomazia adatta a questa realtà. È tempo di governance planetaria”.

Ecco questo era l’articolo. Devo dire molto interessante. Il modello proposto dall’autore è un modello che si chiama democrazia deliberativa ed è sicuramente molto adatto per affrontare tematiche del genere, perché supera concetti di elezioni, proporzionalità e disinnesca molte delle dinamiche che invece vengono generate dai meccanismi basati sulla maggioranza. 

Certo, c’è uno scoglio enorme fra fare esperimenti in questo senso, ce ne sono molti, anche l’assemblea dei cittadini per il clima francese di qualche anno fa era una roba simile, e dare a questi organismi un reale potere decisionale. Perché il rischio è che, prendiamo la COP del popolo brasiliana, resti una cosa carina ma innocua che serve a fare da cornice colorata ai luoghi dove si prendono le decisioni vere, che invece restano i luoghi della diplomazia classica.

Comunque, ci sta che sia un passaggio inevitabile, una fase di transizione da un modello a un altro. Un modo che abbiamo come genere umano di testare, rodare questi modelli, prenderci familiarità, iniziare a fidarci, prima di fare il grande salto. Fino a qualche anno fa se dicevi a qualcuno che un buon modo per prendere decisioni era estrarre gente a sorte, ti avrebbe guardato male. Oggi probabilmente anche, ma un po’ meno. Continuare a parlare di queste cose, a proporre questi modelli probabilmente non porterà a cambiamenti immediati, ma può creare una densità culturale sufficiente per cui poi, a un certo punto, qualcuno li inizierà a usare sul serio, e poi qualcun altro, e così via.

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